Recensione di “Panic room” di Antonella Lucchini

Sono entrata da uno dei tagli
che apri e che lasci aperti
quando scateni la fine del corpo
e poi te ne vai.
Mi sono vista.
E’ curato il giardino dei ricordi,
quelli belli hanno il gambo lungo
esile ma resistente
crescono su sassi scomposti
e di varie forme,
quelli brutti sono fatti così.
Alcuni tra i belli
hanno lo stelo più debole
quasi trasparente.
Uno sei tu
che sei ancora troppo in me
che sei quello più bello
con le spine più lunghe.
Hai ancora il tuo percorso da fare
l’abbiamo tutte e due,
siamo ancora nel mezzo,
amore.
Ed è qui,
non altrove
che la finta morte arriva
e mi apre.
Mi prende le ossa e le stringe
e fa male
come non puoi sapere
come non voglio tu sappia mai,
mi tira calci
da sotto le costole
(come fanno a non frantumarsi?)
mi affama d’aria
anche se ne sono piena
mi rovista nella testa
e mi ammala gli occhi.
Le dico
vieni
attraversami,
io mi tengo, alle corde, ma resto in piedi
e se mi inginocchio
è solo per farmi più scudo
se picchio forte il pugno
è per dire basta.
Allora rallenti,
colpisci di coda
fino a sparire.
Sei nel mio giardino
ti ho fatto entrare un giorno preciso
e non me ne sono accorta,
un giorno di maggio
dopo una notte di amore e lacrime.
Quella mano ritirata troppo presto
troppo in fretta
ha aperto una fessura.
Sono esausta
divorata
ma come fa notte
fa anche giorno.
I giorni sono solo miei.

…Ho paura della paura; paura degli spasmi del mio spirito che delira, paura di questa orribile sensazione di incomprensibile terrore. Ho paura delle pareti, dei mobili, degli oggetti familiari che si animano di una specie di vita animale. Ho paura soprattutto del disordine del mio pensiero, della ragione che mi sfugge annebbiata, dispersa da un’angoscia misteriosa…” Guy de Maupassant

Uno stile riconoscibile e perfettamente intellegibile quello posseduto da Antonella Lucchini. E’ poetessa in grado di sbirciare nel suo universo interiore e di tradurre le emozioni, i dolori, i mancamenti d’aria, con un linguaggio ricco di sfumature. Spesso con pochi versi, ella riesce a sbatterti in faccia una realtà come fosse un pugno sferrato direttamente in volto. Il suo stile appare così diretto, così vivo, così encefalico che sembrerebbe paradossale per una poesia che spesso, almeno nel mio modo di percepirla, ama nascondersi, in specie quella introspettiva, agli occhi più maldestri e superficiali. In realtà credo che il suo sia un espediente studiato per arrivare direttamente alle viscere dell’uomo bypassando in qualche modo l’universo razionale. Ciò che intravedo nel suo universo comunicativo è una volontà inestinguibile di arrivare al nocciolo della questione senza inutili balbettamenti. Ci troviamo così catapultati nella forza delle interiora, strano per chi dichiara tra le righe di possedere una certa o certe fragilità, ma non per coloro i quali vengono invasi dalla forza dei versi, per coloro i quali sentono nella poesia dell’autrice l’esplicazione di un mondo che riguarda anche un po’ loro, il loro mondo e tutto ciò è perfettamente spiegabile con una forza ancora più grande, ossia quella della sincerità. Un altro paradosso. Spesso si è detto che la poesia è finzione, per alcuni è semplice esercizio stilistico, per altri sembra essere necessaria una certa tecnica ben definibile: discorsi che lasciano il tempo che trovano e che potremmo benissimo annoverare nella sfera delle semplici opinioni personali. Per questo ho voluto dedicarmi a questa poesia insolitamente lunga per i canoni dell’autrice che nel tempo, forse, ha scelto di arrivare al lettore con la forza di poche immagini nitide e ben definite. In questa invece, evidentemente, le era necessaria la lunghezza per far uscire il terremoto di emozioni che rumoreggiavano dentro. Un terremoto di interruzioni, frustrazioni, paure, improvvisi sprazzi di luce a far chiarezza sul fiore delicato della speranza. La poesia, Panic room, già dal titolo introduce il tema del panico, quello stato nel quale si è costretti e ristretti entro spazi limitati e limitanti. Una stanza metaforica della mente dove le pareti diventano sempre più avvolgenti, soffocanti, buie e nelle quali vengono proiettati i mostri del passato che torna ad agitarsi dall’inconscio. Una presenza magmatica e incontrollabile che viene accompagnata da qualche ricordo che entra apparendo nella sequenza di immagini in maniera piuttosto sfocata:

” E’ curato il giardino dei ricordi,
quelli belli hanno il gambo lungo
esile ma resistente
crescono su sassi scomposti
e di varie forme,
quelli brutti sono fatti così.
Alcuni tra i belli
hanno lo stelo più debole
quasi trasparente.
Uno sei tu
che sei ancora troppo in me
che sei quello più bello
con le spine più lunghe…”

Ho voluto sottolineare questa parte della poesia perché mi sarei aspettato di trovarmi l’interruzione dell’evento panico alla fine, invece, in questo caso, la troviamo nella parte iniziale come ad interrompere l’ansia che si avverte nei primi versi. Un allentamento di tensione il quale, a livello tecnico, trovo sia espediente in grado di aumentare il phatos della parte finale che ci fa piombare in basso, giù, nelle sensazioni dell’autrice. Ci da inoltre qualche informazione sui ricordi belli: esili, trasparenti ma resistenti. Quasi avessero una volontà resiliente di aiutare la protagonista ad uscire da quello stato di terrore. E poi troviamo un ricordo più vivido degli altri, quello di una persona amata che risalta sul resto in modo quasi autoreferenziale. In questo passaggio possiamo assistere alla formazione di un immagine forte dal, parzialmente, taciuto. Ossia l’amore ci appare come il fiore considerato più bello (la rosa) che è in grado di proteggere la sua corona di delicati petali con ispide e pungenti spine. Mi sembra evidente la volontà dell’autrice di conservare questo amore, come un ricordo in grado di stagliarsi nel vortice in cui si trova, suo malgrado, in certe occasioni. Un vortice che spesso sembra far dimenticare tutto ciò che è bello, felice e buono nell’esperienza. Adesso è possibile comprendere i motivi per i quali, a mio avviso, la Lucchini sembra comunicarci e nello stesso tempo fissare in se stessa, un ricordo luminoso nel quale potersi aggrappare nei momenti di solitudine in cui getta il panico. Posso immaginare infatti che, uno stato simile, sia uno di quei momenti in cui ci troviamo a lottare con noi stessi, con la parte più forte del nostro universo esperienziale. E in questo passaggio viene rivelato questo stato dell’essere:

“Le dico vieni attraversami,
io mi tengo, alle corde, ma resto in piedi
e se mi inginocchio
è solo per farmi più scudo
se picchio forte il pugno
è per dire basta…”

dove vi è chiara la consapevolezza di lottare contro un qualcosa che travalica le nostre forze e ci si oppone reclamando semplicemente la propria volontà di resistere. Una resistenza in un luogo, quello mentale, che può essere affrontato solo in questo modo: con lo stimolo dei ricordi e con la volontà di resistere, sapendo che quella voragine aperta nel petto, capace di inghiottire la vita, tutta, intera, è solo un momento superabile grazie alla volontà di amare ancora. Per concludere vorrei soffermarmi su una parte della poesia che trovo ricca di suggestioni, quella sofferenza in grado di farci comprendere a grandi linee il momento in cui inizia il calvario della crisi panica:

“Ed è qui,
non altrove
che la finta morte arriva
e mi apre.
Mi prende le ossa e le stringe
e fa male
come non puoi sapere
come non voglio tu sappia mai,
mi tira calci da sotto le costole
(come fanno a non frantumarsi?)
mi affama d’aria
anche se ne sono piena
mi rovista nella testa
e mi ammala gli occhi..”

In questo frangente possiamo assistere come spettatori esterni allo dispiegarsi di un vero dramma esistenziale , entro il quale ci troviamo catapultati nell’interiorità dell’autrice dove, esente da qualsiasi aiuto esteriore, rimane tragicamente sola con se stessa (e a volte può essere un vero inferno), con l’unica assistenza della propria volontà in grado di farla aggrappare al simbolo cristallizzato dell’amore. Un simbolo che conserva al suo interno tutti gli elementi immediatamente evocabili in questa lotta interiore, stato per cui si è immersi in quel buco nero nel quale si è trascinati fino allo sfinimento. Tant’è vero che in un passaggio l’autrice rivela, fra un verso e l’altro, la sua preoccupazione per la persona amata che potrebbe in qualche modo sentirsi inerme ed incapace nell’affrontare una situazione per lui ignota. E questo ci restituisce un po’ il senso più alto dell’amore capace di sopravvivere anche nei recessi più bui dell’anima. Possiamo quindi azzardare che solo l’amore, o meglio, soprattutto l’amore, sia capace di diventare il simbolo dell’eterna rinascita. Soprattutto per la sua forza di essere attivato con semplicità all’interno della mente umana in quanto sospinta da un cuore che continua a trasmettergli ininterrottamente i giusti impulsi vitali.

Loading

3 Comments

Sono parole che mi lasciano una pienezza interiore impagabile, grazie a te Antonella!

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.