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La rete, il multitasking e un sacco di altre cose li aveva già inventati mia madre quarant’anni fa.
Apriva la finestra, abbassava la tendina e poteva dialogare istantaneamente con la finestra gemella, due piani, più sotto, dove l’aspettava affacciata la sua amica Anna. Come prassi, la connessione era preceduta da uno squillo di telefono, richiamo in codice che domandava la disponibilità al collegamento wi-fi. Noi tutti in casa, che ormai l’avevamo capito da un pezzo, a quello squillo manco muovevamo un sopracciglio. Sapevamo benissimo che nel giro di pochi secondi avremmo percepito le vibrazioni degli zoccoli del dottor Scholl che galoppavano verso il davanzale. Una volta stabilita la connessione, il dialogo tra le due finestre si manteneva attivo per una durata variabile ma raramente inferiore ai sessanta minuti.
Era incredibile la quantità di megabyte che venivano scaricati in quelle conversazioni. Ce n’era per tutti e non esisteva argomento che non potesse essere affrontato. Salute, figli, moda, casa, sesso, vacanze, mariti, televisione, cinema, vicinato. Senza parlare della velocità di connessione. Gesti, mimica, sopracciglia inarcate, occhiolini e allusioni riconoscevano come unico limite la velocità della luce, altro che Mbits al secondo.
Poteva anche succedere, non era infrequente, che la chat si trasformasse in forum, con l’apertura di nuove finestre e la partecipazione di altre utenti alla conversazione e allora lo schermo del cortile risuonava di voci che aggiungevano spontaneamente il loro contributo alla discussione senza bisogno di alcun moderatore. Ricordo che mia madre andava molto fiera della sua postazione la cui web cam, grazie alla posizione altolocata, le inquadrava solamente il busto consentendole di mostrarsi ai suoi collegamenti con indosso la veste da casa. Ben diversa era la situazione dell’amica Anna che lì in basso, con quella ringhiera larga, veniva inquadrata dalla testa ai piedi e questo la esponeva al giudizio dei vicini il che era, a suo dire, una gran scomodità.
Ma il momento topico, quello che io preferivo, era quando la delicatezza degli argomenti trattati sconsigliava la discussione pubblica e richiedeva un messaggio in privato. A quel punto assistevo affascinato all’utilizzo di un codice criptato che avrei dato qualsiasi cosa per imparare.
Il primo segno di quanto stava per avvenire era dato dall’interrompersi improvviso del ciaccolare che faceva da inesausto sottofondo ai miei giochi. Girandomi di scatto assistevo a quel punto allo spettacolo di colei che credevo di conoscere come mia madre che in punta di piedi, come posseduta, si segnava il viso e le spalle in rapida sequenza, con una sorta di gestualità iniziatica a cui immaginavo corrispondesse una analoga sequenza di risposte, giù, in basso, da parte dell’amica. Si trattava, ma lo avrei scoperto molto più tardi, del famigerato alfabeto muto, quello che rappresenta la A con la mano a pistola contro la bocca aperta e la R con l’indice che scatta sotto gli incisivi. Quanto il codice fosse sicuro in realtà non so. Più volte dal poggiolo dove lasciavo trascorrere i miei pomeriggi interminabili, sono certo di aver visto, durante queste comunicazioni silenziose, le tendine di altre finestre apparentemente chiuse muoversi misteriosamente. Anche gli hacker evidentemente erano già stati inventati.
Ma non erano solo le comunicazioni private a circolare con grande facilità in quella rete di finestre pronte a farsi aprire da uno squillo di telefono o da un fischio ben modulato. Anche le notizie provenienti dal mondo venivano trasmesse con micidiale efficacia.
Ricordo un farsi sera d’inverno, un tempo mite, un’ora tra le cinque e le sei del pomeriggio. Una dopo l’altra le finestre, già illuminate, aprirsi all’unisono, senza un segnale, e i visi e i corpi affacciarsi e iniziare un dialogo fitto e dolente. Si pronunciava più volte la parola bomba, mia madre si portava la mano alla bocca, come fa ancora oggi quando è sopraffatta. Qualcuno aggiungeva particolari sentiti alla tele, per radio. Una nuova finestra si apriva e qualcun’altro, giurerei fosse il vicino del terzo piano coi baffi, riferiva di una telefonata appena avvenuta con i parenti a Milano. Era il 12 dicembre del 1969. Da neanche mezz’ora era esploso l’ordigno di Piazza Fontana e già le nostre finestre trasmettevano dati e sgomento.
Un mese e mezzo prima, in California, lo studente Charley Kline aveva effettuato il primo collegamento remoto tra due computer, ma questo allora nessuno di noi lo sapeva né, probabilmente, l’avrebbe giudicato importante.

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