Oblivion – breve storia sulla memoria


Del vecchio vicino non si sapeva più nulla, erano giorni che non si sentiva la televisione con volume fotonico che passava in rassegna i soliti canali ormai conosciuti a memoria. La parete gialla che ci divideva era poco più di un cartoncino, lo spessore era simile a quello degli alberghi da poco prezzo, dove se scorreggiavi bastava dire “scusate” che subito seguiva la vocina anonima e lontana gridare “meglio fuori che dentro!”. Sentivo sempre ogni cosa comunque del vecchio vicino, sentivo la tv, quando cucinava e soprattutto sentivo i suoi figli che lo andavano a trovare ogni tanto, giusto quando si ricordavano. Rammento che loro arrivavano con la macchinona e lui si affacciava subito nella balconata comune, alzava la mano e cominciava a salutarli mentre ancora stavano sotto. Era sempre triste, il vecchio… aveva quell’espressione che la diceva lunga. Quel misto banale “mi sono ammazzato tutta la vita per ritrovarmi qui, solo, senza un soldo ad aspettare che qualcuno si accorga di me”. Ma tutto taceva, da giorni al posto del solito ronzio, sentivo le cicale. Incredibile, sotto non avevo prati né boschetti ma un intero parcheggio panoramico vista strada e loro, nonostante il cemento cantavano. Qualche giorno dopo tornai a casa e intravidi suo figlio arrivare con la macchina, feci un leggero cenno di saluto con la testa cercando velocemente di allontanarmi. Non avevo voglia di parlare e lui non mi vide. Montai le scale e nel mentre ripensavo alle voci che giravano da qualche giorno. Il vecchio stava male, era stato portato in ospedale. Il suo cuore aveva avuto qualche problema. Nulla di troppo grave ma a quanto pare non voleva più combattere, aveva smesso di mangiare. Stava lentamente lasciando alla morte il fastidioso compito di portarselo via. Arrivato al piano, infilai velocemente le chiavi nella toppa. Aperta casa entrai e per la prima volta in vita mia chiusi la serratura con tre mandate. Mi poggiai sul divano e stappai una birra… Finalmente potevo riposare e sentire nuovamente le cicale.
Fu mattino. La sveglia che doveva suonare, suonò in continuazione, prima una volta, poi un’altra e poi un’altra ancora. Il lavoro era iniziato da tempo e io ero ancora troppo sbronzo per andare. Mi sarei inventato la solita scusa: salve capo, scusi capo, è che ho avuto un malore che capo… Non le dico capo. Farò prestissimo capo, non si preoccupi capo. Mi alzai che erano già le 12.00 e guardai nervosamente la finestra, con il suo sole giallo che entrava giallo come un colpo giallo sulla retina. Non ce la facevo, la luce mi soffocava, inoltre mi girava la testa e avevo una gran voglia di vomitare. Misi subito la moka a sfrigolare, un caffè poteva in qualche modo aiutarmi. Accesi la televisione, ma proprio non funzionava. Ogni canale sparava le solite minchiate e io non avevo voglia di sentirle.
Spensi la televisione, mi avvicinai al cesso e gradatamente sentì il vomito risalire lento. Prima dallo stomaco, superato il cardias su e su e su lungo l’esofago. Trattenni il vomito in bocca per alcuni secondi, non volevo in nessun modo sporcare per terra. Chi avrebbe pulito poi? Cioè, non è possibile pulire il vomito… Fa vomitare perdio! Mi affacciai sulla tazza immacolata vergine di porcellana e lasciai colare a tocchi l’intruglio schifoso dello stomaco. Toh, un maccherone! Mi dovrei ricordare bene di masticare quando mangio! Feci tutto, ma tutto tutto, e con il restante giramento di coglioni oltre che di testa mi feci forza e mi sciacquai la faccia.
Ora ero pronto! Il tempo di un caffè veloce e potevo uscire di casa. Che palle, andare a lavorare in ritardo per recuperare mezza giornata schifosa di ferie. Perché questo schifo di mondo mi concede solo due settimane all’anno e certo non potevo buttare via una giornata intera appresso al mio stomaco. Fuori il sole picchiava come un ossesso. Guardando il balcone dal mio saloncino, si poteva distinguere chiaramente la radiazione ondulante di calore che riverberava dalle mattonelle anni 60. Cazzo, che caldo che fa… Fa talmente caldo che non si sentono neanche più le cicale… Ah, già, le cicale. Chissà che fine ha fatto il vecchio vicino? Mah, sarà morto… Certo che schiattare con questo caldo è un bel palo nel culo. Immagina che palle dover stare sotto il sole cocente durante il funerale. Sentire il prete blaterare stronzate abissali a 40 gradi, tutto bardato a lutto con la lacrima facile e una mano che gratta superstiziosamente i coglioni. No, non si può fare. Uno se deve schiattare deve farlo per forza di cose in un mese freddo. Deve avere la decenza di capire che mica tutto il mondo gira intorno a lui. Io se morirò lo farò a febbraio… al massimo ad aprile, quando comincia a sentirsi qualche nota di caldo ma l’aria è decisamente più respirabile.
