Tre Poesie da “La vita della parola” di Bonifacio Vincenzi – Macabor Editore

Recensione di Salvatore La Moglie  a La vita della parola di Bonifacio Vincenzi

L’ultima silloge di Bonifacio Vincenzi – Lavita della parola (Macabor Editore, 2020) – è, a nostro modo di vedere, un pacato grido dell’anima attraverso la parola poetica che vive, appunto, quasi di vita propria, al di là e a dispetto della realtà che è stata, è o sarà. E, pertanto, il poeta scava, armato dello straordinario strumento della parola, nella vita passata e che più non torna ma che può essere fatta ritornare in vita dalla forza evocativa della parola che, dunque, è vitale e insostituibile. Un sentimento di struggente nostalgia, una sorta di romantica sensucht,  affiora più di una volta tra i versi dolenti dell’io poetico narrante, una nostalgia e un desiderio per qualcosa che è stato e anche che poteva essere, che si vuole rendere eterno sotto forma di narrazione poetica, perché Vincenzi – che è poeta di lungo corso e di grande valore – sa che solo la poesia è capace di eternare e di conferire bellezza anche ai ricordi e alle memorie più amare della nostra esistenza. E, così, riesce a raccontare, con maestria, tutta una vita e il suo senso in poco più di quaranta componimenti.

Già nella prima lirica l’autore parla di bisogno muto di ricordare, di rimpianto per qualcosa di ormai perduto per sempre e ci avverte che l’insidia consiste in questo buio dell’anima che non sa riconoscere il negativo (il nero) dove io vivo con tutte le mie vite, quelle passate e quelle di  oggi, quelle degli altri e forse anche quelle proprie già vissute o che tuttora vive in una molteplicità esistenziale, in una sola moltitudine (direbbe il grande Pessoa) in cui e con cui esprimere il senso della vita e magari ridare consistenza a vite esiliate e distanti.

Per un io narrante che dice a noi e a se stesso di non conoscere altra vita se non nelle parole, perché per lui le parole sono vita ed essenziale presenza, è logico che non possa non constatare con amarezza una gioventù con pochi ideali e che vive di realtà virtuale e di orge di immagini vuote di corpi. Forse, la felicità è vivere così e non di assenza e di silenzi, di muto dolore nel grande teatro di questo mondo, dove ognuno recita la propria parte a modo suo, e quella dell’altro è sempre, per noi, la più sbagliata, tanto che di cose appena comprese si grava la vita che indosso e quello che fa di me un uomo… è tutto ciò che non so, la parte più oscura a cui volto le spalle. E resta, pur sempre, il peso delle parole nelle alcove della memoria e, nella folle corsa (della vita) su un binariosbagliato, / l’illusione pericolosa di credersi vivi mentre già da timido bambino portava i suoi sogni acasa e cercava di rimodellarli nel chiuso di una stanza fissandoli in parole che oggi appaiono vane perché il disincanto è subentrato presto ai leopardiani ameniinganni che servono a crearci qualche illusione che ci fa sentire più vivi e meno assenti su questo mondo, dove il poeta sa di vivere unavita che tace, un’esistenzainafferrabile tanto appare inconsistente e irreale, dominata, montalianamente, dal vuoto esistenziale, dall’aridità e dall’assenza.

Una vita che non persuade della propria effettiva esistenza (direbbe Moravia) non può che prendere atto che il suodestino era nelleparole e che la poesia gli consente una vita molteplice, di vedere in tutti i volti il suo volto, in un mondo che appare una narrazione errante in cui contemplare il nulla riempendolo di presenze già promesseall’assenza.

E questa assenza è poi avvertita ancor più drammaticamente e resa più opprimente dalla perdita del padre, del Super-Io, verso il quale l’io narrante ha parole di grande amore filiale e ne esalta il suo parlare senza parole (spegnevi ogni parola col silenzio), un silenzio già attratto dall’assenza che voleva essere tale per non recare ulteriore dolore ai propri figli, lui che aveva capito, lui che era consapevole del suo imminente involontario commiato da questo mondo. E non restano che le parole ad eternare certi momenti del passato, e non resta che la memoria e il suo peso, il ricordo anche di qualche sogno appeso allepareti, la ricerca di un quasi montaliano varco, una dimensione fortuita, una sorta di miracolo laico che ci faccia sentire, in qualche modo, che la vita è compimento di qualcosa e non la finzione di una vita assente, in cui non resta che ritrovarsi dietro le parole mai dette, dietro i silenzi che parlano, spesso, più delle parole.

Ad un figlio che si fa incerto esploratore di memoriainerte e che vuole immortalare gli autorevoli e discreti silenzi del padre con la parola poetica che è vita perché destinata a rimanere e resistere all’usura del tempo, non resta che immaginare che, dal più alto dei cieli (dalla sovranità dell’impensato), gli dice ancora una volta: io sono tuo padre. Nella consapevolezza che a scavare in un grido si trovadi tutto, forse anche la verità e il senso della vita.

Salvatore La Moglie

 

 

 

Spesso un bianco di pagina accoglie
la sera nel canneto e tu torni
come una brezza lieve: ad occhi chiusi
senza voce né tempo nel volo delle rondini
sfociano gli istanti. Pare vero il mio andare
nei tuoi occhi, la corsa per tagliare l’aria
che ci avrebbe accolti. Venne poi la pioggia
a cancellare le tracce, a portarti da sola
all’altro lato della nostra notte.

Un cielo lavato dal vento
i volti che mutano in un gioco
regolato dal tempo: di cose appena
comprese si grava la vita che indosso.
Ciò che conosco mi è stato inculcato
pian piano; a volte mi sorprendo a cercare
uno spiraglio di luce, qualcosa che apra
una finestra su me, che mi faccia dire
sono io al timone, io quello che guarda
dall’altra parte. Ma poi penso che quello
che fa di me un uomo, per metà pazzo
e per metà dio, è tutto ciò che non so,
la parte più oscura a cui volto le spalle.

Saperti in un posto inimmaginabile,
vederti passare dove le querce
mutano con le stagioni.
Guardare la salita degli affanni,
gli specchi dei cambiamenti.
E chiedersi fino a che punto
gli impostori siano amici del dolore.
Fin dove arrivino le orme
ora che i tuoi sentieri
si perdono nella misura
dei pensieri.

 

Bonifacio Vincenzi è nato a Cerchiara di Calabria nel 1960 e attualmente vive a Francavilla Marittima (CS). In più di trent’anni di attività letteraria ha curato diverse antologie poetiche e ha collaborato a quotidiani, settimanali e riviste specializzate. Nel suo vasto repertorio di pubblicazioni, ricordiamo: cinque raccolte di liriche (ultime delle quali La tempesta perfetta (Aljon Editrice), 2009), Le bambine di Carrol (LietoColle, 2015), Bataclan (LietoColle, 2016); i romanzi Arrivederci, Letizia! (Editrice Il Coscile, 2000); Testimone un cane (Panesi Edizioni, 2015); Il raduno (Ensemble, 2018). Ha pubblicato, inoltre, molti libri per l’infanzia. Ha diretto la rivista “La colpa di scrivere” e il quadrimestrale di letteratura “Il Fiacre N. 9”. Attualmente dirige il bimestrale di poesia “Il sarto di Ulm”. Cura per Macabor Editore Secolo Donna. Almanacco di poesia italiana, l’opera Sud I poeti (20 volumi) e I poeti del centro Italia (20 volumi). È direttore editoriale di Macabor Editore.

 

 

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