Per quanto attiene all’origine del linguaggio, sul bisogno, cioè, di comunicare con i propri simili, gli studiosi si avvalgono di diverse ipotesi. Tralasciando quelle più teologiche, – nulla togliendo alla innegabile valenza spirituale della parola -, vorrei soffermarmi su alcune tesi, per me più convincenti, in cui si parla di un’iniziale sperimentazione sonora, vocale e sillabica, prolungata nel tempo, scaturita presumibilmente dall’urlo e dall’effetto che questo produceva.
Tale sperimentazione, apportò graduali modifiche anatomiche (meccaniche e strutturali), ovvero lo sviluppo dell’apparato fonatorio, con la conseguente creazione di una sorta di pre-lingua caratterizzata da un’emissione più controllata e più sofisticata dei suoni, nonché un’articolazione vocale più conscia e volontaria.
L’Homo Sapiens, sempre più consapevole di essere dotato di un meraviglioso, misterioso strumento chiamato voce, che gli consentiva di avvicinarsi ancor di più ai suoi simili, permettendo l’espressione dei sentimenti provati, facilitando quindi relazioni e rapporti, dette l’avvio alla costruzione del linguaggio umano, nella reciprocità della convenzione del suo uso, inteso anche come legame sociale, senso di appartenenza ad un territorio, ad una comunità.
Ma se l’uso strutturato e condiviso del linguaggio, insieme alla graduale scoperta della scrittura, sancì una profonda differenziazione tra l’Homo Sapiens e il resto del mondo animale, l’emissione dell’urlo, ovvero la dimensione della sofferenza, nel suo richiamo ancestrale, ci riunisce a tutt’oggi sotto lo stesso tetto di una comune origine e di una condivisa dimensione esistenziale.
Certo si può urlare anche di gioia, di soddisfazione, ma urla il bambino che nasce a nuova vita per il dolore causato dalla prima immissione d’aria nei polmoni. Urla chi ritiene di trovarsi in una situazione di pericolo, chi pensa di non ricevere sufficiente attenzione per la propria sopravvivenza (fisica e/o psichica). Urla chi non si sente riconosciuto o ascoltato, chi crede di non essere adeguatamente guardato, considerato, sostenuto.
Nell’urlo si cela dunque un atto disperato di affermazione di sé nella propria integrità, come presenza nell’ esistenza in vita. Nell’urlo, infine, si manifesta la speranza di essere ascoltati ed aiutati per poter sopravvivere/vivere, poiché è anche e soprattutto lo sguardo dell’altro, il suo pensiero rivolto a noi, che ci permette di esistere. Siamo già concepiti nella mente di una donna, prima ancora di annidarci nel suo ventre, prima di diventare carne e sangue , prima di rispondere al nome che lei ci ha dato. Prima di essere corpo, siamo stati pensiero.
In senso biblico, e in quanto suono inteso come rumore, libero cioè dal vincolo del binomio ‘significato/significante’ – ma non per questo scevro di senso -, nell’urlo si ravvisa la potenzialità di una creazione che sovverte il precedente status (di caos, del nulla, della non esistenza), per affermare una presenza consapevole e cosciente, per dire: ‘Io esisto!’, ovvero ‘Guardami!’, un’affermazione potente di sé, – pari al primo urlo del bambino che viene alla luce, svelandosi dal buio e dall’indistinto -, e che necessariamente implica l’esistenza dell’Altro, da cui pur non disconoscendo la dipendenza, avoca a sé il solco della differenziazione, nell’ambito di un costante imprescindibile rapporto dialogico.
Nel Taccuino dell’urlo, (Marco Saya ed.), ma direi nella scrittura della Caporossi nel suo complesso, la parola si dispiega, srotola generosa e fluente, procede concentrica verso gli obiettivi, ricca di curve e volute, spirali, ma anche di situazioni angolari, che lasciano trasparire la ricerca, fino al (proprio) scorticamento, gli ‘indizi’ del dolore, – ma anche del suo amore -, lontana da quell’estetica un po’ esasperante che tende a ridurre i versi a scheletri di loro stessi, fino all’afonia, soffocando appunto l’urlo esistenziale che vuole parola, nella specularità del dialogo (e, con questo, nella costruzione dell’identità possibile), nel riconoscimento con e dell’altro; urlo che ogni poesia conserva, o almeno dovrebbe conservare, nel suo nucleo generante, nel suo effetto di significazione.