Bevvi il caffè bollente tutto in un sorso, mi scottai atrocemente la lingua e bestemmiando come l’ultimo dei demoni dell’inferno uscii di casa. Mentre passavo, diedi uno sguardo alla casa del vecchio. La porta era chiusa. Non si sentiva niente, l’ombra la copriva come una specie di drappo nero. Non so perché, ma avvertì uno strano senso di freddo alla base del collo. C’era qualcosa che proprio non tornava su quella porta. Come una specie di richiamo, un sentimento che mi spingeva ad aprirla. Rimasi qualche secondo con un piede sulla scala e l’altro nel pianerottolo ad osservare. Il ronzio continuo che ascoltavo qualche tempo fa era cessato, era cessato così, d’emblée!
Era strano il silenzio delle scale, strana l’ombra delle scale, strano il sentimento che mi attanagliava bloccando il mio sguardo verso la maniglia e la serratura. Mi feci forza e piano piano comunque scesi, aprii il portone che con il suo solito “Gnnneeeeeeeeeck” mi fece ciao. Salutai con un ciao anche io e andai.
La strada era deserta, ogni tanto passava qualche macchina, io camminavo a piedi. L’ufficio del capo era a pochi minuti da casa mia. Che fortuna in questo, mi ripetevo ogni tanto. Non è facile trovare lavoro vicino casa, se di lavoro si può parlare… Ascoltare ogni giorno il frignante e dispettoso ronzio dei clienti che blateravano di problemi di Iva, tasse e di cosa cazzo me ne frega era veramente una cosa Infame. Ogni giorno la stessa menata, per anni: arrivo in ufficio, mi attacco al telefono e tac! La bella e stronza segretaria tutto fare del capo mi sferraglia addosso centinaia di chiamate e lamentele varie. Un giorno me lo disse, ricordo bene: “Guarda che se non te la senti di fare questo lavoro puoi benissimo cercarti altro, capisco che non è il massimo, ma tu sei pagato per essere insultato… E’ il tuo lavoro. Devi risolvere i problemi!”.
Risolvere i problemi… Cazzo, una delle cose che più mi faceva sentire una merda visto che della mia vita non avevo risolto mai nulla. Ho sempre avuto la fortissima capacità di mandare in vacca ogni cosa di me e paradossalmente ero stipendiato proprio per quello che più non riuscivo a fare! Come per evidenziare ogni giorno, ogni secondo, che nella vita ogni cosa evolve e che quindi la mia incapacità è frutto di una svogliata resistenza alla vita stessa. Alla socialità, al fatto che la vita è fatta d’incognite e che ogni cosa affrontata in modo corretto si può risolvere. Basta fare! Ecco appunto: fare, sentire, parlare… Vi odio, tutti vi odio! Il vostro vociare mi infastidisce, tacete, tacete.
Arrivato all’ufficio entrai e presi subito l’ascensore. Quarto piano a destra e subito mi infilai nella speranza di non incontrare il capo che sicuramente mi avrebbe rotto le palle. Volevo almeno un attimo per riprendermi e per prepararmi psicologicamente alle scuse di rito. Mi sedetti alla scrivania accesi il computer e mi guardai in giro. Tutti erano presi, testa china…. Neanche un saluto. Certo, lavoro lì solo da dieci anni; vorrai mica che ti salutino? Quanta confidenza! E poi sinceramente a me andava bene così. Meglio non relazionare troppo con i colleghi, che poi si sa come va a finire, ti chiedono di uscire, ti chiedono di giocare a calcetto, ti chiedono…
Iniziai subito alcune pratiche lasciate in sospeso dalla sera prima. Piano piano i numeri presero il sopravvento. Lo sfondo con la bella mora seminuda del mio desktop sparì smiagolando nel nero del programma gestionale. Ogni casella, una serie di cifre e di commenti inseriti da chissà chi. Il mio lavoro consisteva in parte nel regolarizzare queste pratiche, e cioè, dare un’occhiata ai conti, verificare che il contenuto della proposta fosse corretto e certificare in maniera da conformare in modo produttivo e standardizzato il lavoro di ognuno. Cazzo che menata assurda, come se ognuno di questi stronzi che lavora da anni qui non sapesse come alimentare questo marchingegno. Sapevano tutti come fare e quindi il mio era un lavoro pressoché inutile. Ogni tanto scappava un refusino, ma nulla di più. Ogni cazzo di fottuta casella era al posto giusto, ogni dogma sancito dalla Supercazzimperi inc era rispettato. Io ero un ammennicolo, un semplice ripiego alla semplice realtà dei fatti. Io non dovevo avere tempo libero e se quindi non avevo telefonate di insulti da gestire e se pochi minuti mi rimanevano tra un vaffanculo e uno “scusi ma qui non ci siamo capiti” dovevo in qualche modo partecipare alla produzione, anche se non serviva assolutamente a nulla. Perché è così che comprano la nostra vita e la somministrano, goccia a goccia, secondo per secondo. Boccone dopo boccone spolpata, arresa… distrutta. In compenso avevo la possibilità di andare a pisciare, una volta ogni due ore e magari visto che la meravigliosa legge lo consente, di fare una piccola pausa ogni tot minuti davanti allo schermo.
