Recensione di Donatella Pezzino a “Solo una virgola piegata sull’asfalto” di Massimiliano Moresco

 

 

Per comprendere la realtà, dovremmo sognare di più. Perché solo l’occhio dell’immaginazione riesce a cogliere la vera consistenza del reale, che in sostanza risiede più in ciò che non si vede. E’ questo il messaggio di Massimiliano Moresco, ligure, classe 1976, mente filosofica e al tempo stesso sognatore convinto, a tal punto da ricercare, attraverso una poesia fatta di voli, il centro in cui convergono e si annullano tutti gli opposti.

Ho questo strano vizio
di coltivare galassie
lì, sotto le spinte del giorno,
appena chiudo gli occhi.

Per Massimiliano, il poeta “vede ciò che esiste lontano dalla comprensione logica perché si immerge nella realtà immaginale”: la poesia, per lui, coincide con la scoperta che questa realtà esiste e che può aiutarci a ritrovare il filo di noi stessi. Anzi: la poesia, in tal senso, è la scoperta. Rappresenta la via inaspettata che ad un certo punto del percorso si apre al nostro occhio, evitandoci di cadere nel baratro della disillusione, degli orizzonti che si sfaldano, di una precoce vecchiaia interiore. Lungi quindi dal proporsi unicamente come mezzo espressivo, la poesia ci offre la chiave per una decodifica scevra da preconcetti, ma ricca di tutta la linfa vitale che solo le illusioni – foscolianamente – sono da sempre in grado di infonderci. Queste illusioni, questi sogni: ma cosa sono, alla fine? Non certo un mezzo per sfuggire la realtà: nei versi di Moresco non si ritrova alcuna voglia di scappare dal mondo circostante. Semmai, ciò che preme al poeta è trascendere questa realtà per meglio comprenderla: dall’alto, infatti, ogni piccolo dettaglio acquista la sua giusta prospettiva, e ogni fiore, ogni corteccia, ogni goccia di pioggia trovano la loro esatta collocazione all’interno di un Tutto che è prima di tutto armonia.

Quando sono calmo
ho una luce rossa
che mi avvolge
e una semantica di ciclamini,
la driade
nel bosco mi dice tutto
ciò che c’è da sapere
sul cantico dei fiori.

Ecco il cuore della sensibilità di Massimiliano: questa costante ricerca di accordo nelle differenze, nei contrasti, fin nelle piccole pieghe apparentemente disarmoniche della natura. Questa natura che lui, da uomo prima ancora che da poeta, osserva e ama per sé stessa, godendone con occhio semplice e primitivo, riveste un ruolo fondamentale nel processo di scavo interiore: contemplandola, infatti, l’anima riconosce in essa una parte di sé, portando alla luce le emozioni più riposte, sotterranee, incomprensibili perfino a noi stessi.

Ricordare di essere tundra
ma italico con le foreste, le giogaie,
il fienile col tetto di erba impermeabile.
Ricordare di essere derma e un invito
alle capriole del vento, di essere mare,
campagna, alture e fessure necessarie
a far entrare quanto basta.
Dicevo un luogo, il valico della memoria
dove si trova il meandro della fioritura,
indossare uno scafandro per alitarci dentro
per ricordare meglio l’icona del sorriso,
per disegnarci un pesco con la lingua
mentre il bulbo affina i denti per l’inverno

In questo fine lavoro si inserisce, viva e pulsante più che mai, la parola. La parola ricercata è stata spesso indicata come il punto nodale della poesia di questo autore, e non sempre in senso positivo: il frequente ricorso ad un lessico desueto, infatti, è stato visto da alcuni unicamente nelle sue implicazioni più rischiose, ovvero come tentativo di privilegiare la forma a discapito dei contenuti. Ma ad un’attenta disamina, e soprattutto ad un occhio disinteressato (e torniamo ancora, così, all’importanza di valutare senza pregiudizi) questo particolare aspetto della poesia moreschiana obbedisce solo in parte alla volontà di creare un linguaggio poetico; la sua principale funzione è quella di riprodurre nella semantica la complessità del reale e, di conseguenza, di trovare una chiave interpretativa di ogni fenomeno – fisico o psichico – che caratterizza il nostro vissuto.

La guaina in cui custodisco falesie
è il follicolo dove smorza
l’ipersensibilità al cadere
è così che allevo la dentizione
per sottrazione di membrane
per tornare disadorno e terracqueo.

In questa ottica, la parola elaborata cela un estremo bisogno di ridurre all’essenziale ogni cosa, e di raggiungere quel profondo stato di consapevolezza che richiede la totale libertà da tutte le sovrastrutture e le costrizioni del nostro quotidiano. Anche l’amore non si sottrae a questo desiderio di semplicità, di immediatezza, di libertà da regole e orpelli:

Ti saluto con occhi senza veli
che cento parole non basterebbero
ad evocare l’incanto di un silenzio.

E ancora:

Questo è l’amore:
ricoprirsi di petali
in modo da potersi sfogliare
e, nella sospensione dell’ultimo strappo,
sapere se ardere o scindere lo sterno:
per strappare il cuore come fosse uno sterpo.

E non c’è che un modo per sfrondarsi, per ricondursi e ricondurre tutto all’essenziale: farsi bambini, ritrovare, appunto, la nostra essenzialità primordiale.

nutro il bimbo che gracchia dentro,
è quest’anima e quest’anima
assomiglia a un corvo, svenuto,
dove sgorgano alfabeti sconosciuti

Attingere a quella parte che in noi non è mai scomparsa, anche quando l’avremmo voluto. Il bambino di Massimiliano Moresco, però, è anche in questo caso sui generis: non ingenuo, non inconsapevole, non al di fuori della realtà. E’ un bambino maturo, che torna alle sue favole, ai suoi animali fantastici e a quelli reali con un senso della magia che ha del forte e del concreto. Convinto della necessità di portare la poesia nel sogno e il sogno nella realtà: mai il contrario.

Mi piaceva sognare sopra una nuvola
Per fare un cerchio con la bocca
lo stupore di vedere in successione
unicorni, ippopotami, ippocastani
partoriti dalla stesso gambo di cielo
fecondati da me, dal grembo
della mia immaginazione
e le prendevo in braccio
solo un momento, un milione di anni
il tempo necessario perché il vento
cambiasse la forma, la dimensione

E’ inevitabile, però, che ad un certo punto sorga l’imprevisto, è che la parola-poesia-sogno, fin nella più piccola interpunzione, possa perdere l’equilibrio e cadere rovinosamente: eccola, la virgola che si piega sull’asfalto, precipitata forse con troppa violenza dalla nuvola più alta. Eppure, anche così, quella virgola non cambia il suo orientamento: continua a guardare in su, verso il cielo. Verso la prossima nuvola.

Donatella Pezzino

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