RICOSTRUIRE

Nel 1947 il “re” dell’atollo di Bikini, capo di una comunità di 197 nativi, diede il proprio permesso al governo americano di condurre una serie di esperimenti sul proprio territorio. Al fine di lasciare campo libero all’esercito, gli abitanti accettarono di essere momentaneamente evacuati con la promessa che, al termine degli esperimenti, sarebbe stato loro consentito di far rientro a casa.
Le immagini della propaganda americana del tempo ci mostrano i visi sorridenti degli indigeni, donne, bambini, che abbandonano felici le proprie case, amorevolmente accuditi dai Marines, per essere sfollati nelle isole vicine. E come sempre avviene nell’iconografia di propaganda, involontariamente, finiscono anche per mostrarci altro.
Lo spettacolo magnifico dei luoghi, ad esempio, prima dell’orrore e quello delle persone ignare. C’è un viso di bambina tra quelli degli abitanti che si imbarcano, un bel tondo alla Gauguin con un sorriso dai grandi denti sani e occhi oblunghi, su cui si sofferma a lungo la camera del cine-operatore, che visto oggi ha più forza di mille proclami.
Hanno una potenza drammatica ineguagliabile i volti degli esseri umani quando li guardiamo dal futuro, sapendo già l’esito della loro storia. Quando li vediamo ridere, camminare, mangiare di fronte alla telecamera dei filmati d’epoca, mentre noi, seduti qui, abbiamo per un attimo il potere dell’onniscienza di dio, che guarda l’uomo sapendo già il suo destino.
Non sarebbe mai più tornata alla propria terra quella bambina dai tratti indigeni, ora lo sappiamo, né avrebbe potuto farlo la donna che sarebbe diventata né la vecchia che potrebbe essere oggi, ammesso sia ancora viva e non si sia ammalata di qualche indicibile tumore provocato dalle radiazioni.
Perché la promessa fatta agli abitanti di poter tornare a casa alla fine degli esperimenti non ha mai potuto essere mantenuta.
Tra il 1947 e il 1958, sessantasette esplosioni nucleari vennero provocate dal governo americano sul piccolo atollo di Bikini. Una potenza distruttiva pari a qualcosa come una bomba di Hiroshima al giorno per 25 anni.
Alcuni di questi cosiddetti esperimenti vennero condotti nella più totale incoscienza delle conseguenze che avrebbero provocato e nella pressoché completa ignoranza dell’energie che si stavano realmente manipolando. Come nel caso della cosiddetta operazione Castle Bravo, nome in codice della Bomba all’idrogeno, quando la potenza esplosiva che si liberò nell’aria fu di tre volte superiore al previsto a causa dell’errore nei calcoli degli scienziati che l’avevano progettata, con conseguenze terribili a breve e lungo termine sulla salute di centinaia di migliaia di persone.
Ad oggi gli antichi abitanti dell’atollo e i loro discendenti, che per la maggior parte vivono nell’isola di Kili a qualche miglio di distanza, sono circa quattromila e godono dei fondi stanziati dal governo degli Stati Uniti per la loro sopravvivenza.
Il dipartimento dell’energia americano monitora con un particolare programma le radiazioni presenti sull’atollo e 200 milioni di dollari sono già stati finora spesi solo per cercare di monitorare e bonificare Bikini. E’ stato portato via tutto il primo strato di terra per uno spessore circa cinque centimetri, dove maggiore era stato il fall out.
Vengono compiute regolari misurazioni della radioattività negli alberi di cocco ed è stato persino allestito un orto per verificare quanto siano sicuri gli ortaggi che nascono in quel luogo abbandonato.
Quindici megatoni liberati in un un secondo a quota zero solo con la bomba H (mille volte Hiroshima) e poi si accudiscono le noci di cocco. Quasi cinquecentomila persone nel mondo che hanno subito danni gravi o mortali alla salute per le dirette conseguenze degli esperimenti nucleari condotti nell’atmosfera e poi si allestisce l’orticello di zucchini per vedere di far tornare sull’atollo poche centinaia di persone alle quali probabilmente, ormai, di questo non importa più nulla.
La mano pietosa che rimedia e l’altra che continua a perpetrare nuove distruzioni.
Distruzioni e poi ricostruzioni.
Come in Iraq, in Europa, in Afghanistan e in mille altri teatri del mondo. Ma non sono bianco e nero, notte e giorno, la distruzione e la ricostruzione. Non sono due termini opposti come ci si vorrebbe far credere.
Sono due facce dello stesso uso sciagurato del mondo, della depredazione, del dispregio della fatica umana, dell’irripetibilità del tutto e del valore non solo materiale del mondo sensibile. Sono la cifra dell’incapacità di comprendere la preziosità dell’esistente e la sua storia. Sono la mancanza di rispetto, la tracotanza che schiaccia la fragilità tra due business complementari e conseguenti.
Che sia premeditato o che sia frutto del raptus, l’irresistibile impulso umano alla distruzione dovrebbe (non può che) concludere e definire sé stesso nel suo realizzarsi.
Bisogna comprendere che mai nessuna ricostruzione rimedierà a questo.
Nulla mai potrà annullare lo spreco di mondo, di bellezza, di vita e di storia che c’è nell’atto del distruggere, predestinazione e vocazione del sapiens sapiens.
Ma l’atto conseguente e deliberato della ricostruzione compiuto degli stessi distruttori colora, se possibile, di una tinta ancora più perversa il rituale. Tende, con la cancellazione della prova del delitto, con la finta catarsi, alla negazione dell’enormità compiuta. Veste di bianco l’assassino, confonde le carte e tenta di dare all’alternarsi della distruzione e della ricostruzione la valenza della ciclicità che è propria della natura. Lo sminuisce e prepara le basi alla distruzione che seguirà.
E l’azione che si finge buona, pietosa, umana e compassionevole del ricostruire, altro non si rivela se non la fase due dello stesso processo iniziato con la distruzione.
Processo di arricchimento da parte dei soliti sciacalli, innanzitutto.
Che addestrano guerriglieri e militari, terroristi e polizia e armano la mano ad entrambi e su entrambi lucrano. Che fabbricano le bombe e gestiscono gli appalti della ricostruzione delle città sventrate. Che inventano ordigni folli e mostruosi e poi investono milioni nelle bonifiche, che curano i corpi piagati e scossi dal male radioattivo dopo averli irradiati.
Ma anche meccanismo di difesa dell’io collettivo che traveste la nostra perversione per renderla sopportabile.
Che per riuscire a sostenere la vista del proprio abisso, della propria crudeltà senza rimedio, ha bisogno di credere alla retorica del volto buono dell’uomo, capace di cose terribili ma anche magnifiche.
Che ha inventato le indulgenze, i confessionali e le penitenze, che crocifigge per poi adorare, che ammazza e poi benedice, che distrugge e poi, magnanimamente, ricostruisce.
E io varerei una legge planetaria, se fosse possibile, simile a quella che proibisce di costruire nei luoghi degli incendi per scoraggiare i roghi dolosi. Una legge che proibisca di ricostruire lì dove l‘essere umano ha distrutto. Che lasci lo spettacolo delle macerie agli occhi inorriditi di tutti. Beirut, Belgrado, Berlino, Kabul. Che ci faccia inciampare nei detriti, nelle ossa, nelle vestigia delle cose scomparse e nei fantasmi. Che ci riempia la vista del salutare orrore che seminiamo. Altro che falsa espiazione. Altro che ricostruzione.

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