Tanto va lo zozzo al perizoma che ci lascia il sederino

Maggio millenovecentosettantacinque, provincia di Milano

 «Ommioddio! Scusami! Scusami!»
Rimasi bloccato. Rimasi con la mano dura a stringermelo, ferma, tra i peli appiccicosi.
Mia madre aprì tanto le palpebre che mancò poco perché le cadessero gli occhi a terra. La signora Valerie Silvestri, all’anagrafe Valeria Bucchi, divenuta Silvestri per matrimonio, iniziò a piangere per colpa di un infinito attacco di riso.
Io, Stefano Silvestri, sedici anni pieni di ormoni, mi bloccai col mio cazzo ben impugnato dalla mia mano destra, perdendo i pochi attimi del mio orgasmo. Per colpa di mia madre.
Rimase due minuti a guardarmi, forse due secondi, ma l’imbarazzo fu tale da non farmi mai dimenticare la sua risata di sfottò. Staccai lentamente la mano sinistra con cui mi stavo stringendo le palle.
«Giusto, giusto, me ne vado, sistemati che fra poco si mangia, tesoro».
Chiuse la porta. Sospirai. Presi la carta igienica e mi pulii. Andai in bagno e misi sotto l’acqua le mutande. Le avevo rubate a mia sorella. Le lavavo, mi ci masturbavo, le lavavo, mi ci masturbavo. Le riportai in camera e le misi sul calorifero.

Aprile millenovecentottantanove, Varese
 
Marina Silvestri, mia moglie, all’anagrafe Marina Cristante, era andata a fare la spesa, come ogni venerdì. Io non la accompagnavo e lei, dopo due ore, tornava a casa con sei sacchettoni pieni di roba, dimenticando puntualmente qualcosa. In quelle due ore di pace per le mie orecchie, io cercavo passatempi divertenti, non volendo leggere e volendo evitare di sciogliermi sul divano davanti alla televisione. Marina mi ordinava di non accompagnarla, era una sua scelta andare da sola, almeno da due anni, mi ritenevo un uomo fortunato, mi rilassavo e sapevo che nel caso mi fossi offerto di darle una mano, lei si sarebbe alterata o diventata fredda o avrebbe cercato di convincermi in tutti i modi possibili di lasciarla fare, diceva di adorare il momenti della spesa, il mettere la monetina ne carrello, il riuscire a dominare l’andatura sbilenca del mezzo, vederlo riempirsi piano piano tutto ciò era sollievo per lei, era il modo migliore di rilassarsi, anche meglio di una settimana alle terme. Inoltre la sua grande e segreta perversione era annusare tutti i detersivi, scegliendo poi sempre lo stesso. Chiacchierava con il tizio delle carni, pensava di comprare del pesce, ma poi lasciava perdere. Robe così. Odiava la mia presenza, le mettevo fretta, diceva.
Una di quelle volte, per gioco, aprii il suo guardaroba. Tirai fuori uno dei vestiti che, da quando ci eravamo sposati, non aveva mai più messo, ma che io adoravo. Me lo provai. Mi stava stretto e la scollatura non mostrava il suo bel seno, ma i miei peli del petto. Così, sempre per gioco, aprii il suo cassetto della biancheria, presi uno dei suoi tanga, lei li lasciava lì ad ammuffire, indossava sempre i famosi e schifosissimi mutandoni della nonna, cinture di castità ei nostri tempi. Presi anche un reggiseno, a dire il vero, non stavo assolutamente male, l’intimo di mia moglie valorizzava il mio fisico, forse avrei dovuto perdere qualche chilo, ma sì sa che i chili di troppo sono parte della sensualità femminile. Misi il vestito, presi un paio di tacchi e cominciai a camminare per casa.
Venerdì dopo venerdì imparai, da tirannosauro Rex passai, con esercizio e sacrificio, a camminare come una splendida fatina.
«Che cazzo stai facendo?»
«Niente tesoro, niente. Volevo solo farti uno scherzo!»
Rimase senza parole quando mi vide. Non so se per lo spettacolo di sensualità al quale stava assistendo o per il fastidio che le creò vedermi nei suoi abiti, sui suoi tacchi, truccato coi suoi trucchi, il tutto realizzato con una cura che lei aveva dimenticato negli ultimi anni di matrimonio.
«Fai schifo!»
«Ma sì tesoro, ma sì tesoro, è uno scherzone, un gioco»
«Un gioco un cazzo! Sei un pervertito!»
«Ma cosa dici? Ma non capisci? Tutto un gioco!»
«Ecco perché i tanga erano rovinati»
«Ma no, scherzo, scherzo, per farti ridere, prenderti in giro»
«Tutti i miei tanga sono rovinati, i vestiti allargati»
«Ma non sono stato io!»
«E chi sennò? L’arcangelo divino? Il mio amante? Pertini?»
«Il tuo amante?»
«Il mio amante! Perché credi che vado a fare la spesa da sola? Perché mi piace l’odore del detersivo? AHH QUANTO MI FA SCHIFO!»
Iniziò a lanciarmi contro bombe d’odio, a mutilarmi con il racconto della sua vita sprecata con me, di come sarebbe scappata subito da lui, il grand’uomo. Fece le valigie. Chiuse la porta.

