C’E’ UNA RANA ATTACCATA AD UN LAMPIONE

 

Sono troppo ubriaco per descrivere la sensazione che ho in questo momento, ci sono alberi, muschio, qualcosa di rotondo.

Ho finito di scrivere ieri notte le mie memorie, tu te ne sei andata coi capelli neri qualche vestito dietro e soprattutto il solito broncio da puttana impaziente stampato sulla faccia.

Hai aspettato il pullman per quattro ore, io ti ho raggiunta, non che me ne fregasse qualcosa della tua incolumità, alla fine vederti morta sarebbe soddisfacente, rilassante.

Il fatto è che mi hai chiamato cinquecentosettantasette volte, e io ho sempre risposto con voce sommessa, o forse ferma, guardando cinque ragnatele frastagliarsi le une contro le altre, che c’è da dire, cristo santo, sono troppo ubriaco, no?

Comunque ci mettiamo sotto casa, io penso soltanto alla coppa di cristallo senza frutta e con un verme verde e piccolo che striscia sopra le mie dita,

io ti chiedo:

“Allora, che cazzo c’è?”

tu mi spingi, sgrani gli occhi in mezzo alla folla, che sgrana gli occhi anche lei.

“Che cazzo c’è? C’è che mi sono rotta i coglioni di culi e tette e di tutto il resto!”

“Cristo santo, ma non posso farne a meno”

“Appunto, me ne vado, senti, me ne vado.”

“Allora perché cazzo mi hai chiamato?”

“Per dirti che sei una testa di cazzo prepotente e depravata!”

“Ok, va bene va bene, e poi che altro c’è? Dio santissimo!”

“Questo. Dopo un anno, non te ne frega veramente un cazzo allora, coglione! Ti sembra giusto tradirmi a quel modo, farmi passare per un’idiota del cazzo?!”

“Per cosa? Tradirti, gesù, me ne vado.”

Tu continui a gridare qualcosa sempre con gli occhi sgranati tra la folla distratta, aspetta pure il pullman, l’alcol gira dentro al mio stomaco come detrito o sentiero, io faccio passi piccoli e sconnessi con pantaloni marroni e un filo di saliva fino al petto.

Le scale sembrano centomila, mi piacciono i grossi numeri, è questo che penso mentre mi sdraio sopra al letto.

Cristo santo, scrivo, no? Ho bisogno di tette e culi per farlo, no? Chi è depravato?

Comunque le mattonelle mi sembrano più sbiadite del solito, come se una marcia di blatte ci fosse passata sopra lubrificando il mondo. Tutto gira e mi sento solo, ho bisogno del mio smegma sopra culi vari, capisci cazzo? Ho bisogno di ogni cosa, di prendere palme, vestiti, case triangolari, e poggiarle sopra al mio corpo.

Perché sono solo,

soffro di una solitudine lampeggiante, fastidiosa, che punta dritto fin dentro la testa.

Ho bisogno di intermettere ogni cosa, sono solo, e il mio fegato un putrido nascondiglio per non-amore.

Te ne sei andata, cazzo, non riesco a capire da quanto tempo e perché proprio ieri notte avevo progettato il mio suicidio e adesso vorrei ridere a squarciagola.

Non amo, sono solo.

E’ per questo che hai aspettato quattro, o forse cento ore, il pullman? E’ per questo che me ne sto qui col vomito che sembra una liberazione in prossimità e la testa pesante come un camion azzurro?

E’ per questo?

Cristo, domande, domande.

Tu o chiunque altro, tu E chiunque altro ve ne siete andati,

non mi resta niente, credimi.

Non che fosse necessario esserci, ma non mi resta niente, perché non ti cerco e non ti voglio.

Cristo santo, ero con le due tipe, tra culi e tette, solo stamattina. E mi soffiavano nelle orecchie e avrei finito l’epilogo delle mie memorie, firmato con una scrittura elegante ed estemporanea.

Invece sono solo in questa casa zuppa di fumo e televisioni spente, capisci che culi e tette non sono paragonabili alla mia sofferenza?

Ogni notte poggio la testa tra rovi e macerie e sprofondo in una solitudine sonnambula che mi fa urlare nel pieno dell’oscurità, che mi fa rattristire l’ugola, che sveglia i cani e le foreste.

E adesso tu te ne starai andando, lontana e decisa col tuo broncio da puttana e l’aria di chi ha capito tutto, e sta pur certa che mi suiciderò, impiccherò ogni parte del mio corpo, lascerò la mente morire, rattrappire, sta pur certa che resterò fino a morire, fino a squagliarmi su questo letto.

Guardando il soffitto e le mattonelle sbiadite, senza culi e senza tetta, da un altro angolo, senza mai amarti, guardando finestra e cielo, così come palazzi e niente, col vomito in gola che sale e scende.

Ucciderò ogni particella del mio respiro, e così tu non avrai saputo vedere, credimi, non avrai saputo vedere niente, mentre scendo di nuovo, in mutande, facendo tre scalini a passo, mentre vomito di fronte al portone.

Non avrai saputo vedere che ho alzato la testa e il lampione lì fermo ad aspettare saluti e polmoni corrosi e io sorridendo, sapendo che Hallelujah, cristo santo, sta per finire.

Sono solo, di una solitudine notturna e rappresa,

e adesso sta per finire, mentre scorgo qualcosa di strano, con le zampe aperte e gli occhi assenti, e siamo io e te, come quella rana attaccata al lampione.

Mi avvicino per afferrarla, ma siamo proprio io e te, mentre mi accorgo che è soltanto un pezzo di carta incollato male, mentre mi accorgo di non essere in nessun lago e che non c’è proprio nessuna via d’uscita.

Avresti visto carta appiccicata, avresti visto male anche dalla mia angolazione.

Siamo io e te, punti di vista diversi, attorcigliati al niente.

Sono solo, e non siamo mai io e te, perché sono troppo ubriaco per descrivere la sensazione che ho in questo momento, ci sono alberi, muschio, qualcosa di rotondo, e c’è una rana attaccata ad un lampione, ma sta pur certa, sta pur certa, che tu non l’avresti mai vista.

 

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