Di solito uscivo sul balconcino con il caffè in mano e fumavo una sigaretta dopo l’altra. Una volta ne riuscii a fumare perfino tre di seguito. Vista l’annosa dipendenza tabagista che mi infliggeva rote e scleramenti, tra una pausa e l’altra mi imbottivo per benino.
Mentre guardavo e filavano numeri da capogiro eccolo finalmente. Il grande capo si presentava puntuale alla mia scrivania. Eccolo qui; l’uomo che ce l’aveva fatta, mezza età, stempiato e brizzolato, prominente pancia da bevitore di whisky e sorriso smagliante si apprestava ad appollaiarsi come un condor si appropinqua sulla spalla del defunto. Ecco, camicia azzurra, stile da leader e tutta l’amarezza di una vita fatta di violenze, pestaggi virtuali e commerciali… vittorie.
“Allora caro mio, come andiamo? Che mi racconta? Prego, venga nel mio ufficio a fare due chiacchiere”.
Adoravo lo stile viscido e fastidioso di quest’uomo. Il suo modo gentile e dolce simile a un macellaio di Kobe che massaggia il suo bel manzo prima di ammazzarlo. C’era un che di poetico. Morire di una morte serena e rassegnata, rilassata… senza paura.
Entrammo nell’ufficio, la sua schiavetta personale stava al di là della scrivania con un sorrisetto da Mamba nero. Lui si poggiò con calma sullo schienale della poltrona, prese la sua bella bottiglia di whisky Oban e con leggiadria se ne versò rapidamente un bicchiere.
“Caro mio, vuole un goccetto?”
“No grazie” – al solo vedere ancora il whisky mi si squarciava lo stomaco.
“Allora veniamo al dunque… Senta bene per cortesia”
Con la mano libera afferrò dalla cassetto della scrivania un fascicolo rosso, uno di quei fascicoli con laccetto e cartoncino buono. Sorseggiò il suo whisky e poggiando il bicchiere mi guardò fisso negli occhi.
Il suo sguardo faceva paura, non aveva nulla di umano e mi faceva sentire enormemente a disagio. Già, come se infondo mi sentissi in colpa per il mio lavoro. Come se il fatto di vendere la mia vita, il mio prezioso tempo, in realtà non fosse qualcosa che io potessi decidere. Non ero io a vendermi, erano loro che mi vendevano e che decidevano. Non avevo voce alcuna in tal senso e il mio compito era solo quello di essere grato per questo.
“Vedi questo fascicolo? Amico mio… Ti spiace se ti do del Tu?”
In quel momento, allo scoccare di quella frase, tutto cominciò ad assumere un senso. Erano dieci anni che lavoravo in questa azienda. Dieci fottuti anni che prendevo insulti di ogni forma e colore, che correggevo cose da non correggere, che fumavo sigarette e bevevo caffè sul balcone. Dieci anni e mai una volta, mai, mi fu data una tale confidenza.
Ero spacciato…
Il macellaio di Kobe stava lentamente affilando il suo coltello e io ne assaporavo già la lama nelle carni. Prima mi avrebbe tranquillizzato però, come è giusto che sia. Mi avrebbe amato e vezzeggiato e dopo, tutto sarebbe tornato al suo posto. Tutto della mia vita avrebbe raggiunto il vero significato. Ero una vacca, una vacca da mungere, da accarezzare e vezzeggiare e poi da sacrificare. Ad ogni parte di me sarebbe stata attribuita un’etichetta, un prezzo che però sarà quello finale. Da lì a poco, ogni mio ricordo svanirà e di quella vita sarà il nulla. Presto una nuova vacca da mungere verrà impiegata al mio posto e io sparirò, nessuno dirà nulla. Tutto avrà finalmente un senso. Tutto finalmente avrà un prezzo.
Quanto varrà la mia vita? Quanto inciderò sul PIL di questo paese? E soprattutto, la borsa di Milano subirà un’inflessione da tutto questo?
“Ascolta come ben sai le sorti di questa grande famiglia sono mia responsabilità, lotto da sempre in modo viscerale per la riuscita dei nostri propositi. Mi sono ripromesso che mai avrei potuto fallire e quindi ho faticato. Oggi ognuno di voi ha un preciso posto in questa azienda, ha una vita grazie ad essa e io sono felice di sapere che tutti, compreso te, siate al sicuro qui da me. Purtroppo amico mio, io non posso sfuggire alle mie regole. Io stesso che ho creato devo sottomettermi alle leggi e tu oggi hai di fronte una scelta difficile per il futuro. Il tuo rendimento nell’ultimo anno è stato basso. Troppe assenze, troppa indolenza… Il decentramento in Cina mi sta portando via risorse ed io devo, ripeto, devo agire. Ora io so che tu hai una vita difficile. Sei solo, anzi, non mi pare di aver mai visto nessuno con te. Vivi solo giusto? Ma no, no, non dirmelo, anche se così non fosse non cambierebbe la mia proverbiale generosità.

