SOGNANDO LIMONI

Io lo so com’è. Lo so, me lo sento.
E’ che prima o poi le cose che non si fanno dimenticare arrivano, quelle che non si possono cancellare nemmeno avendoci di nuovo la vernice metallizzata e il giubbotto antiproiettile dei vent’anni. Arrivano e ti si siedono dentro.
Tu non sai come fare a starci insieme a quelle cose lì che sono come spine che ti pungono ad ogni respiro, che si conficcano di più ad ogni movimento. A cui non si può non pensare. Una, dieci, venti, cento volte al giorno. Non sai come tenertele in casa. E lì comincia tutto.
Quando Elisa mi ha detto voglio conoscere mio padre e io le ho risposto ma certo è tuo diritto e intanto guardavo da un’altra parte e mi batteva forte il cuore, ecco, quello lì, dev’essere stato il mio inizio.
Eppure lo sapeva bene chi era suo padre, eccome se lo sapeva, e aveva visto tutto fin da quando era piccola. E io le ho risposto ma certo è tuo diritto perché era vero che lo era, in fondo, e perché pensavo che la corazza d’amore con cui l’avevo vestita potesse sopportare ogni colpo. Non calcolavo che aveva un punto debole la mia potente corazza d’amore. Non era saldata, non aveva lucchetti e chi la indossava poteva toglierla quando voleva. E lei da suo padre quel giorno c’è andata senza.
Quando mi ha detto io resto qui, non torno, io ho visto proiettarsi di colpo il film della mia paura più grande, l’ho quasi sentito succedere. Perderla, smarrirla, andare nella sua stanza e trovare la culla vuota, sentire la sua manina sfilarsi dalla mia, girarmi di scatto e non vederla più.
Credo che dagli occhi che vedono succedere l’invendibile e dalle orecchie che ascoltano l’inascoltabile parta una piccola onda nera, un messaggio sbilenco e feroce. D’incredulità, di terrore, di negazione. E che questo messaggio arrivi negli angoli più lontani di noi. Sta succedendo quello non si può concepire. Sta succedendo quello che piuttosto che veder succedere sarebbe meglio non esserci mai stati.
Non esserci mai stati.
La casa di mio padre la banca se l’è ripresa a Maggio, quando sui limoni già si posavano a migliaia i piccoli fiocchi di neve della seconda fioritura. Persone senza volto e consistenza hanno deciso che non potevo sedermi più sul gradino dove avevo riso con mia sorella fino a star male e pianto mia madre. Toccare la scorza dell’albero piantato quando era nata Elisa, evitare con il piede senza pensarci la mattonella rossa del corridoio che si muove. Saper già, dal modo in cui si apre la porta, chi sta entrando in casa. Che l’odore di quei muri che il mio naso conosceva prima ancora che io sapessi parlare, era roba che non mi riguardava.
Sono passata lì davanti per caso sei mesi dopo che era andata all’asta.
Avevano tagliato tutti i limoni e ci avevano fatto un parcheggio.
Io credo che quando le piccole invisibili onde nere arrivano a bagnare la nostra trama più intima, i nostri fili misteriosi, le nostre cellule, queste rimangano come stordite. Si confondano, non capiscano più niente, balbettino, si pieghino su sé stesse e poi perdano la voglia di difendersi, si arrendano e dimentichino per un momento chi sono.
O per sempre.
Dei tanti negozi per cui cucivo orli e cerniere con il tempo ne era rimasto uno solo. Facevo anche cento orli al giorno nei tempi migliori, basta guardarmi le dita, e stringevo abiti e pantaloni che, modestamente, non c’è macchina al mondo precisa com’ero precisa io. Mi ci sono mantenuta e ho mantenuto Elisa senza chiedere niente a nessuno con le mie dita che, le senti, sembrano piccoli legni a forza di tener l’ago senza ditale per far più veloce.
Poi il lavoro è diminuito ogni giorno di più. Dicevano che i cinesi prendevano meno e io sono scesa a due euro a orlo, poi dicevano che erano più veloci e io ho preso a cucire anche di notte. A dicembre il signor Paolo mi ha chiamato e mi ha detto non c’è più lavoro mi spiace e io ho detto signor Paolo io lavoravo già per suo padre si ricorda quando lei veniva in negozio uscito da scuola e lui mi ha detto mi spiace non è colpa mia.
Quando sono dimentiche di quello che sono, le cellule fanno le matte, come impazzite dal dolore. Ce ne sono di più più resistenti, che non si perdono, che non smettono di sperare, che sanno scordare ed altre più predisposte, come succede tra le persone, più fragili e vulnerabili ai conti feroci che ti presenta la vita. E quelle va a finire che ci affogano nelle piccole onde nere che giungono dal mondo di fuori. Mosse una dopo l’altra da quello che gli occhi vedono, dal puzzo del ricordo di quello che è stato e non doveva succedere ma è invece è successo, senza rimedio. E cominciano ad agire a sproposito, ma senza nemmeno saperlo. Bevono e mangiano, si muovono, vegliano e dormono, vanno in giro quando non devono, senza saper più perché né quando fermarsi. Smarrite a sé stesse come le persone addolorate.
Io avevo un seno che anche se ci ho allattato Elisa per più di un anno, modestamente, la gente si girava per strada. Avevo una quarta, coppa larga, che stava su da far invidia alle ragazzine. Anche mia madre l’aveva così, mi diceva papà, e io ho preso da lei.
Succede che le nostre cose più belle siano le più fragili. Succede. Agli amori, agli attimi di verità, alle intese perfette. Ai fiori che nelle grandinate sono i primi a cadere.
E mentre mi tengo con il braccio buono al bus che porta su all’Oncologico penso che devo ancora decidere se voglio sopravvivere ai miei petali sparpagliati a terra. Devo ancora decidere.
Se voglio accettare che sia vero che siano successe le cose che sono successe, se voglio essere un tavolo senza le gambe che si inventa altre gambe. O se non sia meglio addormentarsi sognando limoni.

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