Prodigo figlio (di Cateno Tempio)

giullare

 

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In questi luoghi che non so se amare
voglio lasciarci due penne,
tre vite malspese e fiumi
d’inchiostro simpatico.
Poi me ne andrò a rifarmi il pelo,
quattro vezzi da filibustiere,
pose da bellimbusto
e scaltre mani traffichine per il mondo.
Poi me ne andrò,
sbiadita copia di un poeta vagabondo,
per strade rattrappite che non so.

Chiuderò bene la porta di casa,
da bravo,
spegnerò luci e sprangherò finestre.
Poi me ne andrò.
Le stanze dei miei ricordi hanno chiavi di ruggine.
Se le apri, qualche volta, trovi
impronte di pulviscolo,
nebulose da cassetto,
malinconie fasulle e buchi
neri che il tempo dilata,
come labirinti
dalle uscite che non so.

Se avevo la rima a farmi da porco,
a scovare tartufi di senso
nascosti sotto polvere di mondo,
vorrò trovare ancora
fangosi recinti da porcaro
per rotolarmi in melma di viveri
come un prodigo figlio
che non ritorna più,
con un sorriso guardando le perle
notturne dell’universo avaro.
Poi me ne andrò,
perché voglio inventare
nei vicoli galassie scintillanti,
avvolgendo l’asfalto come un mantello.
Cantando ai pleniluni
nenie illanguidite che non so,
con un cespuglio in testa,
le scarpe color canarino,
la giubba papavero al vento,
traverserò il sentiero oscuro e chiuso
del cosmo luccicante e impersonale
cercando un modo che non so
per volgere, rotare, ribaltare
il meccanismo vuoto,
assurdo e sempre uguale
dell’ingranaggio mondo:
ci sbatterò le corna e il muso
per farlo risuonare.
Poi me ne andrò,
sbiadita copia di un poeta vagabondo,
per strade rattrappite che non so.

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