DOVE ANDREMO A FINIRE.

Il dirigente della divisione 7 della Direzione generale del trasporto pubblico locale del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Ing. Massimo Carvelli, si sedette alla sua scrivania fresco di barba e di cappuccio con cornetto.
La giornata di Maggio che splendeva nel cielo di Roma era radiosa, la notte era stata ottima e nessun intoppo lavorativo né d’altra natura si intravedeva all’orizzonte. L’ingegnere si rammaricò di dover passare al lavoro una giornata così ma si consolò subito, senza troppa fatica, pensando che, ridendo e scherzando, s’era già a giovedì.
Con un sospirone attaccò la pila della posta che il fattorino aveva depositato sulla scrivania. Due erano i possibili esiti dei fogli a cui dava una rapida occhiata dopo aver aperto le buste con il dito mignolo: o volavano con mirabile precisione nel capiente cestino alla sua destra o finivano piegate in un cassetto alla sua sinistra. L’operazione di spoglio proseguiva da qualche minuto e si avviava alla sua felice conclusione, quando l’ingegnere ruppe il ritmo prolungando inopinatamente la lettura di una delle ultime lettere.
La sua espressione virò in pochi istanti dal pacioso all’attento, poi si fece seria, allarmata e infine decisamente spaventata.
L’uomo si alzò di scatto, prese la valigetta e uscì dall’ufficio lasciando la porta aperta, percorse il corridoio, aspettò l’ascensore B con una sorta di fremente impazienza, raggiunse l’uscita, non salutò l’usciere, cosa mai avvenuta in ventiquattro anni, salì su un taxi e chiese di essere portato all’aeroporto.
Il vice capo ufficio della divisione 7 in quello stesso momento stava domandandosi per quale ragione Carvelli non fosse ancora in stanza a quell’ora. Guardò con disapprovazione la porta aperta, bussò con la nocca mentre entrava chiamando “Massimo!”, notò la posta quasi totalmente smistata e infine il foglio lasciato aperto sulla scrivania. Si guardò intorno, si avvicinò furtivo come un coguaro, prese la lettera e la sbirciò mentre gettava continue occhiate in corridoio. Il suo viso impallidì, gli occhi si sgranarono. Lasciò cadere il foglio per terra, corse nel suo ufficio, prese la borsa e senza nemmeno mettersi la giacca raggiunse il portone d’entrata. Sfrecciò davanti all’usciere senza salutarlo, fatto mai successo in oltre vent’anni, salì su un taxi e comandò all’autista di portarlo alla stazione Termini.
Certo che l’andazzo in quell’ufficio stava diventando veramente lassista, pensò la segretaria dell’ingegnere. Le nove e mezza e dei dirigenti ancora nessuna traccia. Poi uno si lamenta della fama dei ministeriali. Ecco qui, del vice capo nemmeno l’ombra, l’ingegnere è uccel di bosco e qua non lavora nessuno. Qui addirittura abbiamo la porta aperta, fogli per terra, roba da matti. La signorina Colombano si piegò per raccogliere il foglio chinandosi graziosamente sui tacchi. Bastò un’involontaria occhiata al contenuto della lettera mentre la riponeva sulla scrivania. Il suo voltò si deformò in una maschera di paura e sofferenza. “Devo andare” disse ad alta voce e poi ancora ticchettando con i tacchi verso la propria postazione a prendere il casco e le chiavi del motorino, “Devo andare, devo andare”.
Scomparve nel vialone a tutta velocità. “Senza neanche salutarmi” raccontò nei giorni seguenti l’usciere “E pensare che era sempre stata così educata!”.
Nel frattempo in tutto il piano che ospitava la Divisione 7 si stava letteralmente scatenando l’inferno. Sergi e Solmano avevano dato il via alle danze. Quando avevano visto la Colombano passare di corsa come una posseduta, non sembrando loro nemmeno vero di poter rimandare l’inizio del lavoro, avevano ripercorso i suoi passi, erano arrivati nell’ufficio di Carvelli, avevano letto la lettera e si erano gettati urlando per le scale. Uno ad uno tutti gli impiegati avevano fatto la stessa cosa. Stupore, entrata nell’ufficio, occhiata alla lettera e fuga precipitosa. C’era chi si catapultava lungo le scale per non aspettare l’ascensore, chi spintonava per passare davanti agli altri e persino chi usava le scale antincendio a costo di far suonare l’allarme.
In breve l’intero piano restò deserto.
Dalle finestre lasciate aperte il ponentino di Roma giocò tutto il giorno con i fogli dalle scrivanie, spargendoli ovunque, come coriandoli. I telefoni squillarono senza sosta e nessuno rispose ma questo non cambiò di una virgola gli equilibri nazionali. Poi, alle cinque, anche i telefoni cessarono di farsi sentire.
Stava tramontando il sole di un bel tramonto rosso, quando gli addetti alle pulizie arrivarono in ascensore spingendo il loro carrello. Vedendo quel pandemonio scossero il capo sconsolati. Lì c’era da perderci la serata, altro che.
Cominciarono come sempre dall’ufficio del capo. Raccolsero le cartacce, chiusero i cassetti e, mentre lei dava la solita spolverata alla scrivania e al vetro del computer, lui prese a passare lo straccio per terra con gesti vagamente ritmati. Soffocato e lontanissimo un ritmo di merengue proveniva dalle cuffiette che gli turavano alle orecchie.
Girando intorno alla scrivania l’omino si accorse dell’ennesimo foglio abbandonato per terra e si chinò a raccoglierlo.
Un espressione di sgomento si dipinse sul suo volto che guardava la lettera.
“Luis, por qué estas leyendo aquella carta si no entiendes el italiano?”
“Vàmos, vàmos Marìa, ràpido! Tenemos que ir!”
I due abbandonarono carrello e scope così com’erano e si lanciarono correndo verso l’uscita tenendosi per mano.
Passarono come ombre davanti all’usciere che stava smontando senza nemmeno salutarlo, accesero il furgoncino e partirono sgommando.
“Questo è troppo” borbottò l’usciere parlando da solo “veramente troppo. Non so questo paese dove andrà a finire”.

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