Recensione Fermenti n. 240, anno XLII (2013)

Fermenti n. 240, anno XLII (2013)
Periodico a carattere culturale, informativo, d’attualità e costume
Fermenti Editrice – Roma – 2013 – pagg. 681 – € 26,00
Numero da collezione

 

 

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La rivista “Fermenti” n.240 è composita e densa nei suoi contenuti e può essere sicuramente considerata storica, nel panorama italiano odierno, essendo iniziata la sua pubblicazione nel 1971.
Va sottolineato che il presente numero si definisce da collezione per la qualità e la complessità dei suoi argomenti, nonché per la sua estensione.
“Fermenti” è visualizzabile anche su Internet sul sito (www.rivistafermenti.it ) e su Facebook e Twitter.
Ha una periodicità quadrimestrale ed è diretta da Velio Carratoni, poeta, narratore, critico letterario, giornalista, editore, nonché fondatore della rassegna.
E’ da notare che Fermenti è pubblicata con il contributo della Fondazione Marino Piazzolla di Roma, diretta dallo stesso Carratoni, istituzione che ha in catalogo testi di autori europei e internazionali (www.fondazionepiazzolla.it).
Da mettere in rilievo che lo stile di “Fermenti” si mantiene costantemente alto.
Nel panorama italiano odierno delle riviste letterarie e d’arte cartacee, “Fermenti” è una delle più longeve e ora è disponibile anche in PDF
Non a caso questo numero è costituito da oltre seicento pagine, mentre la maggior parte delle altre riviste, anche semestrali, non raggiunge le cento.
Molte pubblicazioni del settore hanno termine dopo un breve o brevissimo periodo di tempo, a partire dal loro inizio.
Quanto affermato avviene per vari motivi, tra i quali, spesso, quelli economici.
Notevolmente selettiva la scelta dei materiali che compongono “Fermenti”
Numerosi,, tra i più importanti poeti, critici narratori e artisti, hanno pubblicato, nel corso del tempo, su “Fermenti” e l’inserimento nei vari numeri dei nomi di Giacinto Spagnoletti, Dario Bellezza, Gualtiero De Santi, Donato Di Stasi, Flavio Ermini, Lucio Zinna, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Lenti, Gemma Forti, Mario Lunetta, Domenico Cara, Umberto Piersanti, Valentino Zeichen, Franco Buffoni. Stefano Lanuzza, Marcello Carlino, Antonio Spagnuolo, fino a Velio Carratoni, dimostra l’efficace riuscita di questo metodo.
Anche molti promettenti autori giovani sono stati ospitati nella rivista con saggi, recensioni, testi poetici e in prosa..
“Fermenti” non è solo una dispensa che si occupa di poesia e critica letteraria.
Ha anche contenuti che riguardano informazione, attualità, narrativa, costume, cinema, teatro, arte, storia, traduzioni e riproposte.
Scorrendo il sommario di questo numero di “Fermenti”, incontriamo le seguenti sezioni: Anteprima, La critica letteraria oggi in Italia –Terza parte, Saggistica, Bloc Notes, Parlar franco, Narrativa, Traduzioni, Riproposte, Fotografia,, Arte, Poesia Aforismi, Musica, Teatro. Cinema, Interviste, Recensioni.
In copertina è raffigurata un’immagine di Giulia Napoleone, intitolata Rimanenza VI, maniera nera, 2001, icona di tipo astratto ed informale, costituita da striature irregolari, dalle tinte rosa lilla, che si stagliano su uno sfondo blu cobalto.
Ci si può chiedere come, in una società come la nostra, dominata dai mass-media, televisione e internet, dai quotidiani e i rotocalchi, come possa trovare i suoi spazi questa rivista.
La mentalità insita nella nostra contemporaneità, che risente dell’egemonia dei valori falsi del consumismo, non a caso, è molto distante dalla concezione che è sottesa alla costruzione di una simile opera.
“Fermenti” si configura, come una visione, una panoramica esauriente, che va oltre l’acrisia dei tempi della dittatura mediatica e della cultura spazzatura.
Per emergere dal livellamento dei valori e dalla banalizzazione, che caratterizzano la nostra società, è incontrovertibile che ci si debba occupare di poesia, critica, narrativa, pittura, teatro, cinema e fotografia, oltre che del costume, del sapere in generale.
Allo scopo del raggiungimento di una definizione più alta dei veri valori universali, del progresso e della civiltà, l’essere umano, che si trova a vivere nel postmoderno occidentale, proprio attraverso l’assimilazione di cognizioni elevate, risultato della creatività,. arriva alla percezione della sua essenza e ad una profonda e precisa visione del mondo.
Va ribadito che è basilare considerare il legame inscindibile tra arte e società.
Secondo tale nesso la prima risente fortemente della seconda, come Focault ha bene messo in luce.
Nel nostro tempo, per superare l’appiattimento della vita, causato in gran parte dai mass-media,“Fermenti” emerge come un serbatoio di nuove, aperture artistiche e intellettuali.
Tali capacità danno vita all’immaginario, attraverso la formazione mentale e la grazia, nelle sue multiformi espressioni..
“Fermenti”, nella sua struttura, supera di gran lunga l’involucro tout-court.
Ciò avviene perché il testo è ben calibrato nella sua costante forte prerogativa delle tematiche.
La rivista è connotata da una notevole compattezza, fattore che ne caratterizza la linea.
Nell’irrealizzabilità di un’esauriente ricognizione di tutte le sezioni dalle quali è costituita “Fermenti” n 240, ci soffermiamo su un certo numero di articoli, poesie e scritti di narrativa dell’insieme, che ci sembrano i più importanti..
Incontriamo un’analisi sulla situazione della critica letteraria oggi in Italia di Tiziano Salari, Poesia e filosofia alla fine della tradizione occidentale; per la saggistica da segnalare il saggio di Gualtiero De Santi, Una vita violenta in galiziano, l’articolo di Francesca Medaglia, Lo zar non è morto: la scrittura a più mani del futurismo, Mi piace rimare di Luana Salvarani, Il tempo del Nord di Vincenzo Guarracino, Visioni del cantare ciclico di Giovanni Fontana, Emilio Coco: la poesia umile di Canio Mancuso, L’avanguardia degli anni sessanta. Tanto rumore per invocare il silenzio di Velio Carratoni, Quando la “commemorazione” non è rimozione di Antonino Contiliano, Esprimersi da femmine per collegarsi con il mondo di Velio Carratoni.