Come si evince dal titolo del libro, si procede per annotazioni, appunti, tracce, frammenti contrastanti, tensione, provvisorietà, nel tentativo reiterato di una traduzione-decodificazione di quell’urlo animale primordiale, che permane nei versi e tra le righe, come un filo che lega/slega/rilega, in itinere, affinché, tale materia magmatica, attraverso il setaccio sapiente della scrittura, si faccia rendiconto, cronaca, taccuino, e infine assuma gli equilibri strutturali e compositivi del poema.
Oltre all’Urlo (Howl) di Allen Ginsberg, puntualmente citato in una acuta recensione di Anna Maria Curci pubblicata sul Poetarum Silva, vale la pena aggiungere il famosissimo Urlo del norvegese Edvard Munch – l’onomatopeico Skrik nella lingua originale, realizzato in prima stesura nel 1893 – convalidando la doppia versione, solo in apparenza contrastante, secondo cui sarebbe la figura in primo piano, isolata e serpentina, priva di connotati (come fosse chiunque e nessuno), ad emettere l’urlo, figura che in verità, sembra più investita dall’iniziale onda d’urto di un’esplosione. Nella seconda interpretazione, più accreditata, la figura si copre le orecchie per non sentire l’urlo endemico orrorifico della natura matrigna. Ma, e qui spiego l’assenza di contraddizione tra le due versioni, il personaggio raffigurato, è egli stesso testimone ed emblema della natura, nel suo eterno ciclo, simbolo della trasformazione dell’essere nel divenire, in cui la morte, rappresentata dal suo volto-teschio, ne è parte organica integrante.
Per questo potremmo parlare, sia nel caso di Munch come per la Caporossi, di un grido endemico quanto endogeno, attribuibile cioè all’Ente, (‘ente in quanto ente ’), e a ‘l’essere nel divenire’, ontologicamente, fatalmente e non senza dolore, conflittuale per le forze che si contrappongono, tra vita e morte, Eros e Thanatos, nella trasmutazione della materia stessa, (e quindi dello spirito), ma sempre dialetticamente interagenti, senza alcuna contraddizione fattuale e oltre ogni scuola di pensiero. Oltre il ‘…sogno, quando si esce dall’inganno’, afferma Sonia nel suo proemio, riportandoci alla nuda concretezza dei fatti e alla relazione (mai facile) con la cruda realtà, a cui anche la scelta figurativa della copertina, con la tavola n.5 dei test di Rorschach, sembra ricondurci.
Ma tal proposito, per i temi affrontati, in rapporto alla funzione poetica e artistica dello svelamento e della ri-velazione, per la loro valenza fortemente simbolica, credo sia opportuno non tralasciare, tra le citazioni correlabili, la Pudicizia velata, di Antonio Corradini, realizzata nel 1742, e il Disinganno, eseguita da Francesco Queirolo nel 1754, in quel percorso iniziatico, esoterico e alchemico, tutt’altro che chiesastico, costituito, nella sua unicità organica, dal Museo della Pietatella, a Napoli, meraviglioso e concentrato esempio di tardo barocco.
Quindi già nel titolo dell’opera troviamo la chiave per entrare nel fuoco sacro che l’alimenta, (il ‘luogo del trauma’, come lo definisce l’artista figurativo Ennio Calabria), il nucleo attorno al quale, indefinitamente, ruota la creazione artistica – per catturarne lo spirito guida che aleggia tra le pagine, il ‘gramma’ nella questione mai chiusa tra voce e segno, soprattutto se scritto; e per dare corpo (e voce) al ‘convitato di pietra’, trovando conferma, anche rispetto ai volumi precedenti (per esempio Erotomaculae), di trattare con un’autrice che, partendo da robuste e solidissime basi letterarie classiche, definire ‘sperimentale’, come può accadere tra i tristissimi passatisti della materia, significa liquidare, in modo poco accorto, chi fa della scrittura terreno fertile per l’avanzare di nuove libertà espressive, (e non solo espressive), proprie e altrui, nel rispetto delle differenze, auspicandone anzi la contaminazione in tutta la sua potenzialità culturale.
E in questo periodo di chiusura al buon senso, alla logica, al puro ragionamento, con avvitamenti retrivi e coatti, con pesanti restrizioni imposte ai diritti e alle libertà individuali, l’opera della Caporossi, nell’indiscusso valore artistico della sua ‘testimonianza’ poetica, assume la dimensione di una rilevanza politica importante.
