Dalla parte dei lupi (di Maria Desiderio http://caosinblu.blogspot.it/)

A Boris che mi ha spinta

                                                           ad aprire le storie

Dalla parte dei lupi…………….DE LOS LOBOS…….

nei tombini, sotto i ponti,

nelle scatolette di lamiera infuocata…..

con la rabbia tra i denti

sputando coraggio negli angoli

sulle ferite…

nelle occasioni perse

si vedono occhi morire dietro lenti di colla e morfina…

spenti dalla scelta semplice

la scelta giusta….ma giusta per chi?

Ci si tira dietro le macerie di una città perduta…si portano sulle spalle le macerie dei sorrisi insieme a quelle di qualche passante occasionale di marciapiede…di letto…di carestia….è tutta colpa dell’emotività….

Dietro la meccanica delle relazioni si perde la rivolta dei respiri….l’anarchia dell’amore non autorizzato…occasionale…. occhi contro occhi…. senza regole ….da quello che nasce dal fango e da quello che resta….contro la nebbia della diretta in globo visione….

ridateci il senso della violenza….contro quello che ci si aspetta….

 

 

PROLOGO

 

E’ una questione di luce,

lo scavare della notte,

nelle orbite di chi resta seduto in disparte…Anima stropicciata in mano…

Sotto le suole delle scarpe, un cuore di cuoio ascolta lo sciogliersi dell’asfalto.

Il buio si snoda ingoiando il marciapiede troppo stretto,

la luce lattea e opaca dei lampioni, si porta dietro le voci strascicate…

Un meticcio di lingue, suoni e distorsioni sintattiche.

 

I denti sul marciapiede,

ferro, metallo… Sangue che cola dal naso, dal labbro spaccato…..

Il centro del dolore diventa caldo,

liquido e da alla testa.

Il tempo della violenza grigia si è mangiato la rivolta…

La sputerà tra resti di barricate e lamiere mentali,

ognuno chiuso e rinchiuso nel proprio ghetto,

affogando gli occhi nel buio si cammina trascinando i piedi…

Corpi stanchi contro corpi speciali.

 

Metropoli, foresta di scorie umane e cemento,

inospitale radura, sintesi di caos e controllo…

Indifferente al tempo che corre e scorre tra fermate di metro e periferie…

Il magma dell’indolenza, si specchia nella plasticità di chi pensa di scegliere, come vivere e come morire…

La paura striscia sotto pelle,

lega le lingue e indirizza i gesti i pensieri confusi della superficie…Il problema rimane quello che appare,

sotto il degrado della repressione morbida che ognuno agisce sugli occhi dell’altro…

Si combatte in abiti troppo stretti.

Sognando il margine rimanendo disgregati, schiacciati, nemici, feroci come lupi affamati storditi da una foresta senza nord e senza sud.

 

 

 

 

 

 

 

SIAMO TUTTI FUORI TEMPO

 

Stazione

La nebbia è così fitta da sembrare una tenda tirata per nascondere la notte, si cerca rifugio negli angoli sudici, per difendersi dalle tremule luci al neon e da quel ronzio silenzioso, martellante che non dorme mai, neanche in queste ore grigie tra il trascinarsi del buio e il principio del giorno.

Abdel e Sofia si guardano da sotto in su, rannicchiati si sfiorano e anche se lo spazio li vuole vicini non sono mai stati così distanti, persi entrambi in altri alfabeti cerebrali, gli occhi guardano nella nebbia cercando chiavi che non ci sono… Le banchine del treno lentamente si animano di un lento brulicare….. Pendolari, sonnambuli del lavoro, mani affondate nelle tasche, berretti di lana calati sulla fronte.

Tirano dritti.

Neanche si accorgono di quel groviglio umano nascosto tra il muro di marmo e le panchine di smalto scrostate o forse li vedono ma non li distinguono.

 

Fabbrica

Nella stanza dell’assemblea la cortina di fumo brucia gli occhi, rendendo le poche porzioni di aria rimaste irrespirabili. Colpi di tosse cavernosa, rumore di sedie che si spostano, voci che si alzano e si scagliano l’una contro l’altra.

Si cerca un responsabile, un colpevole, un nemico, un padrone forse. Qualcosa che dia senso a quei novanta giorni passati a costruire la propria resistenza, individuale e collettiva, contro la perdita del posto di lavoro. I presidi, i picchetti, le botte, lo sciopero e infine la decisione di occupare lo stabilimento.

La delusione e il senso di ineluttabilità, la sensazione di lottare a vuoto che li assaliva da giorni come una vertigine costante… A volte la sensazione di non lottare affatto, annaspando dentro secchi di colla.

Non avevano mai smesso di guardarsi in faccia, continuando a credere di poter perdere combattendo.

 

Due ore prima

Corrono tenendosi per mano inseguiti da incubi fatti di giubbotti di pelle e mazze di ferro.

Sofia non piange non ci riesce nonostante i lividi, quelli violacei che le mappano il corpo e quelli invisibili che avrebbero cambiato per sempre il suo modo di guardare e di respirare… Gli occhi sono due fessure di rassegnazione violenta, orbite in affitto che mostrano quello che il corpo nasconde…

Abdel la tiene per un braccio con la paura di perderla ad ogni passo con il timore di stringere troppo forte quel polso minuto.

Correndo con il cuore che pulsa nel cervello e nelle mani, brandelli di ricordi nella testa si confondono mischiandosi: una canzone araba e il sapore del latte di capra e dei datteri, il blu quasi indecente del cielo marocchino, la fuga dalla miseria, il rumore del fiume impetuoso d’inverno e dolce d’estate, il gelo delle notti passate in attesa senza poter chiudere gli occhi, il momento in cui si erano conosciuti in quel vicolo illuminato solo da resti di luna.

Lei rannicchiata vicino ad un cassonetto cercava di ripulirsi alla meno peggio dai segni lasciati da un cliente particolarmente ubriaco, lui che le si era avvicinato di soppiatto, quasi spaventato chiedendole in un italiano stentatissimo se fosse tutto a posto. Era andata così tra rifiuti e il cappotto grigio della strada, si erano detti poco o niente, si erano guardati e si erano riconosciuti.

Un magrebino e una slava che prendono un cappuccino alle quattro del mattino in un bar di periferia, luci fredde come quelle di un obitorio, tavolini di formica e sedie di plastica. Un ragazzo con le braccia troppo lunghe e i capelli troppo ricci e una puttana con le scarpe di vernice sporche di fango. Dinoccolati, fuori posto, impacciati, estranei si erano agganciati gli occhi negli occhi.

 

Guido corre…Corre fino a perdere il senso del proprio corpo, quell’isolato non gli era mai sembrato così lungo da percorrere… Corre verso i cancelli dello stabilimento occupato, sa che rimane poco tempo prima dell’irruzione , prima dello sgombero. Da giorni ne sentivano la puzza nell’aria, erano rimasti soli, cinquanta operai e gli spettri dei loro picchetti. Avrebbero resistito? Fino all’ultima manganellata?

Fino alla fine… Per tutto il tempo necessario.

L’isolamento, le notti insonni, lo sfilacciamento progressivo della rabbia che da feroce e manifesta era divenuta livida e sotto traccia.

Il silenzio di tutto quello che avrebbe dovuto fare rumore, la paura della perdita, l’immagine di Monica che senza battere ciglio aveva solo detto si.

 

Due giorni prima

 

Sofia

<Questi lividi non andranno più via.>

Le strisciate violacee della fibbia di metallo dietro la schiena rimarranno li come autostrade in mezzo al nulla.

Sente la macchina del caffè che borbotta in cucina chiude gli occhi e annusa, si riempie i polmoni di quell’aroma forte che le va dritto al cervello.

Le altre dormono, sono tutte tornate da poco, senza dire una parola si sono buttate nei letti cigolanti chiudendo le persiane per non far entrare il giorno.

Quelle sono le ore di silenzio totale, in cui sono sole chiuse a chiave nella loro prigione al sesto piano.

Si era alzata senza fare rumore, lo sapeva, il sonno non sarebbe mai arrivato nonostante la notte di lavoro.

Tenendo tra le mani la tazza sbeccata e fumante, se ne stava lì incantata a fissare l’alba che invadeva lentamente la cucina.

Fuori dalla finestra una porzione di cielo rosa sopra i palazzoni squadrati, illumina residui di notte.

 

Abdel

<Devo portarla via di lì…>

Suo zio sta preparando il tè con zucchero e foglie di menta, lo versa nei bicchieri di vetro colorato, il liquido ambrato precipita dall’alto infrangendosi nel vetro in una schiuma leggera.

Sono le 4.30 del mattino fuori è ancora buio pesto, infagottati fino ai denti si incamminano verso la piazza del reclutamento, i lampioni sono rotti, li accoglie un’alba grigia e gelida.

Sono tanti, almeno una trentina, comparsi così sbucati da chissà dove sono tutti stranieri, africani, rumeni, indiani, sperano tutti di essere caricati su uno dei camioncini che ogni mattina si riempiono fino a scoppiare, riuscendo così a strappare una giornata di lavoro in cantiere.

La paga scarsa, il lavoro duro e spesso pericoloso non sembra essere un problema sono tutti disposti a lavorare a meno degli altri.

Abdel lo avevo capito presto e non se lo aspettava.

 

Guido

<Abbiamo perso… Avremmo perso in ogni caso.>

Era tornato a casa dopo giorni di turni di guardia, notti insonni a scavare il buio con il bruciare delle sigarette.

Faceva scorrere l’acqua della doccia bollente il vapore saliva dal basso verso l’alto, aveva i muscoli intirizziti sembravano legati insieme da fil di ferro arrugginito.

Era così stanco che rischiava di addormentarsi in piedi nella doccia, come un cavallo.

Non avevano più la forza di difendersi, quanto ancora avrebbero potuto resistere ora che il sindacato aveva fatto dietro front facendoli passare per un gruppo di estremisti violenti solo perché non avevano intenzione di accettare il loro meschino gioco a ribasso.

Monica si era seduta sullo sgabello accanto alla finestra e lo guardava, fissandolo in silenzio, sapeva che lui per lei lo avrebbe fatto, avrebbe stretto i denti senza neanche provare a suggerire un’alternativa morbida.

Il lavoro probabilmente era spacciato ma loro avrebbero resistito allo schianto.

 

Lo spicchio di luna appesa nel buio aveva una forma strana, leggermente distorta

Rannicchiata tra le sagome dei tetti, sotto i residui delle ore cadute da lancette di carne…

 

Sofia

L’appartamento è invaso da una tensione silenziosa. Sul tavolo di plastica in cucina stanno contando i soldi, li dividono in mazzetti ordinati, allineandoli con precisione loro se ne stanno li ferme, labbra serrate, strette nelle loro vestaglie, nei loro maglioni, ondeggiando piano, sperando che finisca il prima possibile.

Sofia li guarda di traverso come aspettandosi uno scoppio d’ira, sono in due, sono sempre due capelli a spazzola, spalle larghe, occhi di ghiaccio, voci basse e concentrate, neanche le guardano, parlano tra loro.

Poi, succede quello che ogni giorno si ripete come un rito religioso e sacro, si alzano dalle sedie sgangherate, arrotolano i soldi e se li fanno sparire nelle tasche di pelle nera, scelgono due di loro a rotazione e le trascinano nell’altra stanza, si chiudono la porta alle spalle ma a volte la lasciano aperta, uno per volta mentre l’altro rimane in piedi, in attesa, famelico e annoiato.

Si sente solo il cigolio del letto e qualche grugnito, sono rapidi come cani che si avventano su pezzi di carne cruda. Vanno via chiudendosi la porta alle spalle e senza guardarsi indietro, torneranno tra poche ore per caricarle in macchina e portarle al lavoro.

Loro, come soldati che si preparano alla battaglia, si vestono, mettono le loro divise di calze a rete e tacchi alti, indossano la maschera di matita nera e cipria che ogni notte difende le loro facce dalla vista di uomini che usano i loro corpi a buon mercato.

Padri di famiglia, uomini soli, qualche ragazzo che ha fatto una scommessa con il proprio branco, tristi, depressi, perversi, timidi, violenti…

Sofia dedica ad ognuno di loro i suoi occhi indifferenti, il suo corpo è li, in quelle macchine fredde parcheggiate ai margini della strada, i suoi occhi sono altrove.

Si lascia frugare da mani frettolose e recita le battute imparate come una litania in quei mesi di assurda alienazione forzata mentre fa correre il pensiero tra ricordi confusi e progetti di fuga.

 

Abdel

Il capo, un italiano con un prominente stomaco simile ad un mezzo cocomero, urla frasi incomprensibili, Abdel pensa che prima o poi qualcuno si farà male, cadrà da quei ponteggi e si romperà l’osso del collo.

Un secondo di distrazione, un piede messo male e si precipita giù…

Fa freddo, la luce pallidissima e grigiastra del sole sta colando dietro i palazzi, tra poco non si vedrà più nulla.

Sono ore che porta avanti e indietro secchi pieni di calcinacci, non sente più le braccia per la stanchezza e per il gelo, si concentra con un ultimo sforzo ignorando i crampi allo stomaco per la fame.