Dense le rubriche di cinema (Giuseppe Panella, Sarah Panatta e Lapo Gresleri), teatro (Luca Succhiarelli), sulle recensioni, sulla poesia, sulla narrativa, sull’arte.
Pregevoli gli scritti di Gualberto Alvino nella sezione “Bloc Notes”, che hanno per oggetto autori dell’altra letteratura, esaminati con notevole acribia e in modo originalissimo
I nomi presi in considerazione dal nostro sono quelli di Giovanni Nencioni, Alessandro Baricco, Giovanni Fontana, Nicola Bultrini, Salvatore Claudio Sgroi, Sandro Sinigaglia, Edoardo Albinati, Angelo R. Pupino, Arnaldo Colasanti, Gianfranco Contini, Giovanni Tesio, ecc.
Molto acuta l’analisi compiuta da Alvino, che si basa unicamente sull’aspetto testuale, il titolo, la storia della scrittura.
Il rimanente è contingente, privo d’importanza ai fini della ricerca; il metodo del nostro consiste nel rapportarsi con l’essenza delle scritture, rimanendo fuori dalla massa.
Molto completa la panoramica sui materiali video e audio presenti sul sito di “Fermenti Editrice”, che hanno per oggetto presentazioni e interventi critici su poeti e narratori novecenteschi.
Elevata la pregnanza delle parti di poesia e narrativa.
In Anteprima, che apre il numero, leggiamo il saggio del poeta e critico Flavio Ermini, intitolato Il deserto e il mare in tempesta.
Nello scritto il deserto stesso e l’acqua vengono letti come simboli, il primo dell’annientamento, il secondo della nascita e della vita stessa.
Del pericolo di un mondo che diventi deserto hanno parlato Leopardi, Nietzsche e Heidegger.
Scrive l’autore che l’uomo favorisce il deserto e si condanna a perdersi; si può parlare di degradazione dopo l’esilio degli dei.
Rimaniamo presi nella trama dell’illusione (l’illusione del potere e del successo, della felicità ad ogni costo); in quanto esseri umani vogliamo cose contrarie alla nostra vera natura.
Infatti, nel nostro fugace passaggio terreno, ci lasciano alle spalle territori aridi.
Fondamentale è la perdita dell’unità primigenia tra uomo e natura.
L’uomo è soggiogato dal meccanismo consumo-spreco, che produce scorie.
Il tempo va considerato come la sostanza stessa delle cose e non come una forma vuota o aggiunta..
Ma in che modo possiamo svolgere il compito di fermare il deserto? Forse spingendoci verso un’alterità che contiene ancora elementi del sensibile primigenio.
Non c’è altro modo di risolvere il problema; si deve ricercare una discontinuità che non sia mero accidente della continuità, ma davvero una radicale trasformazione dell’assetto culturale attuale.
E’ proprio andando incontro alla multiforme bellezza della natura e della vita che l’uomo può capire che la sua posizione non deve coincidere con quella del carnefice, determinata dal deserto stesso.
In La critica letteraria oggi in Italia -Terza parte. nel brano Poesia e filosofia alla fine della tradizione occidentale di Tiziano Salari, è espressa l’idea, secondo la quale, parlare del primo Novecento, restando nell’ambito dei limiti geopolitici della lingua italiana, significa muoversi in un’area periferica, in cui si riflettono smorzati e tardivamente i temi delle grandi e tragiche motivazioni della grande letteratura della crisi; paradossalmente, esaminare il Secondo Novecento, nell’ambito della letteratura nazionale, dovrebbe affiancarci immediatamente a quella koinè internazionale della poesia, indipendentemente dalla lingua nella quale viene scritta, nella quale sembra essere venuta meno l’ambizione della grande letteratura del Primo Novecento ed aver dato luogo solo a canoni di basso profilo.
E’ questo uno dei motivi per cui la poesia italiana del Secondo Novecento non riesce a dare un’immagine di se stessa e che probabilmente c’impone la fuoriuscita dall’ambito stesso della letteratura e della poesia, se questa continua ad essere letta secondo metodi e criteri tradizionali.
L’uscita di varie antologie della poesia italiana del Secondo Novecento ci spinge ad interrogarci sui destini attuali della poesia, ma anche a interrogarci tra quanto viene antologizzato e quanto rimane latente o nascosto, o rimosso dal quadro.
Inconcludenza della critica o inconcludenza della poesia? E ciò succede non perché manchino i saggi che si sforzano di essere globalizzanti, ma perché le coperte sembrano essere troppo ristrette o precostituite rispetto agli spazi da coprire.
Parafrasando Wittgenstein, c’è un’immagine che tiene prigionieri i critici di poesia (e gli stessi poeti), e non possono venirne fuori perché tale immagine giace nel loro linguaggio, che continua a ripeterla inesorabilmente.
Ora questa visione ha assunto, nel corso del tempo, varie formulazioni, come poesia e non poesia nei primi quaranta anni del secolo, perdita dell’aureola e abbassamento del linguaggio poetico alla medietà linguistica e altre ancora, ma tutte provocando degli schematismi nell’interpretazione della poesia.
Solo la battaglia contro questo incantamento può, se non altro, diradare le nebbie, e aprire lo sguardo (e il linguaggio critico) verso nuove prospettive.
Come uscirne? Secondo Severino, nella sua sostanza, la filosofia contemporanea è il disfacimento inevitabile della tradizione filosofica e anche della tradizione occidentale nel suo complesso.
Quindi anche della poesia. E anzi, mai come nella nostra epoca, filosofia e poesia sono state implicate nelle stesse problematiche.
In Saggistica da evidenziare lo scritto Una vita violenta “in galiziano” di Gualtiero De Santi.
Non si può affermare con certezza che può essere considerato un autentico avvenimento la pubblicazione in galego (la lingua della grande Rosalia De Castro e del Lorca di alcune liriche amorose, ma insieme di una assai vasta compagine di poeti e di narratori) del secondo romanzo in romanesco di Pier Paolo Pasolini Una vita violenta, ad opera del filologo e linguista, ma anche stilista (per quanto sembri incredibile) Gonzalo Vasquez Pereira.
Egli è autore tra l’altro di un intelligente ed estroso intervento su Marino Piazzolla.
Unha vida violenta, così reca a titolo questa edizione, apparsa solo qualche mese fa.
Una vita violenta è il terzo dei testi pasoliniani, tradotti nella lingua della Galizia.
Il primo punto che importa osservare, e soprattutto marcare, è la conferma della vitalità dell’opera pasoliniana a distanza di ormai mezzo secolo dall’apparizione di Una vita violenta.
