E luce fu (Follia d’Amore) ( di Alessandra Piccoli )

Suona la sveglia, sposto le coperte, scendo dal letto, meccanicamente svolgo i riti mattutini prima di recarmi al lavoro. Ho strani pensieri in testa, sbattono tra le pareti del cranio.

E luce che ti lusinga un attimo prima della morte.
Non lo sai, l’hai sentito raccontare, o l’hai semplicemente visto con altri occhi, o col cuore ma mai accarezzata.
Calda, svenevole, e odora di buono, ti chiedi perché opporre resistenza, quando è evidente che qualcuno ha già deciso per te. Condividerai con l’anima tua, tutto questo, la gioia, perché per mano è diverso , meno doloroso ed angosciante da raccontare perché sono due voci unisonanti , due corde che vibrano in perfetta armonia. Già, perché opporre resistenza, perché rifiutare?
E non lo farai, abbasserai le difese, ti farai penetrare da quegl’occhi .
La luce, quella vera, l’ho vista per la prima volta quando ti ho incontrata, ho capito che soltanto guardarti sarebbe stato un viaggio di sola andata. Il velluto che mi ha avvolto come mai nessun tessuto, balsamo che mi ha curato e nutrito, e ho pensato di essere stato inghiottito, anche solo per un attimo, e che mi sarei perso volentieri. Solo tu mi avresti potuto salvare, tirare fuori da quella spirale buia in cui dormivo rassegnato ormai ad una vita incolore ed insapore che non era di certo la mia.
Ora lo so.
Il lavoro mi teneva a galla, la piaggeria delle persone che gravitavano attorno a me, il costruire continuamente un idolo per poi abbatterlo, un fingere emozioni, cercare la benevolenza e l’amore degli altri. Poi, ad un tratto…incroci occhi come questi. La ghisa rovente, il colpo al capo, violento, non sai se è risveglio o coma per sempre, non sai chi sei, chi sei stato finora ma la certezza di volere Lei, quella è chiara, sai che è tua ,lo è sempre stata ed è ciò che ti manca. La tua meta e metà.
Lo sai ora che ti ha investito, perché prima aveva sembianze di fame e sete, e non riuscivi a cogliere il bello, non ci riuscivi mai, perché filtravi con lenti tristi le nuvole, la nebbia, la pioggia dirompente ed era tutto così fastidioso. Era un vivere la noia, un coprirsi di esperienze altrui, un vivere altre vite, un parassitare e fagocitare corpi per mantenere il ritmo di un battito stanco.
Vorrei che mi dicessi che mi ami. Che mi abbracciassi. Che facessi l’amore con me. Dimmi cosa vedi, mentre guardi il vuoto, che cosa immagini per noi. Nella testa il velluto dei tuoi occhi, mi soffoca le parole. Nero, pece, m’invischia. Ti amo.
Urto la tua spalla, l’odore di pane caldo e del caramello mi brucia le narici. Ci tocchiamo per un infinito istante e mi chiedo se esista veramente il caso, perché oggi ho preso l’autobus delle 7.40, in ritardo su tutto, io che ho sempre anticipato ogni cosa, pensiero, azione, che ho vissuto una vita in anticipo, fuori fase. E ora ho sentito il tuo odore, tu profumi di un futuro diverso.
La spalla mi duole, in testa l’eco di mille pensieri di carne, le porte che si chiudono, il 56 come un mostro , mi inghiotte.
Non so se ne uscirò vivo, cambiato, o cosa, o chi. Ho fissato il tuo viso per dieci eterni minuti, ho desiderato il traffico, i semafori, la pioggia, la nebbia, gli insulti dei frettolosi, qualunque cosa potesse fermare quell’istante e quel luogo in movimento. Devo parlarle, fermarla, toccarla ancora. Il controllore sale, non ho timbrato il biglietto, e tu ridi. Ridi mentre pago, nulla rispetto al debito eterno che mi aspetta. Improvvisamente tutto si ferma, non esiste più nulla, nemmeno i finestrini ,quadri in movimento sulle pareti di una casa che immagino già nostra, ma solo pupille dilatate, più nere di una notte senza luna, l’odore dell’asfalto umido, e le porte che si chiudono. Il mostro si allontana da me, da noi, vomitati fuori.
Vorrei fare qualcosa, dovrei, perché adesso o non sarà mai più, non ci sarai più. Ti amo. Come faccio a dirti che ti amo da sempre, che ti aspettavo, che vorrei rimanessi qui con me, adesso, per sempre? Mi sento morire, muoio.
Ora la Luce è quel fulmine, il colpo caldo dentro, di un racconto solo immaginato, fa male, mi trafigge, mi inchioda paralizzandomi, e sono di sabbia.
Le labbra mute trattengono le parole congelate dentro di me, ti guardo e sospiro cercando di leggere ed interpretare i tuoi pensieri, bramando una bussola immerso nel nero del pozzo che sei, una risposta che mi orienti, un cenno impercettibile, dimmi che sei tu, che io sono io, e che sono ciò che ti manca. Tu non parli, sorridi, i tuoi occhi bellissimi non li avrò mai, lo so, ma non mi sono sbagliato e nemmeno tu, ma non si può, non si deve.E ti dovrò nascondere per sempre nelle mie preghiere.
Mi lasci la mano, l’avevo? Non so. Ho le dita intorpidite, umide di te. E fa freddo qui e nebbia e pioggia, tutto torna un fastidio, mentre cerco disperatamente il velluto e angosciato e solo scendo ancor di più in fondo, negli abissi della mia follia e solo schegge di vetri rotti che feriscono i miei polsi, le mie dita intorpidite e ancora umide di te.
Il tempo forse si è fermato. Ma tu no. Mi volti le spalle e te ne vai senza nemmeno guardarmi. Forse non mi ha visto mai. Lasci il mio mondo se mai è stato un po’ tuo, si alza un vento e con esso le foglie, mi ero persino scordato dell’autunno, perché tu non hai stagioni amore mio, non hai corpo, non hai nemmeno più occhi di velluto, nè sangue che possa dissetarmi, e un sole cocente esce all’improvviso asciugando la mia sabbia. Mille granelli si disperdono nel vento d’ottobre. E non c’è più niente, bramo affinchè quel vento mi riporti, in pace, al mare. Amore mio infinito.
Arriva il 57 e tu sei ormai lontana, l’illusione di tenere ancora la tua mano, ti prego stai qui con me, qui dove non sarai mai, ti immagino come non sei, come non ti voglio più rivedere e ti accarezzo il viso imbrattandolo col mio sangue.
I fari ai quali vado incontro, il suono assordante come il nulla che ne seguirà, il mio corpo dilaniato nello schianto, la gente che urla e un passo, io ad un passo da te.
E la luce.

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