«La posizione secondo cui l’arte non dovrebbe aver niente a che fare con la politica è già una posizione politica», afferma George Orwell, e, in Sonia Caporossi, la scrittura è un percorso verso un atto di ‘libertà cosciente’, – come affermava il compositore belga Henri Pousseur, una scrittura-ponte in cui il lettore, olisticamente inteso, è introdotto in quanto soggetto non passivo e non neutro, (leggere e scrivere sono atti creativi intrinsecamente connessi), destinatario, ma anche ‘attore’ (dal lat. actor -oris, der. di agĕre ‘agire’) – di suggestioni semantiche, portate a volte fino alla rottura del linguaggio. Una scrittura che apre spiragli oltre ogni possibile senso di ‘confine’, fino a quell’aporia che ogni lingua, nella collocazione della propria precipua, soggettività singolare (unica e irripetibile), mostra nella sua limitatezza, e che riguarda, in sostanza, l’impossibilità di dire quanto di dirsi, pienamente e totalmente. (Agàmben).
Non a caso, come Maria Grazia Calandrone puntualmente annota nella sua premessa, il lessico di cui Sonia si avvale, nella sua vigorosa spinta propulsiva, estetica e narrativa, nella fatica epica che ogni poeta, se tale, dovrebbe compiere, oltrepassa la banalità dell’evidente, pescando in una molteplicità di strumenti espressivi (e di lemmi), che hanno origine da diversi campi semantici, tra cui: ‘… scienza, critica d’arte, cartomanzia, musica e, naturalmente, filosofia.’
Il Taccuino dell’urlo è infatti una cornucopia di citazioni e di richiami (<<là dove si puote ciò che si vuole>>,(XXXIX, pag.53), espressione ripetuta da Virgilio nell’Inferno dantesco); di sollecitazioni grafico-visive, di significazioni correlanti a suoni (echi, vibrazioni, risonanze, rimandi speculari), gli ‘incanti sonori’ di cui parla Amelia Rosselli; e sillabe, fonemi, simbologie grafiche.
Con l’opera della Caporossi ci troviamo di fronte ad un testo ‘misto’, per l’ampio uso e per la libera gamma dei toni espressivi, ai fini di rappresentare in simultanea, più significati su piani diversi percettivi, paralleli e convergenti, nell’uso quasi ideogrammatico della punteggiatura, nello slittamento jazzistico del ritmo, (ricordiamo che Sonia è anche musicista), nello scompenso che include lo smottamento controllato delle righe. E ancora le assonanze e le dissonanze (es.: prestarsi/ apprestarsi/ arrestarsi, I, pag.15); l’entimema e l’antimimo, XXVIII, pag.52); l’atto di abiura in evidenza, mediante la (non) cancellazione del testo, cioè la negazione che afferma, rendendo ancora più visibile quanto sottostante permane : << mi avevi detto che saremmo stati belli, sfrondando tutte le necessità […]>> (XXX, pag.55).
E poi il corsivo e il grassetto, il ritmo del respiro, le apnee e le dispnee, il sollevamento del diaframma, il fiato e, ovviamente, l’afflato. La musica insomma, o ancor meglio, il senso raffinato di una musicalità che non esclude, proprio perché non ideologica, rime più o meno celate, mai scontate (per fortuna!), sonorità ancora più apprezzabili nella lettura ad alta voce che sempre la poesia, degna di questa definizione, merita.
E ancora i silenzi, il non detto, il bianco complementare e distanziatore, atto a lumeggiare per contrasto, esaltando lo scuro del testo scritto (l’enunciato, la parola), a testimonianza dell’inespresso rimasto sotto la soglia (della coscienza, della parola), invisibile, ma non per questo inesistente – “…il bianco ci colpisce come un grande silenzio che sembra assoluto”, afferma Kandinsky, e “la trama nascosta è più forte di quella manifesta”, dice Eraclito.
In realtà il silenzio, nel flusso emerso e sotterraneo della scrittura, è il grande tessitore di trame e di orditi inusitati, (le sollecitazioni manifeste di cui sopra), scaturigine di scoperte e di rivelazioni, solo nel dialogo profondo con ‘altro’, con il dáimōn che ci alberga, spesso dimenticato, ma che costituisce la sola via possibile per la realizzazione di sé.