De Santi comprende per conoscenza diretta l’affezione che il giovane Vasquez ha da sempre nei riguardi dello scrittore friulano (tra l’altro è stato proprio lui a consigliargli di tradurre proprio Una vita violenta).
In ogni caso scorrere le recensioni comparse in riviste e giornali spagnoli equivale a confermarsi all’idea sulla centralità di Pasolini nella letteratura europea.
In Mi piace rimare, I giovani descolarizzati e la rinascita della poesia. di Luana Salvarani, l’autrice scrive che molte lamentazioni si levano, periodicamente, dal mondo istituzionale della “cultura” e dal vario sottobosco degli “amanti del libro”, frequentatori di blog, forum, appositi festival, quasi tutti un po’enogastronomici nella sostanza.
I giovani non amano la poesia, i giovani la trascurano. Per questo motivo sono fatalmente, superficiali, insensibili, immorali, consumistici.
Le ragazze diventeranno fashion-victims pronte a darsi al primo venuto per una borsetta
I ragazzi crudeli machos dediti allo stupro di gruppo e al narcisismo stradale. Ma è proprio così?
Quasi tutte queste osservazioni e rivelazioni, più o meno ufficiali, non devono essere prese alla lettera; esse sono inficiate da vari errori di metodo e gravi strabismi di fondo.
Le “statistiche” si basano su dati di questo tipo: acquisti pro capite di libri e giornali, prestiti nelle biblioteche.
Facciamo un esempio. Io sono un lettore “professionista” e leggo, traduco, consulto centinaia di libri all’anno, per lo più nel campo storico, artistico, letterario.
Secondo le statistiche non leggo. Non compro libri se non nel mercato remainder-antiquario, che non entra nelle statistiche; non frequento librerie, uso la biblioteca cinque o sei volte l’anno, e non ho mai comprato un giornale in vita mia.
In questo senso non leggo. O meglio, ho le stesse statistiche di lettura di una massaia sessantenne della Padania profonda, o di un ventenne del Sud con la madre analfabeta e la terza media.
Mettiamo pure che i lettori professionisti (che i libri antichi li scaricano dai database digitali delle biblioteche, e quelli anche moderni li comprano in antiquaria perché vanno fuori catalogo in pochi mesi, e naturalmente sono costretti a fotocopiare come pazzi, perché se aspettiamo i tempi d’acquisto e catalogazione delle biblioteche, mummificano prima di iniziare a studiare) “non facciano testo”.
Passiamo, allora, ai lettori “comuni”, e, in particolare, quelli che ci interessano di più, i “giovani”.
Anzi, i giovanissimi 13-17 anni. E non i vari insiemi dei liceali e di figli di professionisti, ma la grande maggioranza di coloro che cessano gli studi esaurito “l’obbligo formativo”, dopo la terza media e un anno o due negli Enti di Formazione Professionale, o che hanno bisogno di una mano per emanciparsi dal diritto-dovere all’istruzione divenuto un brutto incubo, una sequenza di insuccessi inevitabili e umiliazioni immeritate, una spirale di tempo perso e di occasioni perse, quando magari si desidera solo guadagnare qualcosa con le proprie forze..
Le osservazioni riportate nel saggio sono basate su anni di lavoro in laboratori di lettura e scrittura con i ragazzi di terza media, inclusi quelli “difficili”, e sull’attuale partecipazione dell’autrice come formatore in un progetto Icaro, la scuola di “seconda chance” per i giovani che non riescono a conseguire la licenza media e che la scuola non riesce più a gestire.
In Visioni del cantare ciclico, Serge Pey, un poeta nel flusso entropico di Giovanni Fontana, l’autore scrive che Serge Pey, poeta abituato a scandagliare i misteri abissali della poesia attraverso l’esperienza visionaria di una scrittura che sembra emergere dalle fenditure profonde della terra, per proiettarsi nello spazio sonoro, con l’incisività di un rito sciamanico, abbia potuto riconoscere in Sardegna i luoghi e le atmosfere più adatte al suo spirito inquieto e alla sua stravagante genialità, se non altro per la struttura particolare del territorio sardo, rintracciabile nel suo paesaggio, nella sua storia, nella sua lingua, nella sua gente.
Su questo ambito Pey traccia le sue direzioni creative in una sorta di conturbante labirinto costellato di elementi ricorrenti, che fanno da cerniera tra la storia e il mito, tra natura e cultura, tra realtà e immaginazione, tra esterno e interno, che si pongono come centri di gravità di configurazioni poetiche ad altro grado entropico.
Queste aree, questi territori dell’immaginazione, assoggettati a gravitazioni così specifiche, si compenetrano, si sovrappongono, si stratificano, rendendo sempre più complesso il tessuto delle relazioni entro le quali il poeta individua la struttura della sua scrittura.
Esplorando, trafigge gli oggetti con il suo sguardo, ne sfiora le superfici, ne assume le sembianze in un processo di lucida metamorfizzazione attraverso cui scattano momenti d’identificazione con una realtà che reca evidenti segni di alterità prodigiosa.
Questa determinazione si ritrova incessantemente in funzione della dinamica del percorso di volta in volta tracciato, che grazie alla sua complessità e imprevedibilità, alimenta la carica entropica.
Attimo dopo attimo, scena dopo scena, il movimento, occasione di piena rigenerazione sul piano percettivo, determina il rinnovamento delle associazioni degli elementi e delle relative figure poetiche.
Nell’apparente disordine degli oggetti, Serge Pey ritrova i suoi momenti di equilibrio, sempre però immediatamente negati, in tensione verso nuove configurazioni, verso alternative di conoscenza che si pongono come base per ulteriori tracciati, espressione del pensiero divergente.
Del resto, per Serge, “La poesia che collabora/ alla celebrazione/ dell’ordine/ non è una poesia”.
Composito il saggio intitolato L’avanguardia degli anni Sessanta. Tanto rumore per invocare il silenzio di Velio Carratoni,.
Nella sua prima sezione intitolata A ridosso dei narratori, il nostro scrive che l’Avanguardia degli anni Sessanta non trova nelle ragioni della sua origine i fondamenti per sostituire o rifondare la letteratura, che in quel periodo stava dando il meglio di sé.
Tanti titoli usciti in quel periodo lo mettono in evidenza. E gli autori non erano certo di importanza secondaria, come da elenco che segue.
