Sono io che ti ho portato il filo

A10, alba del miliardesimo lunedì rivierasco
predatore
sfacciato
carovana interminabile di Tir sulla destra, frutto dello svuotarsi dell’autoporto di Ventimiglia dopo la sosta notturna.
Un autista di TIR ha due donne. Una donna domestica, che lo aspetta a casa con i figli, ed una da viaggio, che si porta in giro sul camion. Quando muore d’infarto in un autogrill la sua doppia vita viene svelata ma le due donne, invece di odiarsi, si accordano subito: la donna da viaggio continuerà a guidare il TIR per portare a casa lo stipendio, in cambio potrà far da padre ai figli della donna domestica, visto che lei non ha mai potuto averne.
Radio Tre Notizie. Referendum in Irlanda sul matrimonio Gay.
Un bellissimo mulatto di nazionalità etiope mette su un business per far incontrare (e poi maritare) giovani piacenti spregiudicati e vecchie rockstar miliardarie per poi guadagnare a percentuale sui cospicui alimenti che i suoi clienti percepiranno dopo l’immancabile divorzio.
Non vuoi saperne di smetterla?
No.
Credi davvero che il mondo abbia bisogno di storie?
Sì?
Cazzate.
Il mondo ha bisogno di acqua. Ha bisogno di compassione. Di dignità. Di giustizia.
Abbiamo un ragazzo ricoverato in rianimazione. E’ volato dalla bicicletta mentre sfrecciava lungo la litoranea e si è ghigliottinato il fianco su un guard rail. Con la Tac è venuto fuori che ha un rene fratturato e una signora emorragia. Anche i reni si possono fratturare, per chi non lo sapesse.
Tu dici (non c’è nessun TU a sentirmi, parlo da solo, come al solito) che la poesia, le buone storie, rendono migliori gli uomini, così che magari, forse, a volte, riescono persino a salvarsi.
Io conosco persone che scrivono storie meravigliose e sono merde.
E ne conosco ancor di più che leggono storie meravigliose, versano pure qualche lacrimuccia, si immedesimano, si identificano, parteggiano per i deboli, per le vittime, stanno coi buoni, poi chiudono il libro e tornano ad essere merde.
Predatori ciechi come pesci preistorici, egoisti come felini che si contendono prede ancora agonizzanti e tutto ciò che possono prendere, nei giorni della vita, lo considerano di loro proprietà, anche quando giace ansimante ad occhi spalancati nella pozza del proprio stesso sangue.
Il ragazzo è giovane, ha diciannove anni ed è venuto da Los Angeles a sfasciarsi proprio qui, in questo posto demenziale alla periferia di Genova. I genitori non sanno nulla del suo incidente e dal momento che lui non può avvertirli perché ha l’i-phone scarico, gli offro il mio filo. Mi sento molto buono e tremendamente orgoglioso ad essere d’aiuto ad un ragazzo di Los Angeles. Deve essere una specie di sindrome di deferenza per lo yankee, retaggio di un infanzia di Tex, Paperopoli e film a stelle e strisce (hey guy, ce l’abbiamo anche noi l’i-phone, che ti credi, proprio come voi).
Mentre il cucciolo di cowboy aspetta con la faccia tumefatta e un occhio semichiuso che il telefono rinasca, rivedo il tuo viso (figlio) che cresci a rotta di collo, in quell’ospedale del sud della Turchia con i capelli rappresi in un grumo cioccolato sopra l’orecchio e il tuo cuscino stinto di rosso. E il ricordo mi spezza l’aria prima che possa uscirmi dalla bocca.
Il mondo ha bisogno di poesia.
Poesia. La falsa coscienza dei manigoldi.
Scrivetele con le mani le poesie. Con i gesti. Alleviate, alleggerite, medicate, proteggete. Portate i pesi ai deboli, che le braccia vi facciano male.
Finalmente il ragazzo può digitare sulla tastiera rediviva e io vedo una villetta a schiera nella notte della costa occidentale. Intorno, ovunque, c’è Los Angeles sparpagliata in frammenti a perdita d’occhio, come la vedevamo dalla collina dell’osservatorio in quella nostra estate che non ha saputo farsi interminabile come le chiedevamo, supplicandola ad ogni tramonto. Nella villetta sento un telefono squillare, più volte. Quando un telefono squilla di notte il cuore di un padre si agghiaccia, io lo so. Hey brother, lo sento da qui il tuo cuore che ti sbatte in petto come un pesce morente. Rispondi e fatti resuscitare dalla voce del tuo ragazzo. Rispondi, non aver paura, ce l’ho qui di fronte, è un po’ malconcio ma te lo rimettiamo insieme.
(Da anni, ogni giorno, ti rivedo a terra e sento l’odore del tuo sangue, accarezzo il tuo viso tondo su quel cuscino lurido, sento la mano destra che tocca il tuo occipite rotto, che quasi mi ci entra il dito. E ovunque io sia, con chiunque io sia, mi trovo a respirare a scatti, con il mento che trema e gli occhi che traboccano. Lo so che poi passa. Ma so anche che ritornerà domani mentre guido, mentre parlo o sono sull’orlo del dormire, a ricordarmi che tutto è irrimediabile. Tutto. E nulla lo ripara).
Ecco che il ragazzo inizia a parlare. Finalmente gli hanno risposto.
Le storie. Ogni cosa è fuori posto, a guardarsi intorno. E quelli come me non sanno far meglio che inventare storie. C’è chi da bambino vuole essere Ulisse e chi vuol essere Achille. Io volevo essere tutti e due. Se ora faccio Ulisse è perché Achille non si riesce a fare da seduti. Quelli che inventano storie sono solo dei pigri. E dei vigliacchi.
Ora il ragazzo sta sciorinando il suo sassone mono tono nell’i-phone 5c dal dorso rosso che ho contribuito a ricaricare. Non riesco a non essere fiero di me e del mio filo. Immagino la madre interrogare il padre con gli occhi, domandargli più volte che succede, mentre lui la tacita con la mano, che se no non riesce a sentire. Si vestiranno di corsa, tra breve. Saliranno su una macchina americana e percorreranno strade americane fino al Los Angeles International Airport. Poi voleranno fin qui, con il cuore pesto, stringendosi forte la mano sul bracciolo del sedile. Arriveranno in taxi e si guarderanno intorno, affranti e spaesati, stenteranno a credere che questa piccola costruzione abbarbicata sulla collina tra l’autostrada e il mare sia un ospedale. Vorranno portar via il loro ragazzo, in un hospital vero, dove medici di colore pettoruti come quaterback illustrano le possibilità di guarigione inanellando con sicurezza percentuali e cifre.
Il ragazzo chiude la conversazione e si appoggia il cellulare sul petto.
Quando arrivano i tuoi? Your parents? When?
Non vengono, hanno da fare. Work, you know?
Ho capito. Hanno da lavorare.
No, no, tienilo pure il filo.
Poi magari domani passo di nuovo a trovarti e me lo restituisci, semmai.

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