Con una voce in meno

Ho bisogno di calzarmi addosso un dramma per poterti scrivere. Avevo ripromesso di farlo, anche a costo di rendere cenere queste mani. Non ho mai avuto il tempo di pensare e ti giuro che ora, mentre scopro questa nuova sensazione, mi fa male la testa. Ho scoperto ieri che è proprio il cervello a produrre i pensieri, le parole, le emozioni, le direttive, i movimenti. Lo sapevo già, ce lo hanno insegnato a scuola, ma credo di averlo completamente capito solo ieri, quando avrei voluto essere immobile come un soldato, ma la gamba destra continuava a tremarmi. Il cervello è il dittatore del corpo. Non credo riuscirò mai a mettere in atto una rivoluzione per potermene liberare.
Avrei bisogno di parlarti veramente, senza distrazioni di alcun tipo. Quindi ti chiederei di spegnere il telefono e venire con me a colonizzare uno di quegli isolotti che dicono siano ancora incontaminati, nel Pacifico. Vivremo per un po’ di cocco, poi ci toccherà tornare a mangiare a carne, perché alla fine poter essere vegetariani è un lusso, lo sappiamo bene. Oppure, potremmo andare su una montagna la cui vetta è una gigantesca nuvola color cemento. Come ultima possibilità, potremmo calcolare l’esatto punto opposto sulla Terra, se sarà nell’Oceano impareremo a nuotare fino a lasciarci cadere nell’acqua gelida. Ultimamente ti ho ripensata molto, trovandoti al fianco dei miei quadri preferiti, tra le lettere delle mie poesie preferite, ultimamente ho avuto forse meno tempo del solito per murarmi nel mio silenzio. Paradossalmente ho capito di più sentendomi parlare per cinque minuti consecutivi che in anni di dialoghi mentali. Forse sono capace di impazzire anche io. Forse sono anche predisposto.
Conosco a memoria almeno un migliaio di canzoni e ancora non ho imparato bene a respirare al tuo stesso ritmo.
Il dramma ora l’ho trovato, lo conosci anche bene e in parte spaventa te quanto me. Ho provato ad annegarlo con tutte le mie forze, coi miei piccoli muscoli, in qualche cellula del mio piede sinistro, ma continua a scapparmi e m’invade la testa, superando le Alpi che ho costruito all’altezza dello stomaco. Non so, non so se potrai mai aiutarmi a curarmi, non so se si curerà per i fatti suoi o ci sarà bisogno di un mio cambiamento, non so se ci sarà bisogno di allontanarmi da qui. Nel caso, non ti chiederò di seguirmi. Non ce ne sarà bisogno.
Mi hanno stroncato ancora le solite parole, le solite accuse, lo sai che per me si tratta di un Grande Giudice Divino che mi fissa con occhi bianchi e io non so se reagire, se morire nel silenzio, non so. Tutto parte da qui. Non so mai io. Allora non ti chiedo di darmi una direzione. Allora ti chiedo di darmi la forza per trovare una direzione. Allora ti chiedo di convincermi, fino a che le corde vocali ti si usurino, delle mie capacità. Dimostrami che anch’io, in qualche modo, riesco a creare belle statue bianche, quelle statue così belle da non farci pensare in una creazione umana, ma in uomini immobilizzati, bloccati in qualche incantesimo di streghe cadute vittime dell’Inquisizione. Ti chiedo di accarezzarmi, se non saprò capirti. Ti chiederò tutto, ma tu dammi solo quel che riesci o quel che vuoi. Sai quanto impegno mi richiede ricreare artificialmente la stabilità, ancora non ho ben imparato a stare in piedi, eppure non devo cadere, perché è questo che mi si sta richiedendo. Se sbagliassi diventerei io lo sbaglio e per tanto tempo mi son sentito tale che vorrei imparare a credere di poter essere qualcosa d’altro. Mostrami anche i tuoi funerali, non sentirti in colpa, mai, poi si apre il cielo e la luce che si crede sia sole, è in realtà un faro marino che prova a mostrarci il porto dove attraccare per un po’.
Se nevicherà tremeremo al freddo, ma sopravvivremo col caldo dei poveri.

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