Il doge (Aldo Palazzeschi), La macchina mondiale (Paolo Volponi), Il padrone (Goffredo Parise), La cosa buffa (Giuseppe Berto), Il male oscuro (Giuseppe Berto), Un’anima persa (Giovanni Arpino), La spartizione (Piero Chiara), L’ombra delle colline (Giovanni Arpino), Le furie (Guido Piovene), Il papa (Sergio Saviane), I racconti (Domenico Rea), Rien va (Tommaso Landolfi), Le trombe (Giuseppe Cassieri), La linea dei Tomori (Manlio Cancogni), La cugina (Ercole Patti), La bambolona (Alba De Cespedis), Il passo dei Longobardi (Arrigo Benedetti), Le due città (Mario Soldati), A ciascuno il suo (Leonardo Sciascia), Lo scialle Andaluso (Elsa Morante), Villa di delizia (Carlo Castellaneta), I meridionali di Vigevano (Lucio Mastronardi), La donna al punto (Elio Bartolini), La costanza della ragione (Vasco Pratolini), La ragazza di nome Giulio (Milena Milani), La scoperta dell’alfabeto (Luigi Malerba), Viaggio di ritorno (Aldo De Jaco), Lo scialo (Vasco Pratolini), Racconti (Cesare Pavese), Le storie ferraresi (Giorgio Bassani), Il grande ritratto (Dino Buzzati), Vita di fantasmi (Alberto Savinio), Satire italiane (Giovanni Comisso), Racconti (Francesco Jovine), Se non la realtà (Tommaso Landolfi), Mastroangelina (Corrado Alvaro), Un volto che mi somiglia (Carlo Levi), Bibbia napoletana (Carlo Bernari), Si riparano bambole (Antonio Pizzuto), I nostri antenati (Italo Calvino), Parigi o cara (Alberto Arbasino), La carrozza (Giuseppe Cassieri), Ricordi Istriani (Carlo Stuparich), I grandi ospiti (Giovanni Battista Angioletti), Gli alunni del tempo (Giuseppe Marotta) e tanti altri.
Nel segmento Poeti del tempo ritroviamo un’enumerazione dei titoli dei libri di poesia più significativi usciti intorno agli anni Sessanta: Il canto del destino (Giorgio Vigolo), Il vetturale di Cosenza (Carlo Betocchi), Il seme del piacere (Giorgio Caproni), Poesia ed errore (Franco Fortini), Poesie d’amore (Fabrizio Onofri), La madre e la morte (Alfonso Gatto), Croce e delizia (Sandro Penna), La musa decrepita (Leonardo Sinisgalli), Così parla l’estate (Luigi Fallacara), Scampoli (Camillo Sbarbaro), Versi e poesia (Giacomo Noventa), Poesie (Diego Valeri), Le notti romane (Giorgio Vigolo), Il giusto della vita (Mario Luzi), L’immobilità dello scriba (Leonardo Sinisgalli), Nel cerchio familiare (Giorgio Orelli), La ragazza di nome Carla (Elio Pagliarani), Il male minore (Luciano Erba), Poesie liguri (Cesare Vivaldi) ecc.
L’elenco in questione dimostra che in quel periodo o intorno ad esso non erano operativi in Italia solo Bassani o Cassola.
Molti altri lavoravano bene o meno. Era alquanto pretestuoso cancellare certa tradizione andata avanti fino a quel periodo, con i titoli portati ad esempio.
In campo narrativo qualcuno era giunto ad eliminare la consuetudine della trama, dei periodi, della punteggiatura, dei segni tradizionali, con iniziative stravaganti e irriferibili.
Le opere dovevano essere incomplete. Le parole avevano un significato solo se ritenute parole distaccate.
Via i capitoli, i capoversi. Spazi bianchi per disegnare geometrie fatte di parole e non di cerchi, triangoli, linee.
Insomma un caos pieno. Per infrangere la scrittura ognuno per proprio conto. I componenti definiti “da vagone letto” organizzavano riunioni come se fossero occupazioni.
Rifacendosi al dissenso di massa immaginavano forme pittoresche, ripetendo il dettame: “Non la tua, ma la nostra volontà sia fatta”.
Nel segmento Esponenti significativi il nostro scrive che i più ponderati furono Eco e Balestrini.
Gli altri si dichiararono avanguardisti, ma erano per lo più sbandati e frammentari.
Forse Pignotti si sentiva più conciso, provenendo da esperienze fiorentine. Ma altri come Arbasino costruirono stili che elevarono i propri tentativi, rinnovando il linguaggio senza disgregarlo.
Così arrivò a Fratelli d’Italia e ai suoi numerosi testi ricchi di influssi, di costume, di ironia, di gusto gaddiano del pastiche, tutto in chiave giocosa, liberata da ogni sbavatura sentimentale, antiaccademica.
Insomma uno dei migliori che ha rinnovato come Sanguineti in campo poetico.
Altri come Guglielmi, Giuliani si sono riscattati con una critica sempre innovatrice da discussione mai banale o sciatta.
Gli sperimentali immaginavano un nuovo modo di scrivere, non sempre riuscito, a parte gli autori citati, diverso e rifondato, dopo i felici tentativi di Pizzuto, un vero antesignano che sta a sé.
Tutti volevano sembrare capibanda di stuoli ribelli, ma difficilmente avevano consenso..
Ognuno faceva proprie scelte politiche. Sanguineti faceva il rivoluzionario, ma scriveva poesie difficili e come docente universitario si occupava di classici. Questo il limite per qualcuno.
Limiti ce n’erano molti. Almeno si metteva molto in discussione. Oggi c’è il blocco assoluto.
E nel ’63 si contestava all’impazzata, mentre troppi passatisti riproponevano vecchie formule. Moravia teneva d’occhio i discutenti ma non si mescolava con loro.
Anche se tentava di occhieggiare sospettosamente. Per timore di essere o messo al bando? Ma lui rimaneva un fenomeno di mercato.
E da allora voleva interessarsi di giovani, in epoca ante ’68. Al suo scoccare sembrava aperto a tutto, chiuso per altri versi.
Così ha favorito tanti leccapiedi, forse per troppa apertura non mirata, creando una dittatura che vorrebbe ancora prevalere, non riuscendo a capitolare, applicando metodi da strascichi di cordata programmata.
I Riccardo Bacchelli venivano sepolti per la propria aulicità.
A loro non restava nulla.
Così qualcuno è rimasto tradizionale senza necessità di andare oltre.
E la Spaziani così definisce i presunti innovatori:-“Volevano solo fare rumore. Il resto era vuoto assoluto”.
E’ improprio ammettere ciò?
Umberto Eco è stato il più coerente. Ancora oggi si occupa di saggistica, di tutti i generi che possono abbracciare le sperimentazioni, passando per la narrativa (Il nome della rosa), il costume con interventi sull’attualità in genere.
