Sonia Caporossi |Opus Metamorphicum

 

 

Sonia Caporossi, Michelangelo (estratto), da Opus Metamorphicum (A&B Edizioni 2021)

[…] Tutti pensano, tutti hanno sempre ritenuto nel corso dei secoli che io, Michelangelo Buonarroti fu Ludovico, sottragga materia dal blocco informe a colpi di scalpello, che io, insomma, informi la materia per via di sottrazione, per farne emergere la natura naturata, la forma formata preesistente. No, signori! Non c’è niente di preesistente! Io invece compio un’operazione quantomeno imperscrutabile ai più: moltiplico e divido. Non faccio altro. Per quanti colpi di mazza del ventre sono inferti al deretano incredulo di quel santo di Tommaso (il mio amato Cavaliere armato, non il vostro ciarliero Aquinate), altrettante divisioni in Colonna, urlando Vittoria!, io propino al malcapitato fruitore del pezzo di marmo. La tridimensionalità dell’opera è, in questo caso, scarsamente garantita. La quarta dimensione di seno e coseno delle mie maschiacce sistine dovrebbe indurvi a riflettere sulla mia psicologia di degenerato. Come diceva Henry Miller, io posseggo l’osso nel cazzo, col quale intendo la mia spontaneità d’ispirazione, che si sprigiona per natura e per istinto, che è sempre crassamente, pienamente passionale, s’erge ritta senza controllo, insomma: un’ispirazione del cazzo. E come non divelle a mo’ di scalpello dalla carne in forma di guaina alcunché, anzi, si fa forte della sua capacità meccanica di generare, in mobile divenire, nuova carne priva d’intelletto per natura e per definizione, come una tabula rasa o dealbata, io non tolgo la materia per far emergere la forma preesistente: al massimo la aggiungo, in forma esponenziale, a posteriori; la moltiplico tale che, alla visione esterrefatta dello spettatore, risulti divisa in mille infinitesimali particolari di perfezione, anzi, di finitezza etimologica, a ogni istante, in base alla luce del giorno, della prospettiva, del punto di vista dell’osservatore, mutevoli, cangianti, ricolmi di infiniti sensi: per l’appunto, in un mirabile divenire mosso dal momento della privazione, del negativo, dell’assenza, del vuoto. E sapete che c’è? Neanche me ne accorgo, come dire: accade da sé.

A ogni modo, la progressione delle forme che informano la forma e che si mostrano man mano a ogni colpo di scalpello non è aritmetica, è geometrica. Io sono omosessuale, non genero bambini: creo maschi adulti, meglio se poco pericolosi, meglio se remissivi. Come i conigli di Fibonacci, essi ricacciano la forma dall’informe, si riproducono come batteri, in sincresi esponenziale. Per me, quanto a me, secondo me, maschi, veri maschi sono anche le donne. Vero maschio è anche quel bambinone di David, con la capocchia del glande grossa quasi quanto il testone sproporzionato, se visto di profilo: un bel profilo greco, pederasta e alessandrino. La materia non è nulla di per sé, è mera potenza, ma quant’è potente proprio per ciò! Se l’atto è la forma finale, e la forma è in sinolo con la materia, io non commetto che atti impuri, perché macchiati di continua privazione, il negativo che mette in moto l’incessante autoforgiarsi dell’opera, di mano e di scalpello, che vive in sé e per sé si concepisce, autosufficiente, signora e sovrana; giacché, della privazione, io colgo la moltiplicazione delle forme, io colgo nel negativo il momento del positivo e del moto; giacché, nella materia, non c’era forma se non a posteriori, ma se la privazione si identifica con la materia stessa, ergo il mio intervento è puramente indifferente, è un togliersi aggiungendo, è un dividersi moltiplicando, solo alla fine formato, solo alla fine compreso, solo alla fine perfetto. L’atto creativo è un gioco privativo che, nel mentre, attiene al posteriore; è il puro istinto del vuoto a muovermi la mano, a dar forma all’informe, a dar luogo alla creazione. È il vuoto, il vuoto, il vuoto: è l’ombra, il male, l’assenza. […]

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