Quando ormai non si riesce più a mettere un piede davanti all’altro finalmente i trapani smettono di ruggire.

Abdel torna verso casa, pigiato nel furgone insieme ad altri venti uomini con gli occhi rossi per il sonno, impolverati, silenziosi. Scendono senza fretta nel piazzale della mattina e senza dirsi quasi niente si disperdono nel buio, ognuno verso il proprio letto.

Camminano veloci lui e suo zio, con le mani in tasca si guardano di tanto in tanto dividendosi una sigaretta.

Abdel pensa che in fondo è fortunato, poteva andare molto peggio di così.

Mangiando, più tardi, si troverà a scavare nella sovrapposizione dei pensieri cercando di ricordare cosa lo avesse spinto a lasciare il suo cielo blu, il suo villaggio arrampicato su monti di roccia rossa, per andare alla ricerca di una possibilità in più. Finendo in quello che non era esattamente il suo progetto di partenza.

Rimanendo in qualche modo bloccato, senza più riuscire ad andare né avanti né indietro.

Ci sono notti in cui, troppo stremato per dormire si rigira sotto le coperte fissando il buio perdendosi nei rumori di sottofondo.

In quel palazzone ci vivono centinaia di persone, in ogni appartamento si nascondono storie interrotte di ordinaria rassegnazione.

Abdel chiude gli occhi e sente con precisione lo scorrere dell’acqua nelle vene dei muri, sente porte che si chiudono, strappi nelle vite degli altri, sente un litigare ovattato e costante. La povertà non dorme mai…

 

Guido

Monica dorme da un po’, si è addormentata rannicchiata come una bambina, una massa di ricci biondi sul cuscino, Guido si alza gira per la casa buia ha la sensazione che sia passata una vita intera da quando tutto questo ha avuto inizio, si sente invecchiato di dieci anni.

Nonostante le palpebre pesanti non riesce a dormire, lo tengono sveglio le immagini degli ultimi giorni, i suoi compagni stanchi ma determinati spaventati dalla perdita del proprio orizzonte.

Si sono trovati a difendere come un branco di lupi un posto in fabbrica che li sta facendo morire un po’ alla volta tutte le mattine. Quelle otto ore massacranti da operai, per uno stipendio che a stento permette alle loro famiglie di arrivare alla fine del mese.

Lottare per il lavoro salariato, perché è la sola cosa che resta.

Ripensa agli inizi, a quel progetto semplice e solido che era stato il suo amore con Monica, la sola persona che da sempre fin da ragazzini fosse riuscita a guardare oltre il suo pessimo carattere così incline alla collera violenta, così irascibile e testardo.

Lei in qualche modo era riuscita a farsi largo con le sue lentiggini e gli occhi nocciola nella giungla di tutta la sua rabbia.

Si erano conosciuti che erano poco più che bambini, abitavano nello stesso condominio grigio ai margini del Raccordo Anulare.

Era stato un avvicinarsi lento e progressivo il loro: aspettando alla stessa fermata un autobus fantasma, incrociandosi sulle scale e lanciandosi sorrisi clandestini da dietro le sciarpe.

Lei era la sola a non aver paura di lui, non si faceva impressionare dalla sua prepotenza, era come se capisse che oltre il muro delle ciglia scure fosse rannicchiata un’anima a metà, incapace di chiedere aiuto. Perché certe ferite si mangiano la voce…

Guido aveva la fama del picchiatore nel suo quartiere, quello era il suo territorio, la sua casa, per quanto odiasse l’odore di muffa e cucina che impregnava i pianerottoli, per quanto disprezzasse la sottomissione di sua madre e l’alcool di suo padre, per quanto si sentisse un lupo in gabbia.

Sfogava tutta la sua frustrazione in strada trovando tregua nel suo branco, rovesciando i secchioni della spazzatura, girando con in tasca un coltellino a serramanico. Aggredendo per non essere aggredito.

Scopando senza sentimenti la brunetta con i fianchi larghi e la pelle bianca come il latte che abitava sopra di lui, senza fidarsi di nessuno.

Guido si accende una sigaretta apre la finestra e si fa investire dal gelo.

La fabbrica era una possibilità, era la sicurezza di uno stipendio a fine mese, era uno strumento per difendere la loro stabilità, era il suo lascia passare per la normalità.

C’era stato un momento, non riusciva bene a ricordare quando, in cui la strada non bastò più.

Le botte, il rispetto, il senso di dominio, non riempivano più le sue voragini i suoi buchi neri profondissimi e frastagliati.

Lentamente, la ferocia che lo teneva sveglio la notte, la rabbia violenta nei confronti del mondo, stava lasciando il posto ad una sorta di malinconica rassegnazione, ricalcando giorno dopo giorno i confini sbiaditi del suo personaggio fino a farlo diventare una caricatura un po’ patetica di se stesso e delle proprie paure.

Monica era riuscita a riempire quelle fratture, facendo colare nelle ferite aperte la luce di due occhi che lo vedevano in tutta la sua insicurezza. Davanti a lei si era sempre sentito nudo, inerme e allo stesso tempo, finalmente a casa.

Lei era diversa sapeva leggere anche senza conoscerlo il linguaggio delle sue sopracciglia.

Senza averci scambiato più di qualche frase, una sera di ormai quasi dieci anni fa scontrandosi sul portone, lei di corsa, trafelata e in ritardo, lui masticando la polvere sporca dell’ultima rissa, zigomo spaccato, mani ancora piene di pugni non dati, si erano guardati.

Lei lo aveva guardato e non c’era né pena né recriminazione, non lo stava giudicando, non aveva paura.

Quella sera parlarono sulle scale, a bassa voce , senza guardarsi troppo negli occhi, Guido sentiva l’elettricità che gli rincorreva il sangue nelle vene.

Un misto di istinto da strada e attrazione magnetica lo stavano facendo traballare, la spinse piano contro il muro, la baciò tenendole le mani sui fianchi sotto il cappotto di velluto a coste e gli sembrò di non aver mai avuto tra le mani niente di simile…

 

Sofia

Gelava nonostante il riscaldamento acceso e i vetri appannati pieni di condensa.

Sofia sudava freddo, per il dolore, per la spaccatura del velo e la sua rapida caduta. Le si attaccava la pelle ai sedili morbidi, scivolava impacciata non riuscendo a puntellare le mani, cercava di guardare fuori ma c’era troppa nebbia, un muro bianco e totale avvolgeva interamente quell’abitacolo color verde bottiglia nascondendolo alla notte.

Era un ragazzo giovane avrà avuto al massimo trent’anni, era bello con una faccia dura, segnata, una cicatrice lucida gli tagliava a metà lo zigomo destro.

Le stava facendo male, era rabbioso e triste le stringeva i polsi impedendole di muoversi.

Mani grandi, callose, occhi torbidi, pozzi neri che la guardavano appena, Sofia annaspava, quella notte la sua indifferenza e la sua maschera di trucco non bastavano a proteggerla dai rischi della guerra del corpo.

Era il modo in cui le stava addosso, come un lupo in cattività che gioca col cibo prima di mangiarlo, non c’era pietà né desiderio, solo furia cieca e sorda.

Poi la scaricò dietro i cassonetti bruciati, traboccanti di spazzatura che nessuno ritirava più.

Sofia rimase stordita sul ciglio della strada si accovacciò sul marciapiede, occhi secchi come un ventre di terra spaccato dalla siccità.

Bruciando come una pallottola le scivolò sul volto una lacrima, sferica biglia di vetro a precipizio verso la strada, si ruppe senza fare rumore.

 

Erano stati i suoi occhi altrove… Iridi e pupille a specchio con le sue… Lupi persi in foreste di ciglia.

 

Così rannicchiata, abbracciandosi le ginocchia e stringendosi forte, cercò di provare odio, rancore, rabbia.

Non trovò niente di tutto questo solo un diffuso senso di dolciastra e indolente vertigine di paura.

Nelle ore di reclusione tra le quattro mura di quel palazzone di periferia che da settimane era il suo solo spazio possibile si sorprendeva a pensare ai colori che il cielo del suo paese rubava alle pozzanghere trasparenti, ai tetti delle case.

Le venivano in mente le nuvole basse e i dolci di cannella, le tornavano alla mente la madre e la sorella e il loro legame con quella terra spesso così difficile.

Le veniva in mente lei prima di tutto questo, quando pensava che la povertà fosse il problema, quando pensava che per dimenticare, per ricostruire se stessa, sarebbe bastato scappare da tutta quella miseria, pensava a suo padre e al giorno in cui lo perse per sempre…

 

C’era un sole pallido…grigio post industriale che si infrangeva sulle persiane di alluminio…era un sole di carta con raggi di gas…

Abdel

Con Guido si erano conosciuti una sera al bar sotto casa, plastica vetro e occhi a mandorla.

Tutti e due in fila per comprare le sigarette, tutti e due stremati dal lavoro, si scambiarono un paio di occhiate nello specchio dietro al bancone.

Guido gli faceva un po’ paura, così alto e massiccio con quella faccia truce, quella cicatrice sullo zigomo che sembrava una lama di luna o di coltello.

Gli aveva chiesto da accendere e Abdel si era frugato in tasca alla ricerca del fuoco meccanico poi, non riesce neanche a ricordare come, si erano lanciati qualche frase sul quartiere, sul lavoro, Abdel sentì la tensione che inizialmente gli invadeva lo stomaco, sciogliersi piano.

Guido lo prese in giro,dicendogli che se voleva fare il muratore, doveva metter su un po’ di muscoli che così magrolino non lo avrebbe preso a lavorare nessuno.

Rideva, mentre gli dava pacche sulle spalle, Abdel pensava che quella montagna umana era la prima persona in Italia che gli aveva rivolto la parola senza trattarlo come un ladro, uno spacciatore, un criminale qualsiasi, uno straniero.

Dopo quella sera si incontrarono qualche volta, Abdel prese a frequentare, quando non lavorava, la palestra popolare in fondo alla strada, i ragazzi che la gestivano nonostante l’aspetto poco rassicurante erano in gamba, dietro a quelle capigliature strampalate e a quegli orecchini di metallo Abdel trovò uno spazio in cui si sentiva un po’ meno fuori posto…

 

Sofia

Erano appena andati via, Sofia rimane sotto le coperte rannicchiata con gli occhi chiusi, cercando di ritrovare un respiro perso nel caos della rabbia, maledicendo la sua ingenuità, sforzandosi di capire come fosse stato possibile che la promessa di un lavoro normale e la possibilità di costruirsi una vita che fosse solo sua, si fosse invece trasformata in quell’incubo dal quale non sembrava esservi via d’uscita.

Non era più il dolore fisico ormai, a quello ci si era abituata e quasi le mancava quando passava troppo tempo da un pestaggio all’altro, perché almeno si sentiva viva.

Era il resto che le stava morendo dentro.

A volte aveva la sensazione di non riuscire più a provare nulla, si sentiva un’ occupante abusiva di un corpo lasciato galleggiare in un tempo sospeso, senza più la forza di resistere alla resa.

In quel buio mentale la sola cosa che conservava un po’ di luce oltre ai ricordi, era la faccia allungata e scura di quel ragazzo marocchino che la sera prima si era accucciato vicino a lei, appoggiandole le lunghe dite su una spalla senza farla trasalire.

Parlavano lingue diverse eppure era bastato guardarsi, le aveva offerto un cappuccino in uno di quei bar che rimangono aperti tutta la notte e che spesso diventano i non luoghi dell’insonnia, della disperazione e delle sbronze.

Mentre affondava il naso in quella schiuma calda lo guardava in silenzio fissandosi su quella massa di ricci neri come la pece e quegli occhi scuri, profondi e grandissimi che furono in quella notte spaccata un’isola di approdo, la prima sponda da quando aveva preso il mare.

Poi aveva guardato l’orologio doveva tornare altrimenti se ne sarebbero accorti , uscirono per strada, Sofia lo guardò e prima di correre via lo prese per mano e gliela strinse cercando di mettere in quel gesto tutte la parole del proprio monolinguismo emotivo.

Ora, in quel letto dalle molle sfondate mentre sentiva la porta chiudersi dietro i loro giubbotti di pelle, il silenzio riprendeva vita rompendosi in sedie spostate e rumori di cucina. Ripercorrendo quel quarto d’ora rubato alla strada, pensava alla forma della sua paura, a quel lupo feroce che la stava mangiando dentro tenendole la bocca chiusa e il cuore schiacciato.

Pensava che in quel bar aveva cercato di trovare le parole per fargli capire che lei non voleva vivere così ma che non aveva scelta.

Senza rendersene conto era diventata la prigione di se stessa, del suo corpo e delle sue cicatrici, si stava abituando a non pensare ad un dopo possibile, le rimaneva solo la possibilità di immaginare un altrove…

 

Guido

Fermò la macchina sotto casa e rimase fermo, mani sul volante, occhi affogati nel buio denso e senza la luce dei lampioni.

Il battito regolare del cuore non bastava per farlo sentire vivo.

