L’ancora gettata nella dolce oscurità
rovista nel brodo strisciante a gattoni
a meno che non si possano rivoltare
mura, senza l’ausilio del fruscio.
Ho assaporato il dolce gladiolo
nei dolci frangenti dell’amarezza
quel fiore che non infligge comprensioni
perché sorride ai piedi e ai matti
e col sorriso t’alza gli occhi al cielo.
Rifiutai l’invasione della deferenza
nelle primavere voluttuose della stanza,
nel cui cesello ogni umana sofferenza
si provava e s’esauriva nell’evoluzione
di un microcosmo coeso d’inesattezze.
Un mondo si creava e distruggeva
un mondo senza visione oculare
ma che tutto spiava e carpiva e sapeva.
Il canto stanco della diffidenza
quando si posava agevole nell’ossa,
era un pianto asciugato
dalla lucerna della luna,
dove ogni ricordo
riposa nel suo vasto ventre.