storie quasi d’aspetto

ogni volta daccapo cominciare
con la stessa luna, gli attori di sempre: essere in grado di infilarsi
con tutto il corpo in un inizio e poi discendere
per ogni traccia un dove
per ogni viso un rancore da scansare.
Era così carino aspettare,
così bello guardare le vetrine, scoprire
vecchie scenografie, indicare le volte
che partendo c’era sempre una voce affondata
un soldatino rientrato per la cena.
Angiolina il gatto sulle gambe ed io poeta d’erba
volato via l’azzurro che faceva mare più altro mare
l’acqua di casa. E non un suono. Non una luce accesa nel cuore.
La stazione è un minuscolo acquario. L’eterna mescolanza dei visi all’incrocio
l’eco della parola vuoto:
ci vado per essere nel tempo: per guardare i treni dormire, darmi un riparo,
sentire i fischi nella testa.
Ora che lingua parla il gatto? Quale verso mi tiene?
Quando ero piccolo giocavo coi trenini
facevo incontrare la gente, muovevo fazzoletti e orologi.
Riconosco un collega pendolare,
mi scansa, dice tra se: -sventura,
ed io mi guardo nei suoi occhi stretti
sembrano scale mobili che inghiotto per fame.
Sento la crosta del vuoto e dentro tutti gli inverni.
Ottanta chilometri al giorno. una vita. Sono pieno di scale mobili.
Salgo sul vetro di un negozio: mi vedo, vedo l’erba, ho sete
di notti e coincidenze, di lune che parlino ai gatti, di vino e meccanica.
Piego il pane nella tasca e aspetto
che da una parte qualsiasi venga a piovere.

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