Figli di mamma

Il mio nonno materno era un uomo minuto e silenzioso, abituato al lavoro da sempre, due occhi nascosti dall’ ombra un borsalino, quasi a non volerne mostrare l’ azzurro chiarissimo, così raro tra quelli della sua generazione. Un uomo tranquillo che mentre era in giardino o nell’ orto fumava le sue sigarette di nascosto per non sentire le prediche dei familiari sui problemi di salute . Assieme a mia nonna abitava in provincia di Caserta, con figlia, genero e nipote e spesso i miei ci lasciavano lì in estate perché gestivano un ristorante, così loro non diventavano matti e noi facevamo le vacanze. A me e mia sorella piaceva tantissimo perché a quei tempi era ancora aperta campagna. Potevamo girare liberamente dappertutto ed andare in bicicletta senza la preoccupazione delle auto. Ci divertivamo un sacco e facevamo il bagno nelle canalette di irrigazione in cemento che attraversavano i campi, assieme ai cani, sempre con noi . Con mio cugino e i suoi amici fabbricavamo archi in legno, fionde, persino pipe procurandoci il materiale nei canneti. Facevamo tutto quello a cui oggi si vorrebbe rimandare con certe forzature nelle pubblicità di brioches prodotte in improbabili mulini gestiti da attori e le loro galline concubine .
Eravamo liberi, mia zia ci lasciava fare tutto quel che volevamo, mentre mia nonna continuava a brontolare e ad urlarci divieti e rimproveri, ma oggi so che lo faceva ridendosela sotto i baffi. Si divertiva un sacco a intimorirci e incuterci soggezione, era il suo modo di volerci bene perché era dell’ idea che ” i bambini si accarezzano quando dormono” , come tanti suoi contemporanei; guardavano al sodo, al concreto. Avevano passato la vita a badando all’ essenziale, al necessario e il superfluo non riuscivano a capirlo, non per cattiveria quanto per abitudine o per un certo senso pratico che era stato indispensabile alla loro sopravvivenza.
L’ unico momento dolente per me era il pranzo. La pasta e fagioli di mia zia era un incubo. Non credo non mi piacesse- anche perché con gli anni certe cose impari ad apprezzarle- piu’ che altro mi UCCIDEVA L’ INCANDESCENZA; quella roba non si raffreddava mai, io andavo di fretta continuando a ustionarmi lingua e palato e mia zia si arrabbiava se continuavo a giochicchiare col cucchiaio nel piatto aspettando un calo di quelle temperature laviche.
Fu proprio mentre lo usavo che notai un cucchiaio con sovraimpresso lo stemma della Wermacht : L’ aquila appollaiata su una corona di alloro che contorna la svastica.
Per anni mi chiesi come fosse finito in casa di mia zia.
Qualche anno dopo mio nonno ormai non c’ era più e mia nonna, quasi cieca per il diabete, passava le giornate seduta fuori a prender il sole o davanti al camino con la corona del rosario, fermando a me e mia sorella ogni tanto per ” scaldarci le mani” stringendole tra le sue.
Così una di quelle volte mi decisi a chiederglielo.
-Nonna, ma come mai avete quel cucchiaio dell’ esercito tedesco in casa? Dove l ‘ avete trovato? –
Con le mie mani tra le sue rispose – Eh, è lui che ha trovato noi. Era di un ragazzo tedesco che si era perso e scappava quando arrivarono gli americani, lo tenemmo nascosto nella stalla fino a quando poi riuscì a ad andarsene. Lasciò il cucchiaio nella stalla perché l’ aveva perso -.
Io avevo studiato la guerra a scuola ed a scuola mi avevano sempre detto che i tedeschi erano stati cattivi. Come potevano aver aiutato un cattivo ? Glielo chiesi.
Mia nonna sospirò .
-La guerra, figlio mio, è la guerra ad essere cattiva. Io non ho visto un cattivo, io ho visto un figlio di mamma pieno di paura ed ho visto la stessa paura in quasi tutti i soldati che mi sono passati davanti, che fossero tedeschi, americani inglesi o marocchini. Solo in qualcuno non l’ ho vista, ma quelli non erano uomini, erano bestie, ed erano sempre loro, le bestie, a comandare. Gli altri erano tutti figli di mamma che volevano tornare a casa-.
Mia nonna sapeva riscaldarle, le mani .

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