La farsa delle nostre credenze delle nostre credenziali
(Amelia Rosselli)
Io non so niente della buona poesia e non so più nulla dei poeti, perché non riesco più a starci dietro, perché per giudicare bisognerebbe perlomeno conoscere. Ma in questa espansione infinita della necessità di parola emergono solo atteggiamenti che si possono in maniera raffazzonata associare a un testo.
Ho sempre pensato che anche se non si era poeti una cazzata scritta bene poteva anche capitare, e allora chiedimi come riconosco un poeta, perché della poesia oggi non è rimasto quasi niente.
Il problema del riconoscimento è troppo connesso alla forte pressione di tutto ciò che vuole farsi leggere, al punto che la poesia oggi è solo avvenimento senza conseguenze. Credo ci sia una fortissima responsabilità culturale in quello che ha per decenni permesso il fatto che la spinta dell’antipoetico facesse credere che tutto avrebbe potuto essere poesia. In questa spinta alla negazione, in cui è stato trascinato tutto il mondo dell’arte, si è preteso di trasformare tutto in estasi estetica, incrementando una conseguenza di eccesso di vanità. Come tutte le altre cose, il gusto è diventato un’escrescenza, effetto di un proliferare di generi che caratterizzavano l’impoetico e allontanavano il lettore che smarriva per strada gli strumenti di giudizio, se di giudizio è sensato parlare, per orientarsi.
La pancia è rimasta come unico arbitro per stabilire delle affinità: questa è la poesia del maalox, quella costretta a fidarsi del disturbo. La poesia istintiva che si riconosce per educazione sentimentale mi mette tristezza, questa nostalgia empatica che sembra diventato l’unico metro di lettura mi avvilisce.
Come riconosco una buona poesia vuol dire sapere come si riconosce un incontro; e anche se questo vale per tutta la letteratura, il “vieni qui” a cui la poesia ci chiama meriterebbe di essere ascoltato sinesteticamente. Sinestesia come contaminazione dei sensi, unico strumento per una percezione dell’accadimento poesia, perché questo occorre sempre tener presente : una buona poesia è un accadimento, un incedere del presente.
La poesia dove non si scorge un Dio che nasce mi interessa poco. Nella mia concezione di poesia esiste sempre un volto che irrompe verso l’io; in questa irruenza scorgo anche epidermicamente quella che per me potrebbe diventare buona poesia, perché un testo non è mai buono subito,si forma nel riconoscimento. Basterebbe forse cercare di azzerare la distanza tra il dispositivo e la domanda, invece, spesso, la poesia contemporanea vorrebbe ridurre lo spazio tra il volto e il nome.
Una buona poesia è uno spiazzamento comunicativo, non una forzata risemantizzazione. Credo che sotto certi aspetti la poesia vada istigata a rivelarsi, a darsi nei suoi sapori. E forse è arrivato il tempo di smettere con questa lingua da centrifuga, per tornare al punto zero dell’immagine, a parlare di pelle e di odore di scrittura.
***
Le tue cose le butterò via tutte
Sgombrerò gli armadi, la biancheria,
le dieci lire
perché non avrà mai senso il tuo morire
Resterà l’ingombro stabile, l’impronta del mobile
la polvere, lo strazio
Il mio pianto che si sazia.
***
Quasi fossero loro dove io non ero
la rabbia dei vinti perduta in un pensiero
ti disfo e ti conservo con più cura
ogni piazza in cui ti vedo provo ancora
solo i vivi vanno verso casa
i vili restano, aspettano la resa
***
Nessuno è te
La pagina mancante
Il ci vediamo domani
Senza i capelli lisci che è meglio così
Poi c’è sempre un mi dispiace che aspetta l’autobus con noi.
se potessi vederti in ciò che vedo
e quando allontani la bocca tornare al lavoro
su parole di merda confuse con l’oro
***
La vena che riporta quello che non so di te
Il risucchio che contrae il nostro sangue scuro
La pelle che cade, tu ti ustioni da lebbroso
In fondo ci imitiamo
Anche quando leggi e mi lasci solo
Il silenzio ad asciugare
Il braccio, il laccio da slacciare.
***
Non c’è nessun padre se non si è camminato una volta per mano nel profumo del pane e anche adesso che tu aspetti e io preparo il tempo dei saluti i miei morti son più pesanti dei vivi sono parole contro chili.
Alessandro Assiri nasce a Bologna nel 1962 vive tra Trento Bologna e Parigi. Si occupa a vario titolo di letteratura e progetti culturali per importanti editori italiani e francesi. Collabora con riviste letterarie cartacee e telematiche. Ha all’attivo numerose pubblicazioni di poesia e critica