[Il coltello s’infila freddo tra la 3 e la 4 vertebra del collo].

Sei licenziato, non ti nego la difficoltà e l’amarezza che questo mi comporta e visto che sono padre, prima che uomo d’affari, ho deciso questo. Se tu firmerai le dimissioni in modo volontario, oltre alla tua liquidazione questa azienda è pronta a donarti un piccolo aiuto… beh, diciamo un grosso aiuto. Pensavamo di darti come dicevo, oltre al dovuto, una buona uscita di 2.000,00 Euro”.
Ecco, finalmente il numero che conteneva la mia vita era uscito fuori. Ogni cosa io fossi o sarò è contenuto in quel numero. Duemila, duemila euro era il valore attuale… Non credo che le borse mondiali se ne accorgeranno. Nessuno strillerà “Vendo! Compro, compro, compro maledetti, compro!!!” per questo.
Firmai il foglio, mesto me ne andai alla scrivania che non era più mia. Ogni cosa di quella scrivania parlava di me. C’era la foto di quando da ragazzo pescai un tonno sopra una barca con mio padre, c’era la tazza con scritto “Keep calm and drink the caffè” che a modo suo doveva dire che sono una persona di una certa età e che uso frasi scontate per risultare simpatico. Tanti piccoli oggetti sparpagliati nei cassetti, che in quel frangente fungevano più da dimenticatoio o buco nero per raccogliere quello che aveva perso il suo significato. Esattamente come me, non avevo più senso sulla lastricata scrivania della vita e forse, avrei potuto trovare spazio lì dove ogni cosa si nasconde agli occhi. Dove non creiamo domande né risposte. Un buco dove far calare lentamente la scure della morte che tutti attende.
Uscii dall’azienda con le mani in tasca. Il sole ancora alto, erano le 16.00 e quindi in anticipo sulla normale uscita da lavoro. La strada fumava dal caldo e qualche cane gironzolava appresso ai cassonetti. Un tassista per poco non mi infilò sotto ma io con un poco di quel senso di sopravvivenza che mi era rimasto feci un balzo indietro e lo schivai. Non contento il tassista, abbassò il finestrino e mi mandò a fare in culo. Ecco, il mio lavoro che consisteva nel ricevere insulti finì così, con un insulto.
Arrivai a casa, il portone questa volta non mi salutò più. Forse era in collera o deluso, non lo so, alla fine anche io ero deluso di me. Salite le scale ecco che di nuovo mi trovai faccia a faccia con la porta del vecchio vicino. Ora che la luce era leggermente calata, l’ombra era ancora più intesa. Il buio lasciava spazio solo alla maniglia ottonata e lucida. Era come un lampo che perforava la notte e io nuovamente ne ero ipnotizzato, un po’ come fanno le falene sul fuoco. Nel silenzio della tromba delle scale ogni tanto si sentiva un rumore, sordo. Proveniva dalla porta del vicino ed era stranamente metallico. Faceva