Spense il motore e lasciò ricadere la testa all’indietro, non riusciva a darsi una spiegazione di quello che aveva appena fatto.

Era tardi, stava tornando dall’ennesima assemblea in fabbrica era stanco, arrabbiato, deluso, stremato da quella lotta senza nemico e senza speranza.

La vide ai margini della strada insieme alle altre mentre faceva correre il suo quattro ruote sulla tangenziale.

Sembrava una bambina finita nel posto sbagliato, con quelle gambette magre che traballavano su tacchi di vernice bianca. Senza sapere perché si accostò abbassando il finestrino, lei si avvicinò con un’aria quasi indifferente, gli scagliò contro i suoi occhi magnetici e vuoti allo stesso tempo, senza guardarlo in faccia.

Mentre recitava le battute di rito con una voce sorprendentemente profonda, Guido sentì la rabbia montargli dentro, il suo lupo famelico si stava facendo strada puntando gli artigli sulle pareti dello stomaco.

La fece salire in macchina e parcheggiò in un campo abbandonato nella zona industriale poco più avanti, spense i fari.

Andò così e fu orribile. Tutto quello che era stato per anni e che pensava di aver cancellato tornò su come un rigurgito violento, le fece male perché voleva farle male, perché in quei pochi minuti riversò tutta la sua frustrazione su un corpo inerme di cui stava pagando l’utilizzo, ci fu un attimo, in cui lei lo guardò con un misto di rabbia e dolore facendo tremare il freddo incastro dei loro corpi.

Guido venne scaraventato dalla memoria ai suoi giorni da capo branco, quando i ragazzini più piccoli avevano paura di lui e lui di quella paura per anni si era nutrito cercando di riempire le sue voragini.

Dopo, fumando una sigaretta mentre lei si sistemava alla meno peggio la gonna troppo corta come se improvvisamente si vergognasse la guardò, e quella sua assurda fragilità fece vacillare uno spillo agli angoli degli occhi, se ne liberò immediatamente e la scaricò come un sacco vuoto ai margini della strada con un senso di vuoto dentro che lo spaventò.

Uscendo dalla macchina sotto casa, si appoggiò al cofano e vomitò prima di infilare le chiavi nella toppa del portone.

Più tardi dopo essere scivolato accanto al corpo di Monica che dormiva le si avvicinò piano stringendola a se senza svegliarla, affondò la testa nella sua criniera bionda e il nodo allo stomaco si liberò in un pianto silenzioso e codardo mentre le immagini della macchina gelida e di quella ragazzina con gli occhi color nuvola e pioggia gli ballavano nella testa, facendolo sentire fuori di se.

 

La guerra chiede la resa dei conti, dando fuoco a quello che resta della cenere e delle carcasse dei vinti……………….

LUPI FERITI

 

Abdel

C’è una luce strana in quel quartiere, come se il grigio dei palazzoni tutti uguali, avesse compromesso la luce del sole.

Abdel camminava rasentando il muro, schivando le pozzanghere fangose, mani nelle tasche, testa bassa, bavero alzato per ripararsi dal vento gelido che rimbombava infilandosi nei passaggi tra un palazzo ed un altro, non si accorse neanche del gruppo di teste rasate parcheggiate davanti al solito bar.

<Ehi tu marocchino di merda!>

Abdel rallentò, sapeva che quello non era un buon segno, gli lanciò un’occhiata furtiva, erano troppi e troppo vicini, accelerò… Ce li aveva dietro, il più piccoletto, quello che gli aveva urlato contro, davanti agli altri a fare da apri pista.

Le regole del branco sono uguali per tutti, uomini e lupi, è una sorta di feroce geometria di carne il branco si posiziona velocemente circondando la preda, Abdel non fece in tempo a sgomberare la mente dalla paura, non riuscì a prepararsi, non provò neanche a scappare.

Sentiva il loro fiato sul collo, fu un attimo.

Il primo spintone lo gettò a terra, poi la scarica di calci e insulti che lo investirono si confusero nella sua testa.

< Brutto negro di merda volevi rubarci la piazza vero? Pensavi che non ce ne saremmo accorti ?>

Abdel sentiva solo il sapore ferroso del sangue che gli invadeva la gola, soffocandolo, cercava di coprirsi la faccia rannicchiato in posizione fetale.

< Tu qua non ci puoi spacciare! Hai capito stronzo?>

< Questo è solo un avvertimento. Se ti becchiamo di nuovo sono cazzi tuoi!>

Lo lasciano lì, prima di andare gli sputano addosso.

Abdel non riesce a respirare, le costole gli fanno male, aspetta quelle che gli sembrano ore prima di muovere anche solo un muscolo. Intanto qualcuno gli passa accanto senza fermarsi, per paura, abitudine, indifferenza o tutte queste cose insieme.

Si mette a sedere piano, tastandosi la faccia, per fortuna niente denti rotti.

Sapeva che prima o poi sarebbe successo, era solo una questione di tempo, lo aveva detto a suo zio che non era una buona idea, non in quel quartiere, non senza chiedere il permesso a qualcuno più in alto, ma lui aveva insistito dicendo che era solo un modo per arrotondare perché il lavoro in cantiere non bastava, il visto era scaduto e lui non aveva un permesso di soggiorno, dovevano solo essere prudenti e muoversi con discrezione.

Così Abdel saltuariamente dopo il lavoro aveva iniziato a frequentare i punti di ritrovo del quartiere, quelli meno controllati, sera dopo sera si era fatto degli amici e a questi amici, molto discretamente, aveva fatto sapere che se avevano bisogno di fumare roba di prima qualità ad un prezzo onesto, dovevano solo farglielo sapere.

Aveva funzionato, lentamente si era sparsa la voce e si era formato un giro di clienti costanti e fidati ma ci era voluto poco prima che la notizia arrivasse alle orecchie dei guarda piazza.

Abdel se lo sentiva, erano giorni che camminava con la puzza della paura nelle narici.

Aveva sempre la sensazione di essere seguito.

Alla fine, lo avevano trovato…

 

Sofia

Quella notte pioveva, si gelava.

Da quella monovolume rossa parcheggiata da una decina di minuti nel piazzale di sosta poco più avanti, scesero due ragazze con un ombrello a spicchi colorati.

Si avvicinarono, avevano due facce stanche, erano italiane ma salutarono in rumeno.

Si misero a chiacchierare tirando fuori dallo zaino un termos pieno di tè bollente e zuccherato, erano carine, una piccolina mora con i capelli corti, e poi l’altra più alta, capelli biondi, ricci, lentiggini e occhi nocciola che le ricordavano quelli di sua madre. Erano dell’unità di strada, più tardi compagne più grandi e in Italia da più tempo le avrebbero spiegato meglio, per il momento Sofia accettò il tè e i volantini informativi sulle malattie sessualmente trasmissibili e i preservativi che le due ragazze le lasciarono chiacchierando del più e del meno.

Sul volantino c’era anche un numero di telefono, <è sempre acceso> disse la bionda occhi nocciola <potete chiamare a qualsiasi ora risponde sempre qualcuno>.

Monica, così disse di chiamarsi, mentre parlava la guardava fissa negli occhi come per dirle di più, anche Sofia la guardò e per un momento le venne la voglia irrefrenabile di andare via con loro in quella macchina rossa, farsi portare via, ovunque, non era importante la meta, aveva freddo,fame , sonno e si sentiva braccata dalla terribile paura di non avere scelta.

Le lasciò andare, senza riuscire a dire niente, ad un certo punto smise anche di guardarle in faccia, scacciò il fumo della sigaretta da davanti al viso con un gesto annoiato e meccanico, come se non le importasse nulla.

Andando via dissero che sarebbero tornate, salutarono con la mano e scomparvero dietro uno sportello e una tenda di pioggia.

A Sofia tremano le gambe le viene quasi da piangere mentre sale sulla macchina di uno dei pochi clienti della serata….

La trattativa sul prezzo è breve, come al solito, d’altra parte loro costano poco.

Quel tizio con il vestito da impiegato puzza di alcool scadente, ansima come un cane e mentre si agita su e giù sopra di lei il riporto si sposta ,lasciando intravedere una lucida testa pelata. Sofia senza rendersene conto sorride e poi ride, ride come non rideva da mesi, ride con cattiveria e disprezzo per quel ridicolo, misero ometto, che aveva bisogno di pagare per sentirsi sicuro di se.

Sofia continua a ridere anche dopo che il ridicolo ometto ferito nell’orgoglio la colpisce forte facendola sanguinare, non importa quante botte prenderà, nessuno schiaffo e nessuna violenza basteranno per farle rispettare quel branco disordinato di uomini che usano la violenza per soddisfare la propria infelicità.

 

Guido

Gli aveva tirato un destro in piena faccia e gli aveva rotto il naso.

Avevano dovuto tenerlo in cinque per farlo calmare, altrimenti l’avrebbe ammazzato, quello stronzo.

Erano stati venduti come una partita di droga di pessima qualità.

Svenduti, neanche ci fossero i saldi.

A lui il sindacato non era mai piaciuto.

Spesso si era chiesto per quale motivo dovessero essere rappresentati da gente che non si era mai fatta neanche un giorno di catena di montaggio, che proprio non immaginava cosa volesse dire perché al massimo aveva cambiato una risma di carta nella stampante degli uffici di qualche dirigente.

 

A volte la lotta è la sola cosa che resta……..

A volte la lotta non riesce ad essere un circolo….

A volte della lotta rimane solo la cenere….

 

Gli stabilimenti della fabbrica erano grigi come il quartiere, come le facce di chi, in quelle strade della zona industriale, ci era nato, cresciuto e spento piano, adattandosi al degrado strutturale, abituandosi alla bruttezza e spesso riproducendola in piccoli gesti quotidiani… Meccanica e banale brutalità.

Guido da ragazzino ci passava davanti quasi tutte le mattine, suo padre, ci aveva lavorato per qualche anno ma poi lo avevano licenziato e lui aveva cominciato a bere, o almeno questa era la giustificazione che dava sua madre. Guido crescendo si convinse che forse lo avevano licenziato proprio perché beveva…

Il suo odore, dopo barba, tabacco e sambuca, era quello che gli era rimasto inciso nella testa, come un tatuaggio di memoria.

Guido odiava quell’odore, gli faceva tornare alla mente gli anni delle urla e dei pianti silenziosi di sua madre, imprigionata come un animale in trappola che più si agita più fa stringere la tagliola.

Per anni, Guido aveva vissuto come lei, rasentando i muri, cercando di respirare il meno possibile, aveva subito come lei per anni, le angherie e le botte di quell’uomo irascibile, così deluso dalla vita da pensare che la colpa della sua infelicità fossero sua moglie e suo figlio.

Ci fu una sera, Guido avrà avuto tredici, forse quattordici anni, era estate e Agosto infuocava le strade e la notte.

Se ne stavano tutti a ciondolare per strada senza riuscire a dormire, fumando pigramente cilum tra le lenzuola stese nei cortili.

Tornando a casa salendo le scale sentì le urla ancora prima di aprire la porta.

Rimase a guardare per qualche minuto fragile, sul confine della soglia e della rabbia, quel grottesco ballo fuori tempo.

Qualcosa scattò e mettendosi in mezzo tra sua madre e suo padre, sapeva che non sarebbe più potuto tornare indietro.

Lo colpì con tutta la forza che aveva.

Urlando con tutta la voce che aveva.

Per lo stupore, suo padre, rimase immobile, guardandolo con una strana luce negli occhi arrossati, provò a reagire avvicinandosi per colpirlo ma Guido non gli diede il tempo colpendolo di nuovo questa volta con il porta ombrelli accanto alla porta. Quella sera finì così, tra sedie rovesciate e una dichiarazione di guerra tra due lupi .

Gli anni che seguirono si costruirono su quel momento, Guido si chiuse sempre più in un silenzio rabbioso, a casa ci stava il meno possibile ma sapeva che da quella sera suo padre non ci provò più, non la toccò più, aveva avuto paura di lui e questo a Guido piaceva.

Nacque così il personaggio, in quella sera bollente e densa.

Con il tempo lo fece diventare sempre più duro e minaccioso e gli scontri con suo padre e con il mondo, divennero più frequenti e rumorosi.

Guido decise che per non farsi fregare dalla vita e dalla strada sarebbe dovuto diventare un capo branco, testa bassa, prendendo a morsi quello che gli capitava senza chiedersi niente e senza guardare mai indietro.

<Guido datti una calmata!>

Antonio lo stava spingendo via strattonandolo per il giubbotto

<Ti farai arrestare così. Piantala cazzo!>

A guido era salito il sangue al cervello, quando quel tipo con la faccia da topo, aggiustandosi gli occhialetti di tartaruga sul naso, li aveva guardati proponendo una trattativa a ribasso come unica forma di accordo possibile.

I suoi compagni erano rimasti immobili, statue di sale in una foto di gruppo e anche lui per un momento rimase imbambolato.

Smise di pensare e si buttò addosso a quel delegato sindacale che non solo aveva cercato in tutti i modi di impedire lo sciopero ma che ora li stava praticamente ricattando.

