Tre miniracconti

1

c’era una bella pizzeria vicino al cimitero, due piani, un arredo carino, personale garbato. Ci andavamo tutti i martedì, io e Sara, dopo l’ora di musica. Le pizze erano buone ma presto si diffuse la voce che per il forno usassero il legno delle bare. Adesso c’è uno studio veterinario e Sara è alla reception. Ogni tanto passo e la vedo dai vetri, vorrei salutarla ma lei è sempre indaffarata, dico: domani è il suo compleanno, le porto dei fiori, e rido, penso ai fiori e rido ma non è un ridere.
Come erano buone quelle pizze.

 

2

e invece domani cambio strada. faccio il conto dei giorni che mi mancano: tre. in tre giorni dovrei farcela. prendo la statale e vado. investo un gattino, do un passaggio a uno sconosciuto che mi parla dei suoi problemi e arrivo tutto sudato al parcheggio della stazione, che è chiusa, quindi aspetto. Ora sono solo, il tizio è andato via sbattendo la portiera, resto con questo rumore della portiera e il silenzio che viene dai binari e la notte si sposta, lentamente, tra i muretti e le aiuole dove qualche cartone si muove mentre la stazione riapre ma io non entro, mi siedo su un muretto e accendo una sigaretta. Riprendo la statale e torno al gattino, lo sistemo sul ciglio della strada, lo accarezzo, mentre l’aurora ci scolpisce e in lontananza vedo le case e dietro le case i monti.

 

3

Io e Duke rubavamo le biciclette nei parchi. Solo mountain bike, vai a capire perché. A un po’ alla volta riempimmo il garage di mio padre, ma un giorno ne scomparve una, e poi ancora un’altra, così dissi a Duke che non potevamo più metterle lì e le sistemammo in un capannone abbandonato vicino al campo rom. Un giorno mio padre disse: non penserai di andare avanti così? e si tirò la porta con la bottiglia nel giubbino. Invece per noi andava così e la storia continuò per qualche mese. Finché non presero Duke. Lo seguirono fin dentro il capannone, gli diedero un sacco di botte e gli dissero di non farsi più vedere da quelle parti. Mio padre non ha mai confessato ma un giorno vedemmo la sua macchina parcheggiata vicino al campo, gli bucammo due ruote e gli strisciammo tutta la fiancata con una chiave. La sera, a cena, giocherellava con la chiave di casa sull’incerata, faceva come delle incisioni, una specie di alfabeto rupestre su cui finivano inchiodati i nostri occhi, sembrava che mia madre dicesse: – Neal, tieni d’occhio tuo padre, e le parole venivano dal muro e tutto il buio sembrava strappato dalle sue mani.

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