I testi di Sonia Caporossi sono riconducibili, a mio avviso, al concetto di ‘’opera aperta” non solo nel senso definito da Umberto Eco, ma anche, direi, nell’assunto plastico-michelangiolesco prodromo al Barocco, nella direzione, in qualche misura dell’Horror Vacui, (forse più evidente in altre opere della Caporossi), in cui il silenzio non cala mai assoluto, muto, non è ortostatico, ma vivo, sanguigno, trasversale, obliquo e permeante, brulicante e ri-generante, perché in stretta relazione dialogica tra l’Io (narrante in terza persona) e l’Es, (Lui, Esso, secondo Freud, voce intrapsichica che parla della parte umana più legata alla natura), tra pulsione e istinto animale volto, pur nella distruzione, alla sopravvivenza, in connessione con il molto di quella materia oscura, che ci avvolge e ci pervade, in una continua stimolazione sensoriale di fruizione, finalizzata all’emersione del celato, senza svelarlo mai del tutto, come da funzione precipua della poesia, che non ‘svela’, ma ‘ri-vela’.
Il silenzio inonda, per chi sente, per chi sa udire, e la poesia, nella sua genesi, è un urlo muto, ascoltato dall’orecchio attento del poeta, che lo tra-scrive. Nel fiato-afflato, gonfio sospeso di una domanda, a cui Nessuno, (ecco dunque Odisseo , non a caso Hypnerotomachia Ulixis è il titolo di un romanzo recente di Sonia), sembra rispondere. Ma Nessuno ascolta, invece – “le labbra si chiudono”, poiché la domanda è posta all’interno e lì, solo lì, nel luogo erratico della propria esistenza, tra i marosi inquieti della più intima profondità, nella singolarità interiore, nella lava rovente, carsica del proprio vulcano, lì e solo lì, si possono trovare risposte, perché quello è il luogo del Dialogo, (dal greco: attraverso il logos), dove avviene l’incontro per eccellenza, con l’Altro, il ‘diverso’, il ‘deviante’, ‘ il dissidente’, che ognuno si porta, o dovrebbe portarsi, dentro, poiché parole e silenzio, sono cooriginari e coogeneranti, nell’alchemica trasformazione e nell’emersione del vero ‘Sé’. È, dovrebbe essere, il lavoro di una vita intera, senza nascondimenti, sempre in itinere.
E nel dolore di questo ‘dialogo’, nel confronto, dice Sonia, ci si deve immergere, bagnare e bruciare, portare indosso la scrittura rovente delle ferite:
<< si affida a una voce /ode sé stesso nel grembo infecondo degli orecchi / come sentirsi ridere a comando / a piacimento / nel bacchettarsi ieratico dell’imprinting feroce dell’urlo / del richiamo a chi tace /quando l’ascolto si reitera intonso /nel fingere di prestarsi / di apprestarsi / di arrestarsi / alla domanda gonfia di fiato / quando le labbra si chiudono / nel richiamo a chi tace / e nessuno risponde / a ciò che ha domandato.>>
All’interno avviene dunque il conflitto tra i due principi, il maschile e il femminile, (lo Yin e lo Yang), è l’implosione, l’onda d’urto, l’urlo, di chi preme, per essere visto e ascoltato; ma c’è l’altra/o che in qualche modo esiste e resiste (‘… torno a te nel me che cerchi…’), nell’impossibilità di una rimozione totale.
Ma chi preme, chi urla, vuole essere ri-conosciuto, legittimato. Vuole essere ri-chiamato ad esistere su quel terreno di scontro che è il corpo, (campo di battaglia di ogni guerra, anche d’amore, interiore ed esteriore), sul quale qualcuna/o, qualcosa, (pezzi, organi, interiora), rimarrà esanime; e sarà dolore, cicatrice a futura memoria, poiché nella scissione, nell’inevitabile lutto del percorso che porta ad ‘Altro’, solo la perdita è chiara, certa, in un viaggio che non prevede reversibilità (XVIII, pag. 39):
<< la differenza intatta tra l’annichilimento / e la pienezza sta :: nella consapevolezza / acerba esitante { lui se ne accorge , dalla finestra, / urlando } che andando :: sempre :: avanti / a volte non si torna più indietro.
La poesia è tale solo se sa indagare oltre l’evidenza dell’ovvio, afferma la Gualtieri, e la poesia di Sonia, salta a piè pari la banalità dell’evidente assunto come pensiero unico, va oltre la cortina fumogena, è trasposizione da un piano percettivo all’altro, transazione da una lingua ad un’altra. È traslazione da un corpo ad un altro, oltre la frontiera.