I suoi scritti degli anni Sessanta sembrano scritti oggi. Pignotti dopo tanti tentativi eclettici si è dedicato alla poesia visiva, Balestrini ha tentato generi diversificati, dalla narrativa (Vogliamo tutto) alla poesia di ricerca, rifugiandosi anche lui nell’arte grafica, nei tentativi editoriali, con riviste divenute storiche come “Quindici” ecc.
Altri si sono persi o sono rimasti inceppati in un ripetuto logoro, non vivificato, sprazzo di novità.
Ai margini di costoro, pur in posizioni di prestigio o di ecletticità, si è mosso Gianni Toti (film narrativa poesia) ma i suoi nobili intenti di ricerca sono rimasti decantati da tanti addetti ai lavori, senza avere avuto un balzo di vero avvio verso considerazioni approfondite.
E di fronte a tanti passi zoppicanti del periodo del Gruppo in poi: gli autori come quelli di cui sopra hanno prodotto tanti lavori che spesso sono caduti nel nulla.
Ma l’intento era quella di non arrendersi a nessun genere..
In Narrativa i seguenti racconti: Gli asini di Giuseppe Neri, Nancy lo sa di Gemma Forti, La ferita di Enzo Villani, La figlia del vicino di letto di Velio Carratoni, Un drappo giallo di Ignazio Apolloni, A. di Silvia Pascal.
In Arte, Memoria, su Giulia Napoleone di Agnese Miralli, la studiosa definisce i lavori pittorici dell’artista come composizioni liriche, cariche di emotivo ascetismo, nel loro fondersi con le strutture analitiche, denotate da razionale progettualità geometrica, a prescindere dal mezzo espressivo utilizzato.
I quadri in questione tornano con la stessa determinata coerenza nella serie pittorica Misura della memoria, presentata nella sala apposita della galleria Miralli.
Il titolo della mostra racchiude già in sé l’unione osmotica tra una dimensione incerta e mistica, quella della memoria e una sistematica esecuzione formale.
A partire dagli anni Sessanta Giulia Napoleone ha sempre prediletto la carta: prima i disegni a china, poi la grafica con l’uso del bulino, del punzone e del berceau alla maniera nera e solo più tardi arriverà il colore negli acquarelli e nei pastelli realizzati dalla seconda metà degli anni Settanta.
Il passaggio al medium pittorico è stato segnato prima dai grandi dipinti del 1999, intitolati Deriva, Venilia e Limite d’orizzonte e poi dalla serie che prende il nome dal verso di Orazio Mutano i cieli, titolo che segnala come l’uso di tecniche differenti non ha mai mutato lo stile profondo del lavoro di Giulia Napoleone, proteso verso una costante ricerca di armonia in uno spazio di quiete delineato, in cui rintracciare le coordinate di sensazioni passate.
L’artista ritorna ora a segnare sottili passaggi di gradazioni tonali, a volte impercettibili, sottolineate solo da lievissime modulazioni.
Il saggio è corredato da opere a colori dell’autrice.
In Le forme in movimento di Claudio Malacarne, di Maria Lenti, leggiamo: Corpi, Mare, Spiaggia, Alberi, Paesaggio, Giardino, Animali, Volti, Corpi in acqua, Tuffatori, Bagnanti, piccoli e grandi, Visi di bambini, Bestiario, Memorie di viaggi, Circostanze di tempo libero, Luoghi all’aperto o al chiuso…
La focalizzazione è ispirata da artisti a lungo studiati, rivissuti, dimenticati e calati in una dimensione del tutto soggettiva: cavalli sul limite del riposo, parrebbe, o fermi e Degas è solo una reminescenza lontana, come Renoir e le occasioni degli impressionisti.
Colore fondo, deciso, pieno. Dei fauves. (Tramonto fauves, 2004 dichiara già la scelta, così come Grandi alberi viola, dello stesso anno).
Il colore che, nel fissare le forme in movimento nelle pennellate larghe, le rende fluttuanti, libere dentro l’azzurro-blu dell’acqua o nell’aria, vive di una luce propria o delle cose d’intorno o di un sole alto sull’orizzonte aperto, nell’infinito oltre la cornice e gettato nelle increspature bianche o dorate del mare.
La ricerca di Claudio Malacarne, uno dei maggiori pittori coloristi del nostro tempo, mantovano del 1956 che ha esposto i primi lavori a metà degli anni Ottanta del Novecento e, quindi in gallerie e mostre italiane, europee, americane, nata con e per “l’urgenza esistenziale di possedere la realtà attraverso l’immagine che la ricrea” (Floriano De Santi) – usando nel suo iter tecniche diverse: matita, inchiostro di china, acquerello, per postarsi infine sugli oli – è proseguita – indagando, appunto, la fluttuazione delle forme, nel punto in cui esse, pur definite, non sono più però definibili. (Come nell’Autoritratto del 2005, intenso di personalità).
Rincorse da istanze tutte concrete di tempi per niente sereni dentro una storia di eventi tragici, infatti, le forme sono sul punto di diventare altro dalla figura di inizio: qui sono fermate in un’immobilità pronta a non essere più tale.
Partecipano, a questo punto, dell’una e dell’altra natura: l’essere in un punto ed essere in procinto di modificarsi per un viaggio che sarà, come desiderio non rimandato di contrasto dallo stato presente.
In questo movimento vi è, tuttavia,, anche una sorta di felicità senza nome.
O vi è espressa una condizione esistenziale “…fatta anche di voglia d’ evasione, di leggerezza, di consapevolezza del valore buono dell’attimo fuggente, dell’ “hic et nunc” (Domenico Montalto in Claudio Malacarne, Diari di viaggio, 2007).
In Poesia, Legoluongo (di Bruno Conte), L’eterno viaggio della poesia in Umberto Piersanti (di Chiara Maranzana), con poesie di Umberto Piersanti, Ballate del lume oscuro (di Roberto Rosi Precerutti), @pontifex (di Gualberto Alvino), Tra massi erratici (di Marco Caporali), Cantico di stasi (2011-2013) (di Marina Pizzi), Affiorano dovunque (di Marco Furia), Gli anni 2000 (di Maria Pia Argentieri), Il rabdomante (di Italo Scotti), Roma/Sorrentino (di Velio Carratoni), L’albero rosa di Flebo (di Luca Succhiarelli), Poemetto su famiglia italiana/marzo 2013 (di Raffaele Piazza).