Lo prese per il bavero e lo attaccò al muro con una violenza che pensava di non possedere più. Quei minuti da lupo lo fecero sentire vivo e senza pelle, una sensazione di prevaricazione e di desiderio violento lo investì, dilagando in ogni muscolo contratto.

Sentì che i suoi compagni lo tiravano via di peso, impedendogli di picchiarlo, fino a farlo diventare un sacchetto vuoto.

<Ti manca solo una bella denuncia per aggressione a te>.

<Non vale la pena prendersela tanto Guì…..Nun te preoccupà! In qualche modo ne usciamo da sto schifo >

Guido, respiro di piombo e sudore gelato sulla fronte, si lasciò scivolare contro il muro, chiuse gli occhi e si aggrappò al braccio massiccio di Antonio che rimase lì accanto a lui, senza lasciarlo andare.

 

Abdel

In quell’appartamento al sesto piano ci vivevano in tredici, ognuno di loro pagava una quota di ottanta euro al mese per il posto letto.

Abdel dormiva in una stanza, con altre sei persone. La sera stendevano i materassi e ognuno di loro si ritagliava delle piccole porzioni di intimità, assolutamente solitaria. Ci si rinchiudeva con la paura che qualcuno degli altri, si potesse riconoscere negli occhi persi del proprio vicino di materasso.

Si aspettavano tutti qualcosa di molto diverso da quello che stavano invece vivendo.

Sognavano tutti un paese, che non per forza avevano immaginato essere l’Italia, in cui potessero avere le possibilità che il loro cielo, per quanto blu, sembrava proprio non poter offrire.

Andare via, emigrare verso nord, era quasi uno status. Una condizione del sangue. Una necessità dell’anima.

Abdel non voleva fare la fine di suo padre che aveva allevato capre tutta una vita, combattendo giorno dopo giorno contro qualcosa di più profondo della semplice povertà.

Suo padre aveva gli occhi verde oliva e le mani secche.

Suo padre era un pastore, leggeva le indicazione del vento tra sabbia e rocce.

Abdel aveva sempre pensato che se suo padre avesse fatto un lavoro diverso, magari in una città grande, a lui non sarebbe cresciuta negli anni la voglia di fuga che alla fine lo aveva spinto verso un idea più che verso un luogo fisico.

L’adrenalina che gli correva nelle vene pensando a quello che sarebbe potuto essere della sua vita in Francia o in Italia, o in qualsiasi altro paese libero e occidentale lo teneva sveglio la notte.

Da suo zio arrivavano descrizioni impressionanti di quanto la vita al di là di quel braccio di mare fosse quasi troppo incredibile per essere raccontata.

Quando disse a suo padre che voleva partire, sapeva che un pezzetto dei suoi occhi verde oliva, sarebbe diventato più scuro ed immobile.

Non alzò la voce, non lo picchiò, non c’era rabbia nel suo lasciare la stanza solo una triste delusione strisciante che creò una distanza profonda e in espansione.

Suo padre non parlava del fratello emigrato in Italia tanti anni prima, Abdel non lo aveva mai sentito commentare i racconti che arrivavano da oltre mare.

Lo lasciò andare per non perderlo, Abdel se ne accorgeva solo ora a centinaia di chilometri da casa, dopo mesi di stravolgimenti che poco avevano a che vedere con quello che aveva costruito nella sua testa di ventenne, costretto tra le montagne aspre a pascolare capre.

Ora dopo le giornate passate in cantiere a sgomitare tra altri uomini stanchi e coperti di polvere, o a vendere fumo tra quei casermoni così simili a carceri con i panni stesi alle finestre, ripensava a quell’uomo timido e forte che aveva capito molto prima di lui, ma per non limitare la sua libertà non aveva detto nulla.

Abdel rigirandosi nella notte sul suo materasso un po’ troppo corto, pensava che ora avrebbe avuto le parole per costruire ponti tra lui e suo padre.

Come se la distanza avesse reso limpido e disteso quello che prima era un groviglio di incomunicabilità.

 

Sofia

Ci tenevano le provviste, i sacchi di farina e la poca carne secca che riuscivano a trovare in città.

Da piccola in quella cantina sotto il pavimento di legno del salotto ci aveva giocato a nascondino, trattenendo il fiato per non farsi trovare dietro i sacchi ruvidi nascondendo il naso nel grano. Ci si nascosero lei, sua madre e le sue sorelle quando vennero a prendere il padre.

Non era chiaro il motivo, quando li vide arrivare dalla finestra, disse loro di nascondersi in cantina e di non uscire per nessuna ragione. Le abbracciò, e uscì seguendo i due uomini in divisa. Non lo videro più.

Suo padre era alto con le spalle larghe e le braccia robuste, mani piene di cicatrici, barba bionda e due occhi grandi e un po’ tristi che lei aveva ereditato.

Vivevano fuori Bucarest, in un piccolo paesino sul fiume Dâmboviţa.

Negli anni le persone erano andate via verso la città per cercare lavoro, quelle terre, non permettevano la sopravvivenza, non più. Dopo la caduta di Ceausescu le persone si spostarono in massa verso Bucarest come presi da una strana febbre di movimento.

Quelli che restavano, come loro, lo facevano per un ‘esigenza profonda, un legame con quella terra, simile ad un cordone ombelicale.

Sua madre e suo padre non avrebbero mai potuto abbandonare lo scorrere del fiume che li faceva addormentare o l’odore di corteccia dei boschi.Quella era casa loro e la povertà non sarebbe mai stata abbastanza per mandarli via.

Rimasero nascoste nel buio della cantina per un tempo indefinito dopo che presero il padre.

Senza dire una parola, quando risalirono le scale scricchiolanti facendo capolino nella casa deserta, vennero investite dal fragore assordante ed insopportabile dell’assenza.

Rimasero così, stordite si aggiravano per la casa, in attesa del suo ritorno. Sua madre si chiuse in un silenzio rassegnato e umiliato, da vedova senza una buca nella terra in cui versare lacrime.

Sofia passò gli anni successivi ad immaginare il ritorno di un fantasma, sentendosi prigioniera di quel fiume scuro e di quella cittadina ormai sempre più vuota che sua madre non voleva lasciare.

Quando suo cugino che viveva a Bucarest le venne a trovare, proponendogli di partire per l’Italia, per lavorare, non le sembrò vero. Era lui che organizzava il viaggio su dei pullman e poi si sarebbe occupato, sempre lui, dell’alloggio per i primi tempi, giusto il tempo di sistemarsi.

Mariana, rimase lì. Sua sorella non volle partire, <Qualcuno deve pur restare. Non si può abbandonare tutto così. Per andare dove? E per fare cosa poi?>

Sofia pensò che se lei fosse partita, avrebbe potuto ricostruire se stessa colmando il vuoto lasciato da quel pomeriggio passato in cantina mentre portavano via suo padre. Forse così, avrebbe potuto dare una possibilità anche sua madre e sua sorella che da quel giorno, fecero diventare la piccola casa e il villaggio stesso, una sorta di strano cimitero o luogo di memoria che lentamente divenne soffocante come una busta di plastica in testa stretta sul collo.

Sofia aveva amato suo padre, non passava giorno, in cui non pensasse a lui ma doveva, voleva, vivere al di la di quel ricordo, a costo di dover mettere una distanza fisica tra la sua infanzia e quello che sarebbe diventata.

 

Guido

Si erano sposati sotto un cielo rosa scuro, alla fine non tanto perché pensassero che facesse la differenza, Guido lo aveva fatto per sua madre che in fondo ci sperava, e Monica senza dare troppo peso alla cosa aveva capito. Avevano festeggiato con pochi amici intimi sorridendo dei loro vestiti eleganti e chiesti in prestito.

Sarebbero stati insieme lo stesso, avrebbero ridipinto ugualmente insieme, le pareti della casa presa in affitto tre palazzi più avanti da quella dove erano cresciuti. Anche senza quel “Si” in Municipio.

Avevano pensato ad andar via, Guido soprattutto, ma il lavoro di entrambi continuava a tenerli legati a quel quartiere, a quelle strade piene di buche che alla fine conoscevano talmente bene da poterle evitare a memoria.

Avevano messo insieme i pezzettini della loro storia, rimescolandoli con i residui metallici che entrambi avevano raccolto durante l’infanzia grigia, vissuta nel margine, con la speranza un giorno, di poter tirare il fiato.

Per qualche anno Guido pensò di avercela fatta, si convinse che i lupi feriti del suo passato avessero cambiato foresta, pensò che Monica fosse “la cura”, il rimedio alla sua rabbia e al suo ripiegarsi silenzioso e violento.

Si sentiva a casa e al sicuro come non si era mai sentito prima e come forse non si sarebbe sentito più.

La domenica la portava al mare, anche quando pioveva perché lei adorava tuffare gli occhi nella schiuma e parlargli, sfidando il vento, del suo lavoro e di tutto quello che avrebbe voluto fare per rendere l’unità di strada qualcosa che riuscisse ad andare al di là della semplice riduzione del danno.

Guido ascoltava la sua voce roca e concitata, affascinato e spaventato insieme da tutta quella determinazione lucida che metteva in discussione l’idea stessa dell’impotenza.

Ora che i lupi erano tornati a mangiargli le viscere, pensava a quei pezzettini di vita insieme, cristallizzati nella memoria.

Faticava a riconoscere la sua vita. Più lei cercava di capire, più la sua rabbia montava e con la rabbia cresceva anche la voglia di distruggere il suo obbediente adeguamento alla vita.

Passando notti insonni fumando sigarette e bevendo un pessimo caffè, mentre faceva i turni di guardia alla fabbrica occupata, circondato da uomini stanchi e con la paura di perdere tutto, si convinse che qualcosa dentro di lui fosse andata perduta.

La violenza è una cosa semplice, e non sa chiedere scusa.

Antonio gli si avvicinò silenzioso, aveva la barba lunga e gli occhi un po’ cerchiati.

<Secondo te quanto ci vorrà prima che arrivino i Caramba in tenuta antisommossa?> Rideva, ma solo con la bocca, gli occhi rimasero fissi a cercare una corda nel buio senza luna della loro lotta infranta.

Guido si concesse un sorriso sinistro <Quando succederà saremo pronti>.

 

I cieli cadono sotto corpi speciali e nuvole minate……

universi di carta assorbente

succhiano il sangue delle parole perse …..

restano i vortici della cenere che avvolgono la foresta dei lupi in gabbia….

si respira a stento perdendo il nord …

si piange fuoco….

feriti in trincee di plastica e cemento…

non bastano gli occhi per guardare

questo povero mondo muto di fronte alla nudità…

si rischia di più a camminare senza pelle…

Fumo dalla riserva….

 

Abdel, Guido, Sofia

Abdel metteva un piede davanti all’altro, il cappello ben calato sulla fronte, i lividi erano quasi scomparsi e i dolori alle costole non gli rendevano più così doloroso respirare.

Era l’alba, si dirigeva con suo zio verso la piazza del reclutamento sperando di lavorare.

Pensava a Sofia così intensamente da isolarsi completamente da tutto quello che succedeva intorno a lui, suo zio parlava ma lui non lo stava ascoltando, limitandosi ad annuire di tanto in tanto.

Come avrebbe fatto a ritrovarla?

Sapeva solo il suo nome ma non aveva idea da dove iniziare per cercarla. Poteva essere ovunque e poi anche ammesso che l’avesse trovata, come avrebbe fatto a portarla via?

 

Guido tornava dalla fabbrica andando incontro ad un’alba lattiginosa, opaca, opprimente come una gigantesca mano bianca e ovattata che lo schiacciava verso il basso. Era stata una notte faticosa, i dubbi e le incertezze che per giorni avevano serpeggiato nelle loro assemblee,li stavano dividendo, senza che se ne accorgessero erano tutti alla ricerca di un capro espiatorio, uno stronzo qualsiasi cui dare la colpa di quel fallimento collettivo. Si chiese se forse non ne avesse bisogno anche lui, per darsi tregua.

 

Sofia, era pigiata insieme alle altre, in quelle macchine che ogni notte le traghettavano dall’appartamento alla strada, andata e ritorno da e per l’inferno. L’alba, di vetro spesso e nebbioso le stava invadendo gli occhi e il cervello, guardava fuori dal finestrino per non pensare, con le mani gelate abbandonate sulle gambe.

 

Si accalcavano tutti intorno al furgoncino bianco, sgomitando stancamente come tutte le mattine.

Abdel si mise in mezzo sporgendosi verso l’uomo algerino che guidava, era lui a decidere chi avrebbe lavorato quel giorno.

 

Guido, li vide da lontano, riconobbe Abdel in quello strano e disarmonico balletto di uomini imbacuccati che gesticolavano a voce alta.

Abdel gli piaceva, era un tipo in gamba, anche se forse un po’ sprovveduto, gli ispirava una simpatia istintiva come se ci fosse qualcosa nel suo essere così altrove, da renderli simili.

Gli passò accanto e lo salutò con il suo solito modo brusco più simile ad un latrato che ad un saluto vero e proprio.

