L’ozio

Lasciamo l’affaccendarsi vano a questo tempo gonfio della retorica del fare. Lasciamolo ai poveri di spirito che dimostrano a se stessi di esistere movimentando il proprio corpo e altri oggetti. Lasciamolo ai carnivori alla ricerca perenne del pasto, ai pesci che nuotano per non morire, agli insetti fecondatori, ai perenni annoiati che temono di rimanere esposti al proprio silenzio.Noi oziamo e sogniamo, che siamo uomini.

Yvon Ferrer, Gynecologique

 

Sono sfinito.

Ho vissuto una storia pirotecnica di amore e avventura che mi ha portato da Roma a Londra a cavallo di uno stegosauro, ho elaborato una piccola teoria che spiega l’origine della malinconia e ho sognato un futuro in cui le persone non sentono il bisogno di essere come gli altri ad ogni costo.

Sono sfinito ma non posso riposarmi.

Ho da raccogliere le voci che sono conservate nei miei scaffali, che non cadano nel nulla troppo a lungo ignorate. Ad ogni costo tenere acceso in me il fuoco di un poeta scomparso ragazzo e il vigore allucinato e dolente della sua adolescenza come una fiammata. E poi trapiantarmi gli occhi di un vecchio romanziere che sono binocoli e microscopi di inaudita potenza e con quelli indosso sentire che nulla è troppo piccolo da essere invisibile o troppo grande da non essere compreso. Sapere ancora una volta che, anche se non ci incontreremo mai loro ed io, oggi qui ci conosciamo più profondamente di quanto potrò mai fare con la maggior parte delle persone che incontro tutti i giorni là fuori.

Fuori dove oggi si consuma un’altra giornata di sole invernale. Niente mi è più caro di alzare ogni tanto lo sguardo e guardarla da qui che illumina le soglie del mondo dove abito io. La lascerò lì a scaldarmi con la sua presenza e non entrerò nel quadro. Non mi perderò quello che si prova ad averlo davanti. Lascerò che si illumini, si dispieghi e poi scompaia nella sera dentro la cornice della mia finestra.

Adesso ho da fare.

C’è un foglio scarabocchiato da mettere in ordine e una tastiera su cui devo tradurre un ricordo che mi è esploso dentro e a cui non so dare una forma. Un ricordo che odora di un pomeriggio, di una foto, di una carezza in bianco e nero, di una piccola vergogna, di un sogno sognato quando ero bambino e mai dimenticato, chissà perché proprio lui tra tanti.

Quando avrò finito dovrò perdermi in un vecchio film e guardandolo non vederlo e ricordare invece com’era quando lo avevo guardato. La stanza e le persone che mi erano accanto, i loro visi cambiati o scomparsi e com’ero io e se c’era odore di caffè o di cena sul fuoco e se era estate.

Tutte queste cose ho da fare. Non ho tempo da perdere. Il tempo di gettare via il tempo verrà.

Sarà domani quando venderemo il nostro corpo per denaro e impersoneremo il personaggio che ci stato assegnato nella commedia che non abbiamo scritto. Quando scambieremo il movimento con lo spostamento, il produrre con l’affaccendarsi, la parola con il verso del pappagallo, il pensiero con il circuito ripetitivo del decerebrato. Quando mortificheremo noi stessi fingendoci tutti uguali, quando accetteremo che il nostro contributo al mondo sia ridotto alla nostra fatica muscolare e alla ripetizione di percorsi mentali che non abbiamo pensato, che odiamo e che ci sono estranei. Quando accetteremo il premio che ci spetta per aver ubbidito, per aver ottemperato, per aver assolto, disbrigato, acconsentito. Quando accetteremo che questo abbrutimento sia glorificato, esaltato, nobilitato e pomposamente chiamato lavoro.

Facendo tutto questo, domani, mi riposerò. Ora non posso farlo: ho da lavorare. Anche se mi sento la testa pesante a furia di trattenere la vita in questa stanza e la schiena a pezzi a scrivere seduto su questo divano, mentre fuori si fa sera.

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