In Cinema Eco-Vision./Giorgio Diritti di Sarah Panatta; scrive l’autrice che un’ombra ombelicale, transita in chiaro/scuro, segnale/singulto in una volta celeste, utero estratto, che profetizza lontananza.
Un viaggio/valico dalla valle che abborda orizzontale e sospettosa i suoi visitatori, al villaggio impennato con ostinazione sulla montagna.
Passi infantili, in un corridoio di buia prematura agnizione che odora di morte rappresa. Ogni incipit un flashforward.
Cominciare dall’epilogo narrativo ancora indecifrabile, detestare e pure rispettare dall’inizio la ciclicità della vita stessa.
Cronaca di “passaggi” annunciati. Giorgio Diritti trovatore onirico. Orditore di acquatici travagli. Alpi montane di piogge tempestose, placente interdette, sogni amniotici su battelli diretti verso la perdita, in un disperante festoso sud.
Molichiano aedo Diritti documenta “dentro” una natura mistica. e vigile, mai intrappolata, ma “fuori” il tempo dei suoi reietti, imbrigliati tra i traditori, neo inquisizioni, missioni camuffate.
Diritti ritrae intruso e dunque a ritroso, subito dopo il “rogo”, le ceneri irrecuperabili e persistenti di civiltà/identità individuali e (insieme) collettive in bilico, minacciate da retaggi arcaici, fallimenti personali/familiari, guerre mondiali, faide di pioggia e di legna, linguaggi inalterabili e lingue migranti.
In I giovani secondo Pasolini Lapo Gresleri afferma che oggetto spesso di citazioni ed estrapolazioni decontestualizzanti, il pensiero di Pasolini è diventato in questi anni “di moda”, elemento di paragone volto a giustificare comportamenti soprattutto negativi, perpetuando così la persecuzione e speculazione mediatica, che ha accompagnato la figura e l’opera dell’autore prima e dopo la morte.
Ma, soggette anche a frequenti e più oneste rivalutazioni, le riflessioni dell’intellettuale dimostrano ancora un’incredibile attualità.
Considerato a posteriori un “profeta”, Pasolini non aveva doti preveggenti, quanto piuttosto una limpida e sorprendente capacità di lettura del tessuto sociale e culturale coevo, che gli consentiva di cogliere con lungimiranza le cause del mutamento allora in atto, arrivando a intuirne con chiarezza le conseguenze che si sarebbero verificate.
Tale capacità, lo stile e le tematiche affrontate nel suo lavoro, il suo essere in definitiva così avanti rispetto ai tempi, fanno dell’autore un contemporaneo, pur se non propriamente definibile come tale per datazione e formazione.
L’intento del saggio è l’analisi di un tema caro a Pasolini, i giovani, tutt’ora al centro di riflessioni socioculturali, scaturite dall’ormai tarda constatazione di quel cambiamento antropologico italiano, definito dallo stesso autore “omologazione”, di cui ha acutamente analizzato l’evoluzione nel corso degli anni.
In Recensioni, Le dérèglement de tous les mots, Indicazioni di lettura per Il pollice smaltato di Gemma Forti, di Donato Di Stasi.
Dopo sei anni d’attesa, alla sesta opera poetica, Gemma Forti raggiunge la maturità artistica, suggellando il taglio sperimentale della sua scrittura.
La sua ricerca linguistica muove dai tradizionali territori della sintassi (codici costruttivi e dialettici) per giungere al limite del più spericolato e ardito montaggio di parole, con cui catturare almeno un refolo del velocissimo spirito dei nostri tempi.
Il titolo, Il pollice smaltato, rimanda a una presa di distanza dalla seduzione (ormai cliché imperante) per restituire attualità allo spazio storico (profondità, prospettive, antispettacolarità) a nome di una tensione critica e civile a cui siamo disabituati.
Non potendosi più alzare verso il canto (è stato fatto per secoli da Petrarca e Caproni), Gemma Forti si abbassa al grido non dimesso, nella forma artistica dell’invettiva, straparlando in una lingua socializzata avversa alla condizione oscurantista e reazionaria del presente.
Per questo elimina sentimentalismo e soggettività, impegnandosi in una scrittura dinamica, fortemente analitica, in grado di riempire con le sue strofe eccentriche la botte vuota dell’industria culturale.
In quest’ultimo werk fortiano c’è forza, equilibrio, coraggio, e ancora indipendenza, distanza dalla nausea del conformismo, un altro modo (umanistico) di intendere l’umanità.
Il pollice smaltato mette in moto un volano di pensieri, fa ribollire il sangue con la terribile minaccia di dire, scoprendolo, ciò che è sotto ai nostri occhi finalmente spalancati, non ciò che ci lasciamo immaginare ad occhi chiusi.
In Bibliosound di Gemma Forti, numerose recensioni; tra queste quelle a Marina Cvetaeva Scusate l’amor,e, 2013, poesie 1915-1925.
Questa antologia poetica, con testo a fronte, a cura di Marilena Rea, pubblicata dalla Passigli nella collana Le occasioni, raccoglie le liriche d’amore di Marina Cvetaeva, scritte nel periodo 1915-1925.
I destinatari delle poesie sono amici e conoscenti, reali o idealizzati, il marito Segej Efron, Sof ‘ja Parnok, (con la quale ebbe una relazione d’amore, sebbene già sposata e madre di Ariadna, tra il 1914 e il 1916), Blok, Kuzmin e Pasternak, amanti degli anni dell’esilio (1922-1939).
Tutti questi non si sono, però, rivelati all’altezza di colei che chiedeva il miracolo, cioè l’amore straordinario per poter amare straordinariamente.
La stessa Cvetaeva ha scritto: “La lirica pura vive di sentimenti. I sentimenti sono sempre uguali a se stessi. Non hanno evoluzione, come non hanno una logica (…) Ci sono stati fissati dentro il petto – come fiamme di una torcia – fin dalla nascita”…
La sua anima è costantemente alla ricerca di un completamento nell’altro, attraverso la grande passione. Ma solo tramite i versi ella riesce a trovare una sublimazione.
Marina Cvetaeva, nata a Mosca nel 1892, morta suicida a Elabuga nel 1941, è considerata tra le voci più importanti della poesia russa del primo Novecento.
La sua grandezza si è consolidata nel tempo, non solo come poetessa, ma anche come prosatrice originale e saggista di notevole acribia.
La sua poetica è aliena da sentimentalismi e il verso si frantuma secco e cadenzato.
In particolare, le composizioni di questo libro sono un canzoniere dell’anima e, nello stesso tempo, rappresentano anche un universo regolato da una fisica empedoclea: aria, acqua, terra e fuoco.