 

Scendendo dalla macchina, alzando la testa per un momento nel breve tragitto verso il portone, lo vide. Era in mezzo a tutti quei cappelli di lana intorno al furgoncino bianco, così alto e dinoccolato come la sera prima. Sofia pensava che chissà quando lo avrebbe rivisto.

In realtà si era convinta che non lo averebbe rivisto più, pensava che sarebbe stato un treno perso come tanti altri.

Si concentrò, con tutta le sue forze, sperando che lui alzasse la testa e guardasse nelle sua direzione.

 

Abdel salutò Guido ricambiando il cenno della testa, magari si sarebbero visti più tardi al bar.

Magari poteva chiedere a lui un consiglio su come ritrovarla.

Guardò leggermente più in là, ormai distratto e mentre suo zio lo tirava per la manica perché dovevano salire sul furgone e velocemente prima che il capo cambiasse idea, la vide.

Insieme ad altre ragazze dall’aria stanca entrava nel portone accanto a quello in cui abitava lui.

 

Guido la incrociò sul portone insieme ad altre ragazze tutte più o meno giovani, tutte più o meno belle, tutte con la faccia di chi non ha dormito. Il sangue del lupo si gelò.

 

Sofia fece finta di niente, lo aveva riconosciuto subito con quella cicatrice sottile e lucida, nonostante le tremassero le gambe ripensando a quella sera rimase impassibile, abbassò gli occhi puntandoli tenacemente sulle sue scarpe di vernice bianca.

 

C’è una dissolvenza di carne ridicola nelle strade incrociate per sbaglio……

si rimane senza prede e senza predatori in uno sfondo di alberi grigio cemento ….

 

 

 

LUPI IN GABBIA

 

In quel bar c’era odore di ammoniaca e sudore. Tavolini in finto marmo e sedie nere di plastica. Un televisore al plasma penzolante dal soffitto, trasmetteva un telefilm cinese senza audio. Guido ordinò una birra e si fissò sulla schiuma del liquido ambrato mentre Abdel, gomiti sul bancone e sguardo vacuo, cercava di spiegargli un po’ a parole un po’ a gesti, la storia della ragazzina con gli occhi grandi e del suo folle progetto di fuga. Guido pensò che quel marocchino era matto come un cavallo.

In quel bar c’era uno strano odore di ospedale, di vestiti sintetici non lavati e di gente che aveva lavorato in cantiere come lui.

Aveva incontrato Guido tornando a casa dal lavoro e si erano fermati a bere qualcosa. Mentre giocherellava con il bicchiere pieno di succo di pompelmo, la gola chiusa, incapace di bere, Abdel aveva iniziato a mettere insieme la sua storia e quella di Sofia chiedendo a Guido un consiglio su come portarla via ora che l’aveva trovata. Non poteva essere un caso se abitavano negli stessi casermoni, era un segno. Forse la ragione del suo viaggio si sarebbe risolta così, per la prima volta Abdel sentì di avere uno scopo, un compito da portare a termine. Non importava quanto sarebbe stato difficile o pericoloso, era pronto, finalmente lo era, per una giusta ragione. Tutto questo non riusciva ad esprimerlo in italiano, gli venivano le frasi in arabo e faceva un’enorme fatica per farsi capire da Guido che lo fissava con l’aria tra il truce e il preoccupato.

Doveva sembrargli un matto, che vaneggiava di strane storie di rapimenti e prostituzione.

Nel piccolo bar davanti alla fermata del solo autobus che collegava quel quartiere satellite con il resto della città, c’era parecchia gente verso quell’ora. La gestione cinese non aveva scoraggiato chi viveva in quei palazzi e cinese non era.

I prezzi bassi e l’apertura quasi ventiquattro ore su ventiquattro lo rendevano un buon punto di ritrovo. Tra dosi eccessive di caffè corretti e Campari, Guido ed Abdel erano una coppia parecchio strana. L’ex picchiatore di quartiere, il violento che alla fine aveva preferito il lavoro in fabbrica al giro di potere che reggeva gli equilibri sottili ma invalicabili di quella terra di nessuno, che confabula con il ragazzino marocchino. Quello, che aveva pestato i piedi a chi di quegli equilibri sottili era alla base.

Uno strano spettacolo.

Tutti continuavano a parlare tra loro, come se nulla fosse ma con un orecchio teso verso quei due.

Guido prese Abdel per un braccio, <vieni andiamo via>.

Pagò, trascinandolo fuori dalle luci al neon,risucchiati in una notte di inchiostro spaccata a metà da una palla bianca piena di buchi.

Scavò nelle tasche, ne tirò fuori un pacchetto di MS morbide

e un accendino nero. Se ne accese una con un gesto meccanico

chiudendo gli occhi per qualche secondo, inspirando e buttando fuori la prima boccata di fumo, in silenzio.

<Tieni, fuma va.>

Guido fece saltare fuori con un colpetto preciso un’altra sigaretta.

<Grazie.>

Fumavano. Guido lentamente, come se ad ogni tiro, fosse legato un respiro e un pensiero, Abdel rapido, vorace, consumando carta e tabacco senza riuscire a restare fermo.

<Via, lei vuole andare via. Lo so>

<Si Abdel ho capito. Ma via da dove? Sei veramente sicuro di quello che dici?>

< Sicuro. Si.>

<Abdel senti, io non so in che cazzo di impiccio ti stai a caccià, ma stai attento. Stai attento a quello che fai, perché rischi grosso a mettermi in mezzo ad una storia così!>.

Avevano abbassato la voce, come se i muri avessero le orecchie.

< È pericoloso? No importa. No importa tutto è pericoloso. Anche camminare su ponteggi al cantiere è pericoloso! O no?> Guido non rispose, aveva riconosciuto negli occhi di quel ragazzo che conosceva appena, una sorta di coraggio senza rete di protezione, senza filtro. Provò quasi invidia per tutta quell’incoscienza determinata.

<Stammi bene Marracash io devo andare>

<Va bene Guido. Ci vediamo in giro>

<Fai attenzione e se hai bisogno di aiuto chiamami>

<O.K. Grazie>.

Si sciolsero, salutandosi con un paio di pacche sulle spalle.

Guido entrò nel buio del portone fece le scale a piedi, l’ascensore era rotto, di nuovo.

Al quarto piano incrociò due tipi enormi, che scendevano veloci le scale, avevano una brutta faccia. Guido li guardò, pensò che potevano essere loro i gorilla di cui parlava Abdel, rallentò ma quelli erano già spariti nel labirinto dei gradini.

 

Il latte scivolò giù in gola freddo e denso, forse era scaduto da qualche giorno…

Sofia richiuse la bottiglia e il frigo, si accese una sigaretta e si accoccolò sul davanzale accanto alla finestra, spostando leggermente la tenda ruvida si perse a guardare fuori.

La notte stava invadendo piano un fazzoletto di cielo rosso scuro sopra le sagome nere dei palazzi. Le vene viola delle nuvole si aggrovigliavano intorno al disco calante del sole. La luce livida era imprigionata dal cemento, in strada era già scuro.

<Sofia! Posso?> Luda le si era materializzata accanto. Erano arrivate insieme, si erano conosciute durante il viaggio in pullman da Bucarest, era la sola amica che aveva.

La sola persona che sembrava capirla in quel circo di disperate marionette costrette a mettere in scena, giorno dopo giorno, un pessimo spettacolo di umanità.

< Certo che puoi. Vieni.> le fece un po’ di posto in quella specie di nido nascosto dalla tenda.

Luda aveva i capelli biondi a caschetto e due fessure di inchiostro al posto degli occhi, gambe pallide ed infinitamente lunghe.

Per lavorare usava una parrucca rosso fuoco che arrivando a coprirle i fianchi stretti da atleta, le faceva sembrare la testa in fiamme. Luda diceva di avere ventidue anni ma Sofia sapeva che a stento arrivava ai diciotto.

<A che pensi? E’ qualche giorno che sei diversa. Che ti è successo?>

<Che mi è successo? Niente, niente di particolare>

<Pensi ancora a quel ragazzo vero? A quel marocchino?>

< Abdel, si chiama Abdel. Si ci penso. Ogni tanto ci penso, ma non proprio a lui in particolare, è la prima persona con cui parlo da quando siamo arrivate, che non sia uno che vuole pagare per divertirsi un po’. Non è così strano che mi venga in mente. È stato gentile. Anzi no, è stato qualcosa di diverso, sembrava che sapesse esattamente quello che provavo in quel momento, è stato bello. Parliamo due lingue così diverse eppure. Non lo so non abbiamo avuto bisogno di tante parole, capisci in che senso?>

<Io capisco solo che tu hai qualcosa in mente e non me lo vuoi dire… Se decidessi di provare a scappare me lo diresti vero?> Le piantò gli occhi addosso, con un’intensità violenta.

< Non mi puoi lasciare sola. Se trovi il modo per andartene mi devi portare con te!>.

Si guardarono, fin quando Sofia non distolse lo sguardo e lo ributtò fuori dalla finestra.

<Si certo che ti porto con me. Ma tanto non posso andarmene.

Nessuna di noi può andarsene, tanto vale abituarsi>.

Il disco del sole era colato giù…

 

Polpette al sugo. Guido adorava le polpette al sugo. Ma quella sera la crosticina dorata, della carne prima fritta e poi stufata, non servì a placare la sua inquietudine.

Erano settimane che lui e Monica , riuscivano a cenare insieme. Aveva l’aria stanca, era dimagrita, le ballavano le gambe dentro i pantaloni tenuti su con una cintura di cuoio che le aveva regalato ormai una vita fa. Era sempre bella però, anche con le occhiaie e le mani nervose. Rimase imbambolato a fissare i suoi movimenti rapidi in cucina.

<Guido ci sei? Mi stai ascoltando?>

<Eh si… Si certo che ti ascolto… Stavo solo….>

<Pensando ad altro. Stavi pensando alla fabbrica vero?>

<Si scusami hai ragione ero distratto.>

<Senti Guido, Antonio me lo ha detto quello che è successo con quello del sindacato>.

Ora lo fissava seria, come quando avevano vent’anni e lui faceva a botte in cortile. Come allora non lo stava giudicando.

< Ahò quando si dice gli amici! Gli avevo detto di non dirti niente se ti incontrava. Non è stato niente di grave. Non mi ha denunciato, avrebbe rischiato di non tornare a casa sulle sue gambette del cazzo!>

<Ma ti sembra questo il problema Guì. Allora siccome non ti ha denunciato non c’è nessun problema, gli hai rotto il naso! Lo hai aggredito. Da quanti anni era che non picchiavi qualcuno eh?! Cos’è? Ti mancava vedere la paura negli occhi della gente?>

<Si mi mancava va bene? È un problema?>.

Lo disse sbattendo un pugno sul tavolo, facendo tremare i piatti di polpette che schizzarono sugo sulla tovaglia di plastica. Lo disse alzando la voce, e lui con Monica non alzava mai la voce.

Era il loro patto non scritto: lui con lei non doveva alzare la voce.

<Scusa non volevo>.

Si passò una mano sulla superficie di capelli cortissimi, cercando di allentare la tensione.

Monica lo guardava, le braccia talmente conserte da dare l’impressione di avercele incollate sotto lo sterno, sembrava vederlo per la prima volta dopo giorni.

Si stava chiedendo come non si fosse accorta in quelle settimane del cambiamento in corso. Aveva pensato che fossero l’ansia per il lavoro e la stanchezza prima dello sciopero, poi dell’occupazione, ad aver acuito certi atteggiamenti e certi silenzi, ma ora c’era molto di più di fronte a lei.

Non era solo il passato che tornava, una strisciante e nuova forma aveva preso la sua rabbia.

<Guido calmati, non è da noi tutto questo, possiamo parlare.

Tu con me puoi sempre parlare, non devi difenderti lo sai.>

<Si lo so. Ma infatti non mi difendo.Tu non c’entri, per una volta questo dipende tutto da me.>.

Guido si sentiva in trappola in quell’appartamento così voluto e amato, per la prima volta tra gli schizzi di sugo e meteore di carne macinata, stava realizzando il complicato disegno che aveva preso la sua vita.

La sua strada per l’espiazione lui l’aveva fatta tutta, passo dopo passo, aveva scuoiato il lupo dopo averlo ferito a morte, o così gli piaceva pensare.

Si chiedeva allora, cosa fosse sfuggito al taglio con il passato e se lo chiedeva anche Monica di fronte a lui, ne era sicuro, anche se non si lasciava sfuggire nulla, neanche un respiro di troppo, per paura di fare rumore.

Era talmente carica di tensione, che quasi ne poteva sentire il calore. Due estranei, intrappolati in una cucina economica, con le tendine chiare alle finestre, i piatti viola con il bordo turchese, le foto delle vacanze attaccate al frigo con strane calamite.

Guido non riconosceva più nulla né della casa di cui aveva montato ogni pensile né della giovane donna che fino ad allora riassumeva con una pericolosa densità il suo orizzonte, quello che era stato e quello che sarebbe diventato con lei.

<Monica è meglio se mi faccio un giro!>

<No, non è meglio se ti fai un giro. Non è meglio per niente!>.