“ishhhhh, ishhhhh, uuuuffff, ishhhhh, ishhhhh, uuuuffff”.

Appoggiai l’orecchio alla porta, il rumore continuava imperterrito, ma dietro a quel ronzio sentii delle voci. Non riuscivo a percepirle per bene, ma sembravano la voce di una donna e di un uomo.

“ishhhhh, ishhhhh, uuuuffff, ishhhhh, ishhhhh, uuuuffff”
“Dottore venga a ve..”
“ishhhhh, ishhhhh, uuuuffff, ishhhhh, ishhhhh, uuuuffff”
“Un minuto e sono qui…”
“ishhhhh, ishhhhh, uuuuffff, ishhhhh, ishhhhh, uuuuffff”.

Il rumore metallico mi impediva di ascoltare e mentre premevo l’orecchio sulla porta “clack!” la serratura si aprii e io quasi caddi per terra in modo rovinoso.
Sbirciai ma non si vedeva un granché. C’era un corridoio con numerose porte bianche chiuse ai lati e in fondo una porta rossa, vagamente allucinogena che però era semiaperta. Il suono proveniva da lì e io attirato dal rumore sempre più pressante mi avvicinai. Da lontano potevo intravvedere delle ombre. Due ombre che si muovevano in modo convulso e spettrale. Le teste o quello che dovevano essere le teste, ballonzolavano da una parte all’altra come se non avessero forza nel collo, come quando in estate le margherite muoiono e chinano la corolla sbattuta dal vento. Ogni passo che facevo ora era scandito da un “ping, ping, ping” a me ignoto e non capisco come, ogni passo sembrò durare in eterno.

Fu mattina. La luce fece presto ad arrivare, entrò dalla finestra con il sole giallo che entrava giallo come un colpo giallo sulla retina e le mie mani stanche e vecchie erano ricoperte di tubi e cerottini.
La macchinetta che pompava ossigeno nei miei polmoni continuava con il suo imperterrito:

“ishhhhh, ishhhhh, uuuuffff, ishhhhh, ishhhhh, uuuuffff”

e l’altro marchingegno che misura il battito del cuore continua con il suo:

“ping, ping, ping”.

L’infermiera Irma oggi arriverà presto ed insisterà perché io mangi tutta la sbobba di questo schifo di ospedale. Sono giorni che non mangio e oggi ricordo tutto, perfino del mio ex capo mi ricordo. Oggi la mia testa funziona ed è meraviglioso potersi ricordare dei figli. E’ meraviglioso sapere che presto loro verranno a trovarmi. Io non so esattamente cosa mi succede, ma dimentico ogni cosa e tutto svanisce e io non so perché ma non ho più fame… E’ come se avessi perso qualcosa…
Qualcosa di importante…
E non so perché.

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