Nell’ultima parte, intitolata Piccole Heroides, sono raccolte liriche che hanno per protagoniste eroine antiche (eccetto Amleto e Gesù), e cioè Sibilla, Fedra, Arianna, Euridice, Elena; dalla letteratura Ofelia e dalla Bibbia Maria Maddalena.
In Anthony Trollope, Due ragazze, 2012 la Forti scrive che questo racconto, pubblicato da Passigli nel 2012, a cura di Luca Caddia, è l’ultimo scritto di Anthony Trollope.
Infatti egli è morto il 6 dicembre del 1882, mentre il racconto è stato scritto nel giugno dello stesso anno e pubblicato nel numero natalizio della rivista Good Words.
Anthony Trollope (1815-1882) si può ritenere uno tra i più importanti scrittori inglesi dell’epoca vittoriana, sebbene la sua fama, durante la vita, sia stata oscurata dalla presenza di Dickens e, in parte, anche di Thackeray.
In questi ultimi anni la sua opera è stata proposta in Italia da Sellerio, che ha pubblicato Le torri di Barchester, Le ultime cronache di Barset, Lady Anna, La vita oggi.
La Passigli ha editato il romanzo Il cugino Henry e il volume di racconti L’ultimo austriaco che lasciò Venezia.
La Garzanti Un caso di coscienza.
Le due ragazze, il titolo originale è The two Heroines of Plumplington è ambientato nella contea del Barset.
Così recita l’incipit del racconto:-“L’anno scorso nella cittadina di Plumplington, più o meno in questo periodo, si era in novembre, le signore e i signori che formavano la società locale erano molto preoccupati per le vicende di due ragazze, entrambe figlie uniche di due anziani signori, molto noti e rispettati. Forse non tutti sanno che Plumplington è la seconda città più importante del Barset…”.
Le due eroine in questione sono Emily Greenmantle e Polly Peppercorn, rispettivamente figlie di un direttore di banca e di un mastro birraio, che, usando mezzi diversi, cercano di fare accettare ai propri padri i loro spasimanti squattrinati, e, alla fine, ci riescono, anche con l’aiuto del dottor Freeborn.
Il racconto si basa su un gioco delle parti, dove la principale gara è giocata proprio dall’epoca in cui è ambientata la vicenda, cioè l’età vittoriana (il lungo periodo in cui ha regnato la Regina Vittoria), dal 1837 al 1901), epoca considerata, attualmente, con l’etichetta di ipocrisia sociale, ovvero di falso perbenismo, in cui i contratti sociali appaiono più evidenti ed insuperabili.
Trollope, con ironia sottile, riesce a far emergere questa ipocrisia, svelando una realtà sociale cristallizzata a cui nessuno si può sottrarre.
In Biblio/Caravan di Velio Carratoni sono riportate molte recensioni del nostro su testi che hanno per tema: costume,, narrativa, politica, rievocazioni, letteratura, musica, CD.
Nella recensione a Maria Pia Romano, La cura dell’attesa, 2013, (narrativa), il critico parla di una storia di vicende personali di una educazione sentimentale priva di spicco.
Alba, alquanto algida e distaccata, considera l’amore come fosse una scadenza ordinaria, da protagonista impartecipe; alla ragazza interessa l’esteriorità.
Più delle vicende la intrigano i genitori o il contorno della famiglia, nonché i suoi studi di ingegneria, decantati in quanto non umanistici.
Quindi non coinvolgenti parti scritturali. Eppure si considera amante delle letture ricordando quelle di autori del Novecento, tanto analitiche e coinvolgenti o i poeti pugliesi da lei letti e studiati.
I rapporti intimi della protagonista sono più subiti che partecipi, anche se descritti con trasporto continuo.
Ma per la Romano la decantazione risente del raptus non dell’effetto del rapporto. Qui la contraddizione in una scrittura accorata.
Gli stati d’animo risentono di una sfuggevole partecipazione, non da analisi introspettiva.
Ricercare le descrizioni marine della Puglia. Freddi i ricordi nelle varie fasi della formazione e sviluppo di un’interiorità spesso sentita come un fardello di cui alleggerirsi.
I dialoghi non approfondiscono gli stati d’animo
Pochi o nulli i riferimenti sociali… I paesaggi, a parte la cura delle descrizioni di scene di ambiente marino, sono accennati o visti come riempitivi di attenzione secondaria, elemento non fondamentale nel plot.
Fredde risultano anche le descrizioni degli altri componenti della famiglia borghese e manierata.
Nella storia non ci sono contrasti.
Tutto avviene perché Alba è guidata da una bussola regolata da riferimenti preconfezionati.
Lei non rischia nulla. Non sente contraddizioni.
Non ha timore di nulla, dato che si sente guidata dall’ingegneria “scienza del compromesso”.
La vita, secondo lei, “in qualche maniera le somiglia”.
Ma una vita costituita da peculiarità e somiglianze prestabilite poco si concilia con svolte, contraddizioni, sviluppi dell’esistenza, molto più somiglianti al rebus della vita. Se appiattita nessuna attesa può vivificarla.
In Letteratura, la recensione a La scrittura e la vita. Conversazioni con Francesca Sanvitale pp. 270, 2012, di Elio Pecora..
Scrive Carratoni che la Sanvitale dà l’idea della scrittura ieratica, tutta d’un pezzo, della classica borghese delle lettere fredda e distaccata che di umano e vivifico ha poco.
La classica ragionatrice della pagina dalla quale sembra dileguarsi una volta messa in opera una certa attenzione su storia e personaggi.
Ne beneficia l’impersonalità dell’arte, ma le storie per questo divengono programmate o lontane mille miglia da certi coinvolgimenti.
L’autrice sembra dire al lettore: la storia è mia. Ma non è detto.
Una forma di sconfessione e di messa nel congelatore per timore di coinvolgimenti di qualsiasi specie.
Pecora la invita a svelarsi, tramite domande confidenziali. E l’autrice, sebbene si rifugi nel distacco, riesce, grazie all’interlocutore, a dire o non dire, ma almeno a spiegare qualche ragione di sé.
Dai dialoghi si arriva alle buone maniere. Guai a trasgredire. A usare un linguaggio sciolto e in libertà.