La poesia di Sonia è trasmigrazione ed esilio, perdita e agnizione nella terra di Nessuno, in cui trovarsi o tornare a perdersi, ma qui potemmo essere nell’ambito della biografia di ogni poeta, poiché: ‘(lui)… tanto lo sa che ritornerà / il desiderio del suo {fuoco greco} /perché l’amore non serve poi a tanto :: // per scrivere necessita una rabbiosa solitudine /e un istinto meno che umano / e stanco di ripensarsi interi / dopo la distruzione.‘ (ω, pag.61)
La Caporossi, infine, con la sua opera, si sottrae scientemente ad ogni esercizio di ‘stile’ (tranne il proprio), perseguendo con onestà cristallina, coerentemente e stoicamente, le sue istanze interiori. E se per i puristi ammalati di ‘etichettismo’, mossi più dalla smania di giudizio che da autentica comprensione, inabili al moto empatico ‘dell’andare verso‘,- se per costoro, tale prezioso lavorìo sconfini nella prosa, ben venga! perché il giudizio e l’incapacità di comprensione, non è affare che può tangere l’indiscusso valore della produzione artistica della Caporossi, né tanto meno le idee e la ‘visione del mondo’ (Weltanschauung), di chi redige questa nota, in quanto convinti che il perbenismo, l’ipocrisia, al pari del conformismo (l’uomo medio, l’uomo qualunque di pasoliniana memoria) sia l’unico reale nemico, nella poesia quanto nella vita :
<<…Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste. >> (P.P.Pasolini ‘La ricotta’, 1963).
α
<< ho visto l’abisso in un altro
la zona in cui non vuoi stare
si infrange sul muro bagnato
del mare
per tutte le tue insicurezze
insicure
del limite scabro del luogo
che per coercizione ti ostini ad abitare
ho visto il riflesso di un altro
nel sole
nell’ombra di un fiore reciso
che pare
dismesso dall’onda del tempo
che inutile scorre invissuto
e attrae
lo spirito nell’indolenza
pigrizia del dire e del fare
ho visto l’influsso di un altro
sul cuore
che imbelle s’offende al contatto
del dare
respinto da echi ormai spenti
che vacui rinviano parole
d’amore
inascoltate al mittente
per quanto il ritorno alla gioia
si mostri nell’eventuale
ho visto l’ossesso nell’altro
nel dimenticare
quand’anche, sebbene, ancorché
ricordi di lei solo il male
nell’impressione coatta
dell’analizzare
ho visto l’abisso di un altro
quel luogo in cui vuoi ancora stare
perché prima o poi, quel poco o quel tanto
almeno, circuìto dal bene
ripenserai il fallimento
e tutte le anemiche colpe
che puoi enumerare
son sempre dell’ego di un altro
nell’ipocrisia
di questo industriarsi a non fare.>>
***
φ
mandami un cenno di mancata intesa
eludimi nel sonno
di una ragione che non trova il senso
rapprendimi, comprendimi, prendimi
ama la scorza di arancia amara che mi avvolge
tocca la mia ovale, imperfetta nudità
sottendimi, lasciami andare, virami
col timone nel timore di paure troppo vuote
rilassami le code del collo di tensioni
che non sanno duplicare dna d’alienazione
risuonami il colore
di un fonema troppo asciutto
ripetimi le promesse da infrangere
solo perché sei fragile come il vetro
annebbiami le certezze, tu che sai di non sapere
abbi pietà e potenza
che c’è tempo per volere
c’è sempre tempo per dire ancora
quando il futuro è malnato e soffuso
come la luce che copre le disgrazie
come l’assenzio che imbeve il pericardio
e poi alla guida non si può mai bere
se non andando incontro a questo strazio
allacciami le scarpe
per una scalza ingenuità
ricordati dei vuoti di memoria
che lamentavi durane l’impressum
ritorna da dove sei andata
e vieni da dove ti hanno creata
non c’è scampo per l’offesa
e non c’è scabbia sulla mia pelle
perciò toccami, amami, invogliami
incensami intonso e impuro
voglio solo percepire il magro orpello del tuo dolore
voglio solo irretire lo scoglio scrostato
del mio assurdo desiderio
non c’è luce
non c’è odore
non c’è amore che possa stare
voglio solo addormentare questa voglia di volere
voglio solo
sempre e solo
rigirarmi dall’altra parte
e poi, stanco di stancarmi
dimenticare. >>
***
XXII
<<non torneresti più da me>>
il fuoco sacro è dilavato
getta verbi nel dirupo dei suoi sogni
per dormire di meno
getta gomene all’attracco dei desideri
per volere di meno
<<sei in pace adesso?>>
dorme, la fiamma s’è spenta
nell’amplesso dei suoi sogni
all’attacco dei suo desideri
<<ti voglio di meno>>.
Stefania Di Lino, agosto 2020