VENTIDUEMILA MATTINI

Finché avesse continuato a prediligere il mattino, non sarebbe invecchiato, ne era sicuro. Il caro mattino. Inizio, speranza, dono ancora incartato, nuova terra che si avvista da prua. Il mattino che non aveva mai smesso di portargli lo stesso stupore di vita che nasce emergendo dal sonno, luci che si accendono sulla ribalta, i propositi, porta che piano si schiude a chi è fuori in attesa.
Quando era molto giovane si era limitato a goderne così, come glieli regalava il susseguirsi dei giorni, i suoi mattini sempre radiosi, anche quando erano fumosi e incerti o soffriggevano di pioggia sottile come vecchie padelle. Poi con gli anni non si era più accontentato e un poco alla volta aveva cominciato a prolungarli, alzandosi sempre più presto.
C’è un limite invisibile in mezzo alla notte. Una specie di barriera mobile, cangiante, che fa dire con certezza, senza guardare l’ora, se è ancora notte o può già considerarsi mattino. Quando il suo sonno sottile lambiva quel confine era come se una mano amorevole gli accarezzasse i capelli per destarlo con dolcezza di madre. Allora si alzava e inalava a pieni polmoni quell’aria nuova, assisteva allo sgretolarsi del castello dei timori notturni, si riappropriava del controllo ed era nascente, di nuovo, come una fenice.
Sapeva già che cosa sarebbe successo nelle ore seguenti. Lentamente ma immancabilmente tutto si sarebbe affievolito, diluito, annacquato e infine perduto, rivolo lieve di sangue nello scarico del lavandino. Verso le dieci e mezza, le undici al più tardi, ogni cosa sarebbe finita. E sarebbe restata imperante la volgarità del giorno, si sarebbero snocciolate le assurde inutilità della vita, i suoi riti idioti, la sua superbia vana.
Nulla che il mattino avesse promesso sarebbe stato mai mantenuto. Mai. Lo sapeva sin troppo bene, ma questo non aveva alcuna importanza e finché non aveva importanza si poteva dire di essere ancora giovani, che questo solo vuol dire esser giovani: nutrire la speranza lucente e vana che c’è negli inizi.
Da qualche tempo, addirittura, aveva preso a spolpare le sue giornate e trasformarle solo in mattine. Si alzava alle tre e mezza, alle quattro al più tardi, viveva il suo lungo mattino e poi, dopo aver brevemente pranzato e sbrigato qualche faccenda da poco, andava a dormire. Viveva così, d’inizio in inizio, e la morte non avrebbe saputo da dove entrare, non avrebbe potuto trovare fessura nella sua veglia fatta di primi passi e occhi che si aprono e infanzia del giorno. La lentezza, il torpore, la stanca disillusione di chi si è troppo a lungo battuto, di chi ha consumato i suoi passi, i suoi respiri, il bisogno di riposo e di quiete che è del giorno che si spegne, non erano luoghi che aveva l’abitudine di frequentare. Se la vecchiaia e la morte lo avessero cercato lì, di lui non avrebbero potuto trovar traccia.
E così alla fine sarebbe venuta da lui nel sonno, probabilmente, la nostra signora delle gomme da cancellare, e lo avrebbe preso a tradimento, quando era ignaro. Altre possibilità non aveva: morire nel mattino non era cosa possibile. Meglio così, pensava, e scriveva i suoi versi d’alba su fogli di carta liscia e lucida, nella sua collana di mattine infilate sulla punta della penna. Poi, mentre il mattino soccombeva, ricopiava, sbocconcellava qualche fetta di kulen col pane nero e andava a dormire chiudendo il giorno antropofago fuori dalle palpebre.
Dormiva già da almeno mezz’ora, alle dodici e tredici minuti di quel 3 Maggio 1995. Con il mattino alle spalle e un nuovo mattino davanti che era troppo lontano per venirlo a salvare.
Dei sei missili tipo Orkan M 87 lanciati sulla città almeno due esplosero nella zona del Ministero degli Esteri. La deflagrazione azzannò il suo palazzo e lo dimezzò.
Dal centro dello scoppio si sparsero nel raggio di centinaia di metri i campanellini, trecento piccole bombe che avrebbero aspettato acquattate per giorni e giorni piedi e mani di passanti ignari. Poi, mentre il fumo si diradava, qualcosa di bianco sfarfallò nel cielo. Dal tavolo che stava sul mezzo pavimento della mezza stanza in bilico sulla torre del palazzo mutilato, si alzarono in volo nella polvere centinaia di fogli chiari e lucidi che volarono nell’aria di Zagabria come uno stormo di colombe.
Versi migratori, che venivano dall’alba, versi mattutini che planarono a terra volteggiando nel giorno alieno, atterrito e feroce.

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