Rewind

Quando mi hai lasciata mi sono uccisa.
Non ci ho pensato molto: era l’unica cosa che potevo fare e a sopportare quel dolore non ci resistevo più neanche un secondo.
Sono passata sotto la sbarra chiusa del passaggio a livello come l’ultimo dei soldati della parata passa sotto l’arco di trionfo, quando nessuno mi guardava più, senza che a nessuno venisse in mente di fermarmi.
Non ho sentito niente quando il locomotore arancione mi ha attraversata spargendomi intorno a sé come una nuvola di polvere e delle urla tardive degli astanti e delle sirene che diavolo vuoi che mi importasse. L’unica cosa che ho saputo è che potevo librarmi nell’aria e volare con le braccia aperte e lo sguardo di satellite e questo mio potere subito l’ho usato per venire ancora a ritrovare te. Che eri rimasto nel recinto dei vivi e finalmente potevo rimirarti indisturbata. Come la visitatrice di uno zoo che ha pagato il suo biglietto e davanti alla tua gabbia ci può restare quanto le pare e piace.
E ti ho visto infatti. Ti ho visto.
Con il cuore vuoto di pena e la serenità che è degli animali, bere e mangiare e leggere riviste e defecare e masturbarti e dormire e poi guardarti un film. Accompagnarti ad amici, non amici senza nessuna pena che non fossero contrarietà da poco, nessun pensiero che non fossero ovvietà, senza alcun pronome sulle labbra che non fosse io. Ed io ed io ed io.
Programmare la tua serata, la prossima mezz’ora, secondo il tuo copione di guaglione figlio di mammà, di ragazzone vitaminizzato dal capello appena fresco di barbiere, bisognoso di donne che ti stirino i calzini, che gemano sotto il tuo peso e di cui parlare male con la combriccola quando non ci sono. Avido di motori, di divertimento dozzinale, dipendente da una badante assidua e onnipresente, da una perenne rompicoglioni che ti legga il libretto di istruzioni e organizzi la tua vita e finga di non sentire quando scoreggi forte sotto le lenzuola.
Ti ho visto. E come no. E ho letto i tuoi pensieri. Che erano futili e lenti e senza grazia. E quel che chiamavi amore era bisogno, di sesso, di cibo, di riparo. E se fingevi un sentimento, fingevi male, come una cosa scopiazzata e non capita. Che l’unico sentimento che ti scuote è il bisogno di una madre. Che ti rimpinzi, ti accarezzi e poi ti metta a letto, che sia pazza di te e ti perdoni tutto per poterla ogni giorno abbandonare. Dilaniare. E poi tornare.
E allora ho capito e mi sono pentita di aver abbracciato il treno.
Sono tornata sui binari e ho riavvolto il nastro.
Ho guardato il treno arancione non attraversarmi lasciandomi un vuoto nello stomaco e poi basta, come un languore.
Ho attraversato insieme a tutti gli altri mentre la campana tintinnava ancora e sono stata viva e sono stata triste. Di essere guarita finalmente da quella follia che mi faceva capace di attraversare i treni.

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