Disegnare il silenzio

«Oggi compi diciassette anni. Ed oggi vorrei che tu mi disegnassi il silenzio.» mi disse così mio padre, prima di uscire di casa. Ed io, che dopo la morte di mia madre, dipendevo totalmente dalla sua educazione, accettai quel compito come si trattasse di una sua nuova sfida. Erano cinque anni che vivevamo soli. Cinque anni che abitavamo in quella baita ai piedi del Monte Cristallo sulle Dolomiti. Cinque anni che non andavo a scuola, ed era lui mio padre a farmi lezioni di ogni cosa. Cinque anni che il cancro s’era portato via mia madre. Così presi il mio tè, ed iniziai a pensare a quella sua strana richiesta. Pensai che un foglio bianco, già di per sé è qualcosa di abbastanza silenzioso. Così lo misi sul tavolo. E più lo guardavo, più mi convincevo che non poteva essere questa la soluzione. Perché sentivo provenire dal foglio quasi un desiderio impulsivo di essere in qualche modo utilizzato, con un segno, un appunto, qualcosa che gli restituisse dignità di esistere, di diventare altro ed essere conservato. E la mente mi andò al deserto. Anche lì vige il silenzio. Anzi impera così tanto da chiedere aiuto. Fu così che compresi che vuoto e silenzio non sono sinonimi. Ed il foglio bianco era più vuoto che silenzioso. D’istinto mi venne da accartocciarlo, ma mi fermai. Lì accanto c’era il portamatite e ne presi una. Giusto per empirismo, feci un punto, proprio al centro. Lo rimarcai perché si vedesse bene. E mi spostai un po’ indietro con la sedia per capire meglio l’effetto di quel segno. La mia prima idea fu che un singolo punto era costretto al silenzio perché non aveva nessuno con cui parlare. E per un attimo mi sembrò funzionare. Se non che ricordai il quinto Postulato di Euclide, ovvero che da un punto passano infinite rette. E male si conciliava il silenzio con tutto quel traffico. Fu allora che accartocciai il foglio, ed uscii a prendere una boccata d’aria. Non sapevo quando sarebbe ritornato mio padre, a volte mancava per due ore, altre per due giorni. D’altronde era pur stimolante questa cosa dei compiti, ma era pur sempre il mio compleanno. E’ mentre mi dondolavo sulla sedia in veranda, pensavo che era bello essere nati di maggio. Col tempo a favore, e le rose nel pieno del loro splendore. Rose che curava mia madre, quando ancora abitavamo in città, nella civiltà, in quella casa col piccolo giardino sul retro, dove in questo giorno si allestiva il piccolo banchetto per amici e compagni di scuola. Sembravano secoli, quegli anni in montagna avevano distorto la percezione del tempo. Secoli che non assaggiavo la focaccia fatta da mia madre, secoli senza un suo abbraccio, una sua carezza, secoli che non sentivo la sua voce, secoli che nessuno la notte passava a rimboccarmi le coperte. Ero lì fuori, solo, e tutti questi pensieri mi attraversarono la mente. Sentii forte un magone stringermi la gola, e mi dissi che no, non era il caso di farsi prendere da questa tristezza. Così tentai di deglutire, per rimandare indietro, per liberarmi, e nonostante sapevo che nessuno mi stesse guardando, mi vergognai e feci per rientrare in casa. E come chi sa che per uscire dalla tortura serve per forza altro male, mi diressi verso il camino dove c’era l’unica foto di madre. Così quel dolore passò dagli occhi gonfi e pronti a lacrimare e ormai era tardi, anche per tirarsi indietro. Riappoggiai la foto di mia madre sull’asse del camino per non farla cadere, feci un passo indietro, e la prima lacrima mi rigò il viso, facendo un interminabile volo verso il pavimento…La seguii con gli occhi, mentre bagnava il cotto. Così d’istinto ebbi una piccola illuminazione e mi spostai sul tavolo dove studiavo, e mentre la seconda lacrima si stava staccando dal viso mi feci pronto a raccoglierla con un foglio bianco in mano. Ricordo ancora il rumore tonfo sul foglio, che si inumidì nel centro esatto. Appoggiai il foglio e con la matita ripassai il contorno della singolare forma che si era creata. Questo mi calmò molto. Ricalcare quel perimetro mi restituì fiato, così che dopo un paio di minuti, guardando il foglio pensai con fermezza: « Ecco cos’è il silenzio, è il dolore che provo per te, madre».

 

Foto di copertina a cura di Chiara Cittadino

Loading

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.