QUATTRO PAROLE

Il lento irrimediabile concludersi dell’orgasmo lasciò Xeni come su un ottovolante in fondo alla discesa, con i visceri stupefatti di tornare al loro posto e le braccia molli sparse intorno al viso adagiato su un letto di lenzuola stropicciate come carta crespa e contorno di capelli neri.
“Anche stavolta niente?” le alitò alla nuca il fiato ansimante di Asterios.
“Mi spiace” mentì Xeni “Non te ne devi fare un cruccio. Tu sei bravissimo, non è questo”.
L’uomo si rovesciò sulla schiena riempiendo la propria metà del materasso di una nudità eccessiva e giallastra, qua e là tratteggiata di peli neri e sottili.
“Bra-vis-si-mo! -sillabò- Esattamente”.
“Magari prima o poi succederà” fece lei parlando forte a bella posta così da infrangere l’intimità del loro sottovoce.
Si era messa a sedere sul bordo del letto con il peso del corpo su quel calore che non accennava a finire e aveva preso a vestirsi in fretta, sforzandosi di compiere movimenti bruschi nonostante tutto dentro le chiedesse quiete.
“Scappo. Non posso far tardi” disse alla fine voltandosi sulla soglia e guardando con intenzione tra le gambe di lui.
“E’ che non sono mai sazio di te.”
“Questo lo vedo”
Asterios sorrise per metà, con l’angolo della bocca, e si coprì l’erezione con un cuscino, fingendo di inseguire chissà che pensieri. Le tempie gli pulsavano per l’effetto del sildenafil. Se Xeni fosse venuta a conoscenza di quell’assunzione si sarebbe inquietata certamente, con la pressione alta che si trovava. Ora per farsi passare il mal di testa gli sarebbe toccato buttar giù un analgesico, già lo sapeva.
I tacchi di lei iniziarono a scandire il corridoio.
“Xeni?”
La donna tornò sui propri passi.
“Dimmi, ma fa presto”
“Niente.”
“Ora cerca di combinar qualcosa. Ci vediamo stasera. ”.
“Aspetta. Non ti è mai venuto in mente di fingere con me? Giusto per darmi soddisfazione. Tante donne lo fanno.”
“Tu vorresti che lo facessi?”
“No. Non so.”
“Cioè mi stai dicendo che sotto sotto, pur di sentirti un vero maschio, pur di vedermi travolta dall’estasi sotto i colpi della tua irresistibile virilità, preferiresti che fingessi?”
“Ma no! Forse no! Che ne so! Magari giusto per provare che effetto fa…”
“D’accordo, se questo può farti star meglio, stasera fingerò, d’accordo? I vicini dovranno chiamare la polizia, va bene così? Puoi pure smettere di tenere in bilico quel cuscino e risparmiare le forze per lo spettacolo in programmazione.”
“D’accordo, d’accordo, era solo uno scherzo, tutto qui. E’ che darei qualsiasi cosa per vederti felice”
“Se è per questo sai benissimo quel che devi fare”
“Non è così facile. E poi, anche fosse, vuoi dirmi che a quel punto tu sapresti sbloccarti? Così? Come dopo aver schiacciato un pulsante?”
“Sì, è così. E lo sai. Ora scusa ma vado. Cerca di non passare tutta la mattina a letto. Ti chiamo quando salgo in macchina così mi accendi lo scaldabagno”.
La sentì chiudere la porta e poi percorrere il pianerottolo fino all’ascensore. Immaginò le sue gambe in attesa, le sue caviglie e il collo del piede scomparire nelle scarpe scure e provò un brivido in tutto il corpo. Il cuscino si mosse impercettibilmente.
Non era mai stata completamente sua. Era come una porta di vetro che si lascia attraversare dallo sguardo senza farsi aprire o una porta di legno che si lascia aprire, invece, ma ne nasconde di dietro un’altra, e poi un’altra ancora, all’infinito. E l’unica chiave in grado di lasciarlo passare dall’altra parte, anche se credeva di saper bene quale fosse, temeva non sarebbe stato mai capace di trovarla.
Gettò a terra il cuscino e si alzò con la sua inutile erezione e il mal di testa che gliela ricordava. Si sedette senza vestirsi alla scrivania ingombra di fogli sverginati da quattro, cinque parole e poi gettati di lato o stracciati o accartocciati. Non poteva essere così difficile. La soluzione doveva esser lì da qualche parte, in quella testa dolente, sotto quei capelli diventati bianchi a furia di cercarla.
Riprese a scrivere con lentezza, fermandosi un poco dopo ogni parola. Per un attimo si scoprì a sperare che quello sarebbe stato il giorno buono. Xeni sarebbe tornata a casa, bella come solo la nostalgia che si lasciava alle spalle sapeva essere, lui le avrebbe sorriso e poi le avrebbe mostrato il suo frutto appena colto. Nel succo di quel frutto ci sarebbe stato tutto quello che ancora gli mancava per essere all’altezza di quella lunga attesa, di lei, dell’esistenza intera. Solo allora Xeni lo avrebbe guardato e avrebbe finalmente visto l’uomo che un giorno, pazza, aveva voluto credere gli dormisse dentro e che attendeva paziente da così tanto tempo.
“Lo sapevo Asterios” gli avrebbe detto e forse avrebbe pianto.
Poi avrebbero fatto l’amore e lui l’avrebbe sentita come non mai, incendiarglisi fra le mani.
Mancava solo di trovarli. Prima di trovarli e poi di scriverli. Tutto qui. E il tempo vero sarebbe incominciato. Da quei versi non ancora nati, che Xeni ancora pensava gli covassero dentro e che attendeva fiduciosa da lui.
Una poesia.
Una sciocchezza, quattro parole.
Che ci voleva.
Bastava solo trovarla e poi partorirla. Spingerla fuori da sé, se esisteva davvero, e deporla tra le sue braccia nude. Che con la sua presenza lo mostrasse a lei come sempre avrebbe dovuto essere. Pronto per la vita che non avevano e in ogni minuto, da sempre, avrebbero dovuto avere.

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