Titubanze all’infinito: “…Sono arrivata alla laurea davvero contro tutto e tutti”. Circa gli interessi culturali: “…Se mi vuoi bene, rinuncia, oppure non andarci”…”L’invidia è il sentimento che mi fa più paura…alcuni ragazzi andavano vantandosi di aver fatto l’amore con me…La sessualità per me è stata una scoperta tardiva …L’amicizia con Balducci è stata la mia ancora di salvezza…Ero religiosa fino al fanatismo…Poi è andata scemando…Più confessioni mi hanno turbato…quando ci lavoravo la Vallecchi pubblicò Landolfi,, Bigiaretti, Luzi, Pratolini…i cattolici più ferventi sono quelli davanti ai quali non si possono…pronunciare parole come malattia o morte… In Il cuore borghese c’è una specie di corpo a corpo con la cultura, con la storia, con la psicologia, con il mio tempo…un narratore è molto vicino a un architetto…”.
Una letteratura quella della Sanvitale che non sembra avere per oggetto la condizione femminile quanto i riflessi societari sui rapporti tra individui.
Uno stile da studio distaccato che risente di scarse immedesimazioni da misurino senza controllo. Scarse le pulsioni quasi sempre di derivazione letteraria.
Dalle risposte alle domande del curatore risulta una letterata dosata. Prima di svolgere le sue delineazioni dei personaggi viene invasa da una gelida osservazione di maniera. Caratteristica che proviene dall’essere stata un funzionario RAI, non tanto interessata ai rapporti umani ma agli incastri del mondo delle direttive e delle situazioni mirate.
Nell’Inserto Fondazione Piazzolla sono presenti le seguenti sezioni: Interventi, Poesia, Interviste, Notizie, Manifestazioni.
Si evince, da quanto affermato, la vastità dei materiali artistici e critici presenti in “Fermenti”, tutti connotati da elevata qualità, elemento che, nell’ambito letterario italiano, ne fa un caso unico.
La scansione finale della rivista contiene, tra l’altro, interventi dedicati alla suddetta Fondazione, sotto il titolo globale Ci stiamo abituando all’inferno (a proposito degli atti dei convegni per il Centenario): Turbamenti di illusoria attesa ed egemoni menti di Domenico Cara, “Assoluto” e “Regno della Presenza” nella poesia di Marino Piazzolla, di Emiliano Alessandroni, Un difficile rapporto con il mondo reale, di Lucio Zinna, Hudemata, la prima parola di Canio Mancuso; due poesie, L’urlo/ Forse è il nostro assassino di Marino Piazzolla, Marino Piazzolla a Radio France Culture (1978, terza parte), Il senso del limite, Su A. Delfini a cinquant’anni dalla morte, Presentazione Rivista “Fermenti” n. 239, Volumi pubblicati con il contributo della Fondazione Piazzolla, Audio e video pubblicati sul sito www.fondazionemarinopiazzolla.it .
Scrive Cara, nel suo intervento, che riportare testimonianze critiche elaborando testi saggistici su Marino Piazzolla, è diventata un’occasione continua, e probabilmente a tentazione perenne, vista l’assenza di certa critica accademica e militante che ha sempre ignorato la sua personalità.
La rivista “Fermenti” ha organizzato la pubblicazione dei testi di due quasi recenti convegni dedicati al poeta appulo – romano, la cui vicenda è ormai a conoscenza di molta parte di presenze culturali attive in ogni parte del mondo.
Il tema è Ci stiamo abituando all’inferno, pp. 270, 2012, Roma, e gl’interventi, a campionatura preziosa, sono stati organizzati, per il centenario della scomparsa, il 20-21 aprile 2010, all’Università “Carlo Bo” di Urbino, e il 12 maggio dello stesso anno, alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Primi fra tutti gli ambiti Gualtiero De Santi e Donato Di Stasi.
Nel tomo gli ospiti evidenziano i segni delle energie artistiche del poeta, la cui soggettività ed emotività sono al centro dei suoi valori culturali ed espressivi, che probabilmente non bastano all’assenza continua della critica d’altro versante. quasi più assoluta, indifferente agli strumenti creativi e critici di un iter mentale e – forse – individuale e arbitrario, o fuori quadro dalle dinamiche metodologiche di un primo Novecento diverso, o di un secondo Novecento addensato dai riverberi poco graditi alle ascendenze di coloro che – nella stessa tragicommedia – sono rimasti lontani da lune nuove e dalle ricerche scritte di Marino, mal condannato da intelligenze della società contemporanea, senza torti, né estranei corpi legati ad eventuale dilettantismo, o da elementi di inadatta misura riflessiva.
Nel volume, le filosofie e le favole, i temi, i sogni, le essenze dell’ingegno, le collaborazioni italo – francesi, ogni altra fascinazione giovanile, sono coinvolti per ogni onesta e migliore identità dello scrittore, e i suoi archivi sensibilmente riescono a conservare una vocazione invidiabile, probabilmente non fortunata, malgrado altre referenzialità di fato e di divergenze solerti.
Ma i percorsi sono rivissuti e redatti attentamente, e a rilevanza davvero non abituale nella geometria delle visioni che attraversano abitualmente il destino di un “contemporaneo” non di poco conto, e mai distratto dal fondare strategie decisamente consapevoli e decise o senza molta innocenza.
Il transeunte, ispessito da innumerevoli notizie, aneddoti parziali, richiami di persistenti usi nei riguardi del suo futuro non mancante; e i discorsi sono molteplici, mai azzardati per una “maggior gloria”, che – dopotutto – manca a troppi isolati, in esilio non provvisorio, secondo le volontà di una superba critica che non è proprio adeguata, malgrado contino di più altri valori materiali e non spirituali.
La Fondazione Piazzolla svolge un’intensa attività di carattere culturale (presentazioni, incontri, assegnazione di premi di poesia, concerti e altro); prende il nome dal suo fondatore Marino Pasquale Piazzolla, poeta, critico, filosofo, pittore.
Il nostro, nato nel 1910, è un autore che in vita, in un ambiente culturale, nel quale i poeti più importanti erano Montale, Ungaretti, Quasimodo, Pasolini, Cardarelli e altri, è rimasto in una posizione appartata e di outsider, anche se è stato riconosciuto il suo indiscutibile valore.
Piazzolla ha sempre rifiutato compromessi, dissociandosi da giochi e prebende.
L’attenzione critica su Piazzolla si è manifestata maggiormente dopo la sua morte e il poeta ha ricevuto riconoscimenti postumi, che ne hanno delineato l’immagine di un versificatore interessante e originale, e anche quella di un critico e di un intellettuale intelligente e di grande cultura.
La Fondazione Piazzolla, associazione di carattere culturale, in Italia, con le sue molteplici attività, è di sicuro una delle più importanti ed efficienti, tra quelle che hanno per referente il nome di un poeta.

Raffaele Piazza

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