Lei si era avvicinata mettendogli le braccia intorno alla vita e guardandolo da sotto in su, con un’aria triste e seria insieme.

Guido chiuse gli occhi per un momento, lei era così vicina sentiva il suo odore, di lavanda e sapone di Marsiglia, sentiva il solletico dei suoi ricci sotto il mento.

La sua rabbia vacillò.

<Ehi. Dimmi che ti succede amore mio>, aveva abbassato il tono della voce, le parole ormai le sussurrava.

Guido le mise le mani nei capelli e la tirò a se piano, tra il sugo delle polpette che non avevano mangiato e i bicchieri colorati si baciarono a lungo. Pur sapendo a memoria le mappe dei loro corpi si muovevano a tentoni come se fosse tutto nuovo per entrambi.

Guido le sfilò la maglietta blu e le slacciò la cintura, la spinse delicatamente contro il piccolo tavolo della cucina. Si perse nella fossetta delle sue clavicole, poi lei lo abbracciò, stringendolo come se volesse entrare dentro di lui, fondersi in un corpo solo, cercando di mettere in quella stretta tutte le cose che non riusciva più a dire forse neanche a pensare.

Più tardi, a letto, Guido si trovò a fissare il soffitto con il respiro della consapevolezza che niente sarebbe più potuto essere come prima.

 

Abdel si accorse di non esistere quel pomeriggio freddo e luminoso in cui si trovò a vendere sciarpe e borse false in centro.

Uno dei ragazzi con cui viveva aveva trovato una giornata di lavoro presso una ditta che faceva traslochi, gli aveva proposto di sostituirlo come ambulante, lui aveva accettato, per i soldi avrebbero fatto a metà.

Abdel prese il 779 che passava una volta ogni ora e mezza e che univa due città, quella grigia e scrostata della periferia con quella di marmi, statue e vetrine. Dentro quel tubo di lamiera che strideva ad ogni frenata attraversò il confine tra quello che fino a quel momento era stato il mondo e quello che c’era al di là di quei quartieri tutti uguali.

Termini…

Migliaia di piedi che calpestavano il suolo, una folla incredibile di gente di ogni tipo, sciami umani si muovevano ad ondate dentro e fuori la stazione, da una parte all’altra della strada. Abdel si muove ai margini, camminando svelto contro il muro, seguendo il perimetro della stazione senza farsi distrarre troppo, tutta quella luce lo stordisce.

Si porta dietro, caricato sulle spalle, il pesante borsone pieno di cinture, portafogli, sciarpe di finta seta e borse più piccole, da vendere a Piazza di Spagna.

Metro… Buio… Aria calda e consumata… Persone… Contatto umano obbligato… Luce al neon azzurrina che punge gli occhi… Sudore… Una, due, tre fermate… Di nuovo buio e caldo…

Aria fredda.

Porzione rettangolare di cielo terso tra i palazzi antichi, mangiati dallo smog. Abdel pensa che quello sia un altro luogo, con una luce diversa, è il sole che sembra diverso, non più grigio e sbiadito. Si sente in un’altra città, con altre persone che la vivono e che l’attraversano.

Come lui altri hanno steso il lenzuolo bianco ai lati dei marciapiedi, allineando con precisione la merce.

Abdel pensa di essere nel posto sbagliato, forse non è capace di vendere sorridendo e invitando turisti e passanti ad avvicinarsi. Si sente ridicolo mentre se ne rimane lì arrampicato sulle sue gambe troppo lunghe, le immagini dei mercati in Marocco si confondono con quel presente così distante. Una volta al mese accompagnava suo padre a vendere le pelli di capra lavorate a mano nei grandi mercati della città. Si affollano veloci le immagini dei vicoli, talmente stretti che il sole non riesce ad infuocare la terra, talmente affollati che a stento è possibile muoversi, si striscia tra una persona e l’altra più che camminare. Il caos di colori, odori e dialetti diversi in cui semplicemente ci si perde, lasciandosi trascinare dal rito della contrattazione sul prezzo. Abdel aveva sempre ammirato l’abilità di suo padre, che da taciturno e riservato si trasformava in un eccellente venditore.

<Ehi amico datti una mossa!>.

Un ragazzo alto e nero come la pece gli aveva dato una gomitata, Abdel si rese conto di essere rimasto fermo impalato, come uno struzzo senza buca dove nascondere la testa.

Impacciato si mise a sistemare la sua postazione. Lo fece lentamente come a voler ritardare qualcosa per cui forse non era pronto.

Alla fine le sciarpe sono in ordine cromatico e le borse in ordine di grandezza. Qualcuno si ferma e chiedere il prezzo, Abdel li aveva visti fino ad un momento prima con il naso incollato alle vetrine lussuose. Ora cercano nelle sue copie qualche difetto visibile per poterle pagare meno.

Abdel, ebbe per un momento la sensazione di essere tornato in Marocco, solo che quella gente non lo guardava in faccia e non parlava arabo. Si abituò dopo qualche ora alle ragazzine con i capelli lisci, incollati agli angoli della testa con mollette voluminose a forma di rosa, a tutta quella matita nera sugli occhi, al loro traballare insicuro su scarpe che male si adattavano alla strada irregolare di sampietrini.

Si faceva distrarre dagli odori, quelli delle persone che curiosavano davanti alla sua bancarella improvvisata e quelli delle castagne arrostite, l’aria gelida odorava di quella rarefatta moltitudine di corpi a passeggio, senza un bisogno evidente…

 

Lo specchio stretto e lungo del bagno le restituiva un corpo in affitto che a stento riconosceva. L’aria che respirava le aveva mangiato i fianchi e scavato le costole.

Nuda, si fissava, rendendosi conto che le lunghe braccia e la pelle trasparente parlavano ormai da giorni una lingua diversa dalla sua. La sua lingua madre si era sporcata di grigio periferico cielo sfondato. Poteva vedere la ragnatela delle vene celesti, che lente pulsavano piano come pigri fiumi sotterranei. Sofia si strofinò con l’ asciugamano i capelli bagnati, ciocche di rame bruciato le si incollavano sul collo ricadendole disordinate sulle spalle. Si mise seduta sul bordo della vasca color senape che perdeva pezzi di smalto aveva i movimenti rallentati, i piedi pesanti, nel ventre pezzi di ferro arrugginiti.

Fuori le altre aspettavano il loro turno per lavarsi, ma lei non aveva nessuna voglia di farle entrare.

Se ne stava lì seduta a fissare lo strato di condensa sulle mattonelle, rapita dal gocciolare ostinato della perdita del lavandino, fuori da quel piccolo mondo di umidità e vapore, corpi in movimento e un parlottare concitato.

<Sofia hai fatto? Dai è tardi ed è quasi pronto da magiare in cucina. Muoviti!>

<Si arrivo!>

Non era molto amata dalle sue compagne di lavoro e prigionia, lo sapeva bene glielo leggeva in faccia, la consideravano una stupida, strana, ragazzina presuntuosa.

Loro erano diverse, a volte Sofia aveva avuto il sospetto soprattutto i primi tempi, che una parte di loro provasse quasi piacere ad essere trattate così, centinaia di volte si era domandata quanta dose di verità e quanta di finzione ci fossero nel modo in cui ridevano e si muovevano nell’appartamento quando non erano sole.

A volte, a qualcuna di loro veniva fatto un regalo, una borsa, un paio di scarpe, c’erano delle preferite, in una sorta di perversa gerarchia di moine e brutalità quei due giganti che regolavano i respiri delle loro giornate erano in qualche modo amati e temuti dalle sue compagne.

Per lei questo era assurdo, stridente, osceno.

Le sembravano delle miagolanti gatte in calore. La ripetizione quotidiana dell’assurdo si era sedimentata, diventando normalità. Suo padre le raccontava sempre quando era piccola, di come la paura, avesse il potere di cambiare le persone nel profondo, semplicemente ci si adattava alla bruttezza e alla violenza, molto più velocemente di quanto si pensasse, per poi rendersi conto di non avere più tempo per tornare indietro, per cambiare.

<Tieni la mente libera dalla paura, bambina mia, sempre. Qualsiasi cosa accada, non farla entrare nella tua testa>.

Così le diceva suo padre, mentre accatastavano la legna dietro casa.

<Non farla entrare mai nella tua testa>, e Sofia non la fece entrare mai, fece solo finta qualche volta, di sorridere.

 

Aveva aperto gli occhi all’alba , svegliato da raggi precoci che gli avevano trafitto il sonno agitato. Trascinando i piedi in cucina, palpebre pesanti e gonfie, mise su la macchinetta del caffè. Mentre versava il liquido scuro e bollente nella sua tazza preferita, sentì le mani di Monica cingergli la vita, non l’aveva sentita arrivare. Lei infilò piano la testa soffice e arruffata sotto la sua ascella costringendolo ad alzare un braccio per farle spazio.

<Buon giorno!>

Lo disse con la voce ancora roca della notte, baciandolo lentamente sul costato, aveva le labbra morbide, calde.

Guido trasalì in bilico tra piacere e insofferenza. Se lei fosse stata meno bella, se l’avesse amata meno, sarebbe stato tutto più semplice. Invece lei era lì, bellissima e pura, ma forse proprio per questo non l’aveva mai sentita così lontana. Guido le fece scivolare due dita sotto la canottiera, percorrendo i contorni della sua spina dorsale chiuse gli occhi per un momento, respirando piano come se quella fosse l’ultima volta. Tutto stava diventando sempre più complicato e doloroso. Monica giocherellava con l’elastico dei suoi boxer mentre lo baciava lentamente, la tirò su facendola sedere sul piano della cucina, lei intrecciò le gambe muscolose intorno alla sua vita. Dalla finestra un gigantesco sole invernale amplificava il suo calore attraverso il vetro.

Guido era confuso e arrabbiato, era lì e allo stesso tempo si sentiva altrove, anni luce da quella casa, da quell’odore di pelle, sonno e saliva, si muoveva piano come fosse stordito, animato da un’eccitazione non voluta, le spostò delicatamente le mutandine di cotone e le scivolò dentro, baciandola sul collo, strofinandole il naso nelle orecchie. Per un momento sembrò che tutto fosse tornato al posto giusto, le sensazioni, gli odori, il piacere, erano ancora quei ragazzini ora cresciuti che si erano trovati e amati al di sopra di qualsiasi difficoltà.

Poi le immagini di quella sera, in cui il lupo era tornato più feroce che mai, la faccia spaventata di quella ragazzina straniera, il pugno dato al sindacalista venduto e tutti gli eccessi di ira violenta che ultimamente erano sempre più frequenti, iniziarono ad invadergli la testa, occupando sempre più spazio.

<Ahia! Guido mi fai male, smettila ti ho detto!>.

La voce di Monica sembrava arrivare da un’altra galassia, aveva dovuto alzare la voce e tirargli un pugno sulla spalla, per farlo tornare lì, con lei. Guido venne attraversato dalla tentazione di continuare, ignorando le sue proteste ma qualcosa lo frenò.

<Scusa ma hai cominciato tu!>

<Comunque ben tornato. Mi sembrava di fare l’amore con uno in trans…si può sapere dove te n’eri andato?>

<Da nessuna parte Mò, non farla tanto lunga adesso>.

Monica lo guardò per un minuto lunghissimo, in silenzio, cercando una traccia lasciata dalle pieghe degli occhi, di sottofondo solo il ruggito stanco e costante del frigo.

<Guido, ma tu mi ami ancora?>

Un pugno sullo sterno avrebbe fatto meno male, gli sembrava di avere la gola paralizzata fece passare un secondo di troppo prima di rispondere. Monica, occhi improvvisamente scuri, non disse nulla, si slacciò da quell’incastro mattutino rapida e agile, scivolò in camera, Guido la sentì aprire e chiudere l’armadio infilarsi gli anfibi, raccattare nel disordine i libri e il suo mazzo di chiavi, in meno di dieci minuti era sulla soglia, mano sulla maniglia. Guido era rimasto immobile in cucina, braccia lungo i fianchi, sguardo assente fuori dalla finestra, si faceva distrarre dalle macchine che correvano giù in strada.

Si girò verso di lei, si incrociarono per un momento, Monica aveva gli occhi lucidi, il naso arrossato, sembrava per la prima volta da quando la conosceva smarrita e sola.

Sparì, tirandosi dietro la porta con forza, Guido si concentrò sul precipitare dei suoi passi sulle scale…

 

Era un tramonto bellissimo, Abdel respirava a pieni polmoni per trattenere il più possibile quell’aria fredda, pungente e meticcia. Riusciva persino a riconoscere, nel groviglio di odori, quello dei cavalli che tiravano le carrozze dei turisti. La tensione si era sciolta nel corso del pomeriggio passato in mezzo alla folla cercando di vendere copie mediocri di articoli di lusso. Poi ad un tratto percepisce un repentino cambiamento nell’atmosfera di quella piazza, sente aumentare velocemente la tensione, gli altri ragazzi si lanciano segnali da un lato all’altro della strada, è un alfabeto che Abdel non conosce e riesce solo ad intuire. Improvvisamente è tutto chiaro, c’è la polizia che fa una retata, così come furie impazzite tutti raccolgono con un solo e misurato gesto, il proprio fagotto di merce.