Febbraio duemiladue, provincia di Milano
 
Mia moglie si era risposata. Io avevo frequentato due donne dopo lei, storie finite male entrambe. Conservando però alcuni pezzi pregiati del loro intimo, qualche vestitino, comprando tacchi per immaginarie fidanzate. Ultimamente la cosa che mi stuzzicava sempre più era rubare, di nascosto, di soppiatto, come solo i veri ladri fanno, come Diabolik, ero l’Arsenio Lupin dell’intimo femminile e l’intimo più pregiato era per me quello della signora Pereira da Silva. Adriana Pereira da Silva, di origine brasiliana, forme da fotomodella. Maritata al signor Luca Immobile, meccanico d’automobili di grossa stazza. Due figlie femmine e un maschio, ormai quasi adulto. I miei vicini di casa.
Mi avvicinavo, quando sul balcone lasciava fuori i vestiti della famiglia e le rubavo i perizomi e i tanga. A quanto pare l’intimo della signora non comprendeva mutande di altro tipo.
«Pezzo di merda, pezzo di merda, apri, apri!»
Il 2 febbraio duemiladue, Adriana aveva capito tutto e lo aveva detto al marito, il quale sbatteva il suo pugno contro la mia porta di casa. Un metro e novantatre d’uomo, di bestia non laureata, cercava di convincermi ad aprire la porta.
«Stronzo, dovrai uscire prima o poi, ti buco le gomme, do fuoco alla tua macchina di merda, pervertito, ti rovino la faccia, ti soffoco con le mutande, bastardo»
Luca si allontanò per cinque secondi, colpa di una diarrea fulminante. Adriana allora mi disse: «Senti, apre la puerta, ci sono solo iou, ridami le cose e la risolviamo cossì, dai, apre tesouro, tanto non è qui lui»
«Davvero? Lo calmi tu?»
«Non mento, belo, calmo io mio papi»
Sarà, ma il suo italiano pronunciato alla brasileira, me la fece credere sincera. La sua avvenenza dallo spioncino della porta, quel suo abbassarsi la canottierina nera con sopra la linguaccia dei Rolling Stones, mi aveva convinto. Aprii la porta. Mi ritrovai steso a terra. Adriana mi aveva colpito col suo pugno destro pieno di anelli. Mi girava la testa. La sentivo urlarmi contro tutti gli insulti immaginabili, anche in brasiliano. Le sue mani vellutate erano diventate sassi che continuavano a colpirmi, a ritmi regolari. Un, du, un, du, un, du.
«Ti amazo! Impari a rubare la mia roba, ho visto che ti vesti con la mia roba, schifosso!»
Erano belli, i tanga, i perizomi di Adriana, riuscì anche a rubarle un vestitino, probabilmente il preferito di Luca, il quale arrivato dopo la discussione tenuta al Ministero degli Interni, entrò in casa, chiuse la porta a chiave e mi tirò giù i pantaloni, mi girò e mi prese a cinghiate il sedere. Ritornai bambino, con mio padre che mi rifilava la stessa punizione. Scoppiai a piangere e Luca cominciò a sfottermi. Avrei potuto agire per vie legali, ma poi uno s’immagina i titoli dei giornali: “Pervertito denuncia vicini per percosse” e non cerca vendetta. Svenni, credo per la vergogna o per il dolore.
Mi risvegliai con Marina, seduta sul divano a fissarmi. La mia guancia era immersa in una pozzanghera di sangue e bava.
«E così finalmente qualcuno te le ha date»
Mugugnai.
«Beh, te lo sei andato a cercare»
Mugugnai.
«Che sfigato»
Mugugnai, di nuovo.
«Riesci a muoverti?»
Mossi la testa, poi le gambe e la braccia, mi trascinai verso il letto nell’altra stanza, lei mi aiutò a tirarmi su e mi lasciò cadere a terra, facendo finta le dispiacesse. Mi mise a letto, mi diede un’aspirina e mi lavò la faccia.
«Non pensare che sia qui perché voglia, mi fai pena»
Si tirò via le mutandine. Me le lanciò in faccia e se ne andò ridendo.

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