Abdel, passato il primo momento di stordimento, imita i suoi compagni, gli tremano le gambe inciampa… Cade… Si rialza… Scappa via veloce, lasciandosi alle spalle una scia di cinture che non può permettersi di recuperare. Se lo fermano è la fine.

Non ha i documenti, non sa di preciso cosa gli succederebbe se venisse fermato da quei tipi in divisa, ma sa che non sarebbe niente di buono.

Corre, rischiando di travolgere ignari passeggiatori della domenica, distratti dalle vetrine luminose. Distanzia tutti gli altri infilandosi in vicoli semi vuoti e lontani dalla folla. Quando si trova a gemere per il dolore ad ogni respiro, si ferma, pugnale di fatica nei polmoni, milza dolorante , si lascia scivolare contro un muro di freddo marmo poroso, gli fischiano le orecchie e non ha la minima idea di dove si trovi, è un vicolo stretto e deserto, sente solo il rumore di un gatto che rovista nel secchione della spazzatura. Finalmente è al sicuro.

 

Era il terzo giorno di seguito che sceglievano lei…

Sempre lo stesso, quello più basso e con le spalle più larghe, avrà avuto poco più della sua età. Tutte le volte le tornavano in mente i primi giorni del suo arrivo, quando il cugino dopo aver orchestrato il viaggio di andata in pullman, aveva passato la palla al resto dell’organizzazione.

Lei molto presto si era resa conto che tutto quello che si era immaginata sarebbe rimasto solo nella sua testa.

Le avevano portate in un capannone abbandonato fuori città e ancora prima che se ne rendessero conto, una donna, la sola che videro, aveva ritirato i loro documenti e i pochi soldi che avevano, dieci uomini le picchiarono e le violentarono per due giorni, loro erano trentasei, alla fine non avevano neanche la forza di urlare. Sofia fatica a riordinare i ricordi, ci sono delle immagini, che le si sono impresse con violenza nella memoria. Dettagli insignificanti, la ricrescita scura e crespa che mangiava il biondo ossigenato della donna che seduta su una sedia di plastica, contava i soldi e li arrotolava, fumando concentrata come fosse sola.

Una di loro provò a scappare e Sofia ancora rabbrividisce pensando a quello che le fecero, in mezzo a tutte le altre, costringendole a guardare, come un monito, un avvertimento.

A volte la forza della disperazione non basta, Sofia pensava a quelle ore tutti i giorni, ci pensava tutte le volte che uno dei loro carcerieri la sceglieva indicandola con un dito.

Così mentre lui si divertiva lei si trovava a chiedersi dove fossero finite le altre, solo lei e Luda erano state portate in quell’appartamento, si trovava a chiedersi se fossero ancora tutte vive.

Quel giorno fu diverso, lui chiuse la porta e le si avvicinò piano, era lo stesso animale di sempre ma negli occhi si intravedeva un’ombra diversa, più intensa, più umana forse.

Mentre le stava sopra si fermò per un momento, Sofia si irrigidì e trattenne il fiato mentre lui disegnava con le dita l’arco delle sua sopracciglia.

Non disse una parola e Sofia sapeva di non dover parlare, rimasero sospesi, in una bolla di tenerezza clandestina, proibita e assolutamente inaspettata, fino a quando l’altro colpì con violenza la porta.

<Sbrigati Marius, guarda che entro lo stesso non mi faccio mica problemi! Tanto a te piace guardare no?>

Marius si alzò rapido tirandosi su i pantaloni, tornato quello di sempre, violento, silenzioso, schivo. Aprì la porta della stanza e si incrociò con il suo amico, collega, che lo aspettava a gambe larghe, con un brutto sorriso dai denti d’oro. Uscì dalla stanza senza neanche guardarla…

 

<Se chiudono siamo fottuti. E guardate che se crediamo alle cazzate che ci raccontano siamo solo un branco di pecore stronze>.

Stanza piccola, affollata, poco illuminata, fuori piove, il cielo è viola scuro, tira vento.

<Che chiudono è sicuro, gli costamo troppo e mi sa che produciamo troppo poco>.

La macchina del caffè non zucchera più, si è rotta mesi fa, imponendo a tutti un terribile e polveroso caffè amaro.

< Allora che facciamo? Lasciamo perdere e accettiamo la loro proposta. Oppure…?>

<Oppure occupiamo sta maledetta fabbrica e ‘fanculo agli incravattati>.

Salvo era fermo sulla soglia, nessuno si era accorto che se ne stava appoggiato allo stipite con le braccia conserte. Lo chiamavano il condor, lui in quella fabbrica ci aveva lasciato gli anni migliori della sua vita, un occhio e una buona parte di polmoni, la parte rimasta l’aveva data in pasto alle sigarette.

Metteva tutti un po’ in agitazione, con quella biglia di vetro ad occupare l’orbita offesa. Salvo era uno che si faceva gli affari suoi, un solitario, uno che un po’ ti faceva paura e un po’ ti incuriosiva con quel suo modo sbilenco di camminare e di stare in silenzio.

Fuori il viola del cielo veniva strappato da cerniere di lampi, nella saletta del caffè i lupi in gabbia si guardano tra loro, in fondo non avevano niente da perdere.

Era andata così, nessuno si aspettava che alla fine avrebbero occupato veramente ma soprattutto, che avrebbero resistito per tutto quel tempo.

Erano un pugno chiuso che si muoveva compatto e violento. All’inizio la notizia fece clamore, accese i riflettori su quello spicchio di periferia.

Gli sciacalli dell’informazione, vennero a raccogliere le loro storie di “gente semplice”, così dissero.

Quasi infastiditi dalle rivendicazioni sul lavoro, troppo impegnati a scovare il particolare scabroso, la storia patetica.

Guido si trovò in mezzo al caos dei primi giorni, con una strana adrenalina sulla pelle, viveva con una potenza dirompente ogni singola assemblea, ogni decisione, ogni turno di guardia.

Ripensando a quelle ore frenetiche si rendeva conto ora che tutto si stava dissolvendo, che c’era qualcosa che andava oltre, la disperazione determinata li animava di una consapevolezza nuova, si erano guardati e si erano riconosciuti accettando le conseguenze.

Guido si era trovato ad essere un capo branco, di nuovo, anche se in modo molto diverso da quello a cui era abituato. Ci pensava ora ,aggirandosi per la casa con il prurito sulle mani e con l’ immagine di Monica che si chiude la porta alle spalle che non abbandona la sua testa.

 

Abdel cammina con il borsone sulle spalle e gli occhi bassi, mentre torna verso casa, in testa un groviglio di incertezze e paure che gli inseguono i respiri.

Sull’autobus stracolmo del ritorno, talmente pigiato tra corpi estranei da non avere neanche bisogno di reggersi, pensa che sia tutto sbagliato in quel disegno sgarbato tracciato con l’inchiostro indelebile dell’esperienza. Non riesce a trovare i contorni del suo corpo, del suo viaggio verso il nuovo. Lui voleva una possibilità e aveva trovato una zona grigia da dividere insieme ad altri uguali a lui. Si sentiva uno stupido, gli mancava suo padre, avrebbe voluto appartenere a qualcosa, a qualcuno, avrebbe voluto avere un posto.

Accanto a lui una ragazzina lo fissava da sotto in su, erano costretti a stare appiccicati tanta era la gente. Aveva ciocche di capelli chiari che spuntavano disordinate da uno strano cappello di lana, gli sorrise un po’ timida, un po’ spavalda, Abdel ricambiò, ma gli vene fuori una smorfia più che un sorriso.

Lei, si rimise ad armeggiare con un telefono sottile come un foglio di carta, facendo correre le piccole dita sullo schermo. Abdel si fece catturare da quella danza leggera, sembrava che quelle dita potessero con un solo minuscolo gesto dirigere cielo e terra.

In Marocco spiava di nascosto le sorelle e le cugine che si lavavano e rimaneva a guardare rapito le loro dita sottili che velocemente disfacevano i nodi del velo che usavano per proteggersi dal vento e dalla sabbia. Da sotto le stoffe colorate si liberavano, neri trucioli lucidi pesanti come fili d’ebano che catturavano i raggi del sole, filtrati attraverso le tende tirate. Erano uno spettacolo misterioso quei corpi ambrati con la pelle liscia su cui l’acqua correva veloce, precipitando verso il basso in rivoli scomposti. Una volta una delle cugine lo vide dalla fessura nel muro di pietra, ma non disse nulla, continuò a lavarsi rallentando ancora di più i movimenti. A lui andarono a fuoco le orecchie, si vergognava e allo stesso tempo non poteva smettere di guardare, di immaginare come sarebbe stato toccarla.

Scesero al capolinea, la ragazzina passandogli accanto per superarlo, gli si strusciò contro come un gatto. Il sole tramontava di nuovo, Abdel si concentrava sulle pozzanghere della strada piena di buche, ancora stordito da quel pomeriggio di confusione lucida , la sua prima volta senza pietà nel mondo a cui non sentiva di appartenere.

La vide improvvisamente, in una macchina parcheggiata davanti al bar sotto casa, non era sola, vicino a lei un tipo con una brutta faccia le stava parlando, discutevano. Lei aveva lo sguardo fisso sulla strada sarebbe bastata una leggera inclinazione del collo, e l’avrebbe visto…

 

Era venuto prima.

Da solo. Le aveva detto di seguirlo.

C’era stata un’ondata di gelo e incredulità, ma nessuna aveva fiatato. Sofia l’aveva seguito, silenziosa.

Scale… Passi… Pesanti quelli di lui, rapidi e leggeri quelli di lei. Una melodia disarmonica, ripetitiva e a chiocciola.

Sul portone quasi si scontrano con un paio di condomini, una vecchia signora che trascinava un carrello della spesa e una donna giovane con una gran massa di capelli ricci e biondi che a Sofia ricordava qualcuno.

<Fate attenzione!> la vecchia signora sfoderò, una voce arcigna e sgradevole.

<Scusa signora> Marius abbassa la testa e prende Sofia per un braccio, trascinandola fuori.

Uscendo, Sofia ricorda, era la ragazza che qualche sera fa aveva portato il tè. Era quella del numero a cui risponde sempre qualcuno.

<In macchina, sali in macchina Sofia>.

Gli sportelli fecero un rumore pesante e li isolarono da tutto il resto.

Sofia aveva mal di testa, come dopo una notte insonne, aveva la sensazione che la realtà le si stesse sfilacciando velocemente tra le dita.

Come quando da piccola giocava con i fili di un maglione, ne prendeva un capo e iniziava a tirare. Tirava, correndo per la casa, tirava e rideva mentre il maglione si disfaceva davanti ai suoi occhi, fino a scomparire. Ora le sembrava che stesse accadendo lo stesso, qualcuno stava tirando un filo scomponendo quello che fino a quel momento le era sembrato certo ed immutabile.

Marius tirò fuori le sigarette dalla giacca di pelle, gliene offrì una facendola saltar fuori con un gesto secco.

<Vuoi?>

<Si. Grazie>

Fumavano, guardando dritto davanti a loro, Sofia passava le mani sulla stoffa dei pantaloni come a volerla stirare con i palmi nervosi. Marius continuava a non guardarla.

< Mi piaci. Mi piaci dal primo momento che ti ho vista. Voglio che diventi solo mia… Che smetti di lavorare in strada>.

Le appoggiò una mano gigantesca sul ginocchio.

<Vuoi che diventi solo tua?>. A Sofia veniva quasi da ridere. Lentamente si girò verso di lui e lo guardò prendendosi tutto il tempo necessario.

<Tu vorresti avermi tutta per te? Cos’è, vuoi comprarmi? O mi hai già comprata dai tuoi amici eh?>

Sofia sapeva di giocare con un animale molto pericoloso ma non riusciva a frenare un’ondata di sincerità senza controllo.

<Cosa vorresti farci con me, metterti in proprio forse?>

Lui, faccia scura, pugni serrati, tremante di rabbia, controllando l’ira e la voglia di reagire.

<No, non voglio mettermi in proprio e non ti ho comprata, diciamo che per averti mi hanno chiesto un favore, ma questo non ti riguarda.>

<Non mi riguarda!? Ma certo che mi riguarda. Cosa dovrai fare eh? Ammazzare qualcuno, organizzare qualche altro pullman pieno di donne, che pensano di venire in Italia per fare un lavoro normale e invece si ritrovano sbattute in posti assurdi, picchiate, violentate. Per toglierli tutta la dignità, fino all’ultima goccia, in modo da essere pronte a fare qualsiasi cosa?!>

<Sta zitta!>

Lo schiaffo, la colpì talmente velocemente da mozzarle il fiato, a metà di un respiro.

<Tu non dovresti piacermi, dovrei vederti come vedo tutte le altre e invece non posso fare a meno di volerti con me. Da sempre, dal primo minuto che hai passato in quell’appartamento. Non so neanche io perché. Mi piace che non hai paura di noi>.

Fuori il giorno stava morendo agonizzando in tramonto, c’era un gran via vai di gente davanti al bar dei cinesi, Sofia non sapeva neanche quale giorno della settimana fosse.

Sciami di ragazzini ciondolavano bevendo e fumando, facevano un gran casino, Sofia ne sentiva il vociare in sottofondo, pensò che sarebbe potuta esserci lei al loro posto.

<E’ tutto sbagliato…> Sofia lo sussurrò con le labbra ancora intorpidite dallo schiaffo di poco prima.

<Io, te, questo posto, le cose assurde che mi stai dicendo. Io ti piaccio? Ma se neanche mi conosci. E anche se fosse, come pensi che io possa venire con te? Dopo tutto quello che ci avete fatto? Per quale ragione dovrei farmi “salvare” da te? Per poi doverti anche dire grazie magari?!>.

Tensione che rimbalza da un paio di occhi all’altro.

<Non è vero che non ti conosco, io so che tutte le volte che entriamo nell’appartamento, tu sei la sola che non ci viene incontro anzi, ti accoccoli sul davanzale come un gatto e ci guardi. Ma è come se non fossi lì.>

Sofia non voleva sentire, le veniva da vomitare. Ma lui continuava, con le mani strette intorno al volante.

<La prima volta che ti ho toccata, hai rabbrividito e sei diventata rigida come il ferro, però ho capito che non avevi paura, sembra che tu non conosca la paura. So che riconoscerei il tuo odore ovunque, non ho bisogno di vederti per sapere se ci sei oppure no…>

<Basta! Io queste cose non le voglio sentire. Non da te. Se per smettere di fare questa vita il prezzo da pagare è essere legata a te preferisco ammazzarmi. Lo hai detto tu no? Che sono speciale!>

Era diventata cattiva, incosciente, voleva provocare, voleva che lui smettesse di guardarla così, senza ghiaccio negli occhi, senza maschera, perché questo si, le faceva paura.

Li aveva sempre immaginati privi di sentimenti, coscienza, anima, più simili ad animali che ad uomini, questo le aveva permesso di rafforzare la sua corazza di indifferenza e difesa.

Ora invece lo vedeva, ed era la prima volta che lo vedeva sul serio. La sua violenza restava, non aveva paura di abbassare la guardia e considerarlo un po’ meno pericoloso ma aveva paura di capirlo anche solo per poco.

<O.K. Sei una povera stupida. Una ragazzina presuntuosa e stupida, fa come vuoi….ora ti riporto dentro e tu terrai la bocca chiusa. Se lo dici a qualcuno ti taglio la gola>.

Sofia annuì, sapeva che sarebbe stato capace di farlo sul serio.

Uscendo dalla macchina, lo vide, dall’altra parte della strada fermo con un grosso borsone a tracolla.

Chissà da quanto tempo se ne stava lì a guardarla.

Senza che Marius se ne accorgesse Sofia fa un piccolissimo gesto con la mano, senza alzarla.

Abdel sorride e ricambia, anche lui tenendo la mano bassa.

Sofia non può fare a meno di sciogliersi in un sorriso.

Era riuscito a trovarla…

 

Guido sapeva che quelli sarebbero stati gli ultimi giorni e lo sapevano anche i suoi compagni. Quelli che erano rimasti, quelli che non avevano accettato compromessi lo sapevano tutti, stavano solo aspettando lo schianto.

Si respirava un’aria pesante, polverosa e statica.

Non sapeva neanche perché continuasse, giorno dopo giorno, ad alimentare quella follia destinata ad una fine certa e per niente piacevole. Camminando per le sale macchine vuote a Guido sembrava che quel posto respirasse come un grande animale addormentato.

<Quando hanno costruito la fabbrica, saranno più di trent’anni fa, pensammo tutti che avrebbe reso questo posto di merda un po’ meno di merda.> Salvo gli era comparso accanto di colpo.

<Aho Sà! Sei tu?! Non ti ho sentito arrivare.>

<Sai ti raccontano un sacco di minchiate: infrastrutture, progresso, lavoro. Quello che non ti dicono è che le ciminiere di questa stronza avveleneranno l’aria di tutti i fottuti giorni della tua vita, senza pause neanche a Natale. Non ti dicono neanche che i posti di lavoro sono poca cosa rispetto alle voragini che ti mangiano i polmoni.>

Camminavano lentamente, strusciando gli scarponi nella polvere.

< E te come ci sei finito al chiodo in questo posto? Hanno fregato anche te?>

<Bella domanda! Io ci sono finito perché si mi hanno fregato, come hanno fregato tutti. Se scappi da un buco di culo della Sicilia per finire a vivere in un quartiere come il nostro, pensi che forse una fabbrica possa veramente farti sentire un po’ più vicino alla normalità, che un salario fisso ti farà dormire la notte.>

Guido non aveva mai parlato così a lungo con Salvo e ora che ci pensava non gli era mai stato così vicino, non aveva mai fatto caso alla mappa di rughe profonde come letti di fiume in piena siccità su pelle di cuoio.

<Bella normalità che ci hanno dato. Così ce se more de normalità!>

<Si muore di tante cose se ci pensi. Nessuna che abbiamo scelto>

<Guido! Guido sei lì!?>

Dal fondo dello stabile lo chiamano a gran voce.

<C’è tu moglie che te cerca!>

Guido si paralizza. Monica.

Fotogrammi fuori tempo della mattina appena trascorsa, stringono alla gola, il lupo si agita e freme dal fondo delle viscere.

<Arrivo!>

Il tragitto a ritroso lo fa quasi correndo, con il piombo nello stomaco.

La vede nell’ingresso che cammina praticamente su se stessa, con le gambe un po’ rigide, tormentandosi con le mani ciocche di capelli sfuggiti alla treccia.

Nonostante il lupo che ulula Guido non può fare a meno di rallentare per guardarla meglio.

<Mò, eccomi che succede?> mentre parla la spinge delicatamente nel piazzale esterno, non gli va che tutti sentano gli affari loro.

<Ti devo parlare. Ma non è quello che pensi te, non c’entra niente quello che è successo stamattina.>

Guido si innervosisce.

<Vabbè dimme.>

<Nel nostro palazzo ci vive una ragazza che ho conosciuto durante un’uscita con l’unità di strada qualche giorno fa.

Non chiedermi se sono sicura, perché si ,sono sicura che sia lei.>

<Ummh… E allora?>

<Come “E allora?” che cazzo di risposta è?>

Guido aveva la netta sensazione che si stessero rapidamente avvicinando sul bordo di un precipizio senza nessuna rete di protezione.

<Ma che te devo dì Monica. Può darsi. Te che vorresti fare? >

<Non lo so. Però era insieme ad un tipo con una brutta faccia e sembrava spaventata, con quegli occhi così grandi e profondi. Mi hanno messo un’agitazione addosso! Secondo te devo chiamare la polizia?>

<Ma sei matta? Ti ricordo che noi lì ci viviamo! È troppo pericoloso! E poi lo sai cosa penso delle divise.>

<Cazzo Guì proprio perché ci vivo in quel palazzo non posso pensare di non fare nulla>.

Le strinse i polsi forte, bloccandola.

<Monica stammi bene a sentì, tu non farai nulla, perché se sta storia è come pensi te non c’è da scherzà. Capito?>

<Ma come fai ad essere così eh? Te scivola tutto addosso, io non sono come te, non ce riesco a non fa niente quando so che succede due porte più in là della mia!>

La corda si stava rompendo, Guido poteva sentirla mentre si sfilacciava sempre di più e lui non poteva fare niente per fermarla. Le prese la testa tra le mani

<Mò ma non capisci che è pericoloso? Io non posso stare a guardare mentre te metti in pericolo da sola. Lo capisci?>

Lei lo guardò e per un momento lui riuscì a ritrovare i suoi occhi.

<Si Guido lo capisco.> Respirarono profondamente tutti e due, come dopo un grosso spavento.

<Promettimi che per ora non farai nulla. O.K.?>

<Te lo prometto. Non sono d’accordo ma te lo prometto>

Le diede un bacio in fronte, aveva le labbra fredde mentre la sua pelle era caldissima e morbida.

<Ci vediamo più tardi. A casa>

<Va bene a dopo>.

Rimase a guardare le sue lunghe gambe che si dirigevano verso l’uscita sentendosi addosso come una melma grigia, viscida e sapeva perfettamente da dove veniva.

Guido non aveva certezze, ma cominciava a pensare seriamente, che la ragazza fosse la stessa.

Per un perverso e assurdo gioco, era la stessa persona che Abdel e Monica volevano salvare, ed era la stessa ragazzina che il suo lupo si era scopato in macchina senza traccia di umanità…

 

Vertigini corrono verso il centro…

il nulla

la lingua muta…

Si infrangono nello specchio…

si aprono i corpi e le solitudini dolorose

verso un capolinea in disuso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LUPI IN FUGA

 

Cantiere…

Ghiaia, cemento fresco, mattoni, ponteggi senza protezione, sole, nuvole di condensa ad ogni respiro. L’inverno sembra uno scherzo riuscito male.

Fatica…

Mentre porta avanti e indietro secchi di pozzolana e calcinacci, Abdel ha solo una cosa in mente, un pensiero fisso che gli martella il cervello, andarsene da quel posto di merda e portare Sofia con sé.

Quando era partito dal Marocco, sapeva solo quello che non voleva essere. Non voleva essere come suo padre e come tutti quelli che si erano accontentati, di riempirsi le mani di terra e di vento. Sapeva che non voleva rimanere fermo giorno dopo giorno subendo la vita che Dio o il caos gli avevano tracciato.

<Ehi tu! Ti vuoi muovere?!> Il capo squadra aveva una voce cavernosa, Abdel sapeva di non piacergli molto.

Era troppo lento.

<Arrivo, arrivo!!> Sentiva gli altri borbottare e a volte ridere quando passava, si chiedeva perché lo facessero lavorare se poi dovevano stare sempre a lamentarsi di tutto quello che faceva.

Suo zio lo guardava con la faccia scura, le folte sopracciglia contratte per lo sforzo e la disapprovazione. Abdel continuò a tenere la testa bassa. Gli sembrava di averla tenuta così tutta la vita, prima per la vergogna di aver deluso suo padre e di non averlo capito, poi per la delusione del suo viaggio che non riusciva più a comprendere.

Pranzo.

Ci si siede ai margini del cantiere ognuno con il suo panino, Abdel non mangia, non ha fame.

Rimane concentrato, senza farsi distrarre dall’atmosfera quasi rilassata di quella pausa in cui si da tregua all’aria.

Mentre gli altri mangiano e parlottano tra loro lui si mantiene sospeso, con Sofia nella testa.

Doveva parlare con suo zio, doveva parlare con Guido forse. Anzi no, non avrebbe parlato con nessuno. Per una volta era tutto nelle sue mani, sentiva la realtà scivolargli tra le dita come la sabbia rossa fatta vorticare dal vento tra cielo e roccia.

<Abdel perché non mangi? Devi magiare.> Suo zio gli si era seduto vicino con un bicchiere di caffè tra la mani polverose.

<Non ho fame.> Abdel voleva bene a suo zio, anche se faceva fatica a capire perché non avesse detto la verità, perché gli avesse permesso di raggiungerlo senza metterlo in guardia su quello che avrebbe trovato.

<Va tutto bene?>

<Si zio. Va tutto bene>

<Abdel ti devi concentrare se vuoi continuare a lavorare.>

<Si zio lo so. Scusami non volevo.>

< Ma dove hai la testa? Non mi sembri neanche tu in questi giorni.>

<Sono solo stanco, non è niente>

Abdel sapeva di non averlo convinto ma non gli importava, suo zio poteva pensare quello che voleva tanto comunque non avrebbe capito.

Più il tempo passava, più Abdel si sentiva senza scelta o meglio, con una sola scelta possibile dare un senso a tutta quella storia.

Ed era sempre più convinto che il senso fosse Sofia.

Era lei la sua possibilità, per quanto assurdo potesse sembrare. Abdel aveva passato un sacco di tempo ad avere paura, anche adesso aveva paura, però non gli legava più le gambe…

 

Non è vero che non aveva paura, Sofia lo pensò scendendo dalla macchina di un cliente, uno dei tanti della serata.

Alla fine non si ricordava neanche le loro facce, non era come all’inizio che le sognava di notte. Sentiva ancora le loro mani e i loro respiri, i loro odori. Ora no, era come sotto anestesia. Non sentiva più nulla di loro.

Però aveva paura, aveva sempre paura.

Luda le diede una gomitata leggera <Sofia guarda chi c’è!>

Di nuovo l’unità di strada, non era la serata giusta quella.

Erano sempre le ragazze della volta precedente, sempre con i loro modi gentili e amichevoli, però ora stonavano proprio con le loro sciarpe colorate e le loro buone intenzioni. Sofia percepiva il cambiamento nell’aria, quelle due stavano diventando troppo invadenti e questo non poteva accadere.

L’accoglienza fu diversa, più fredda anche da parte delle altre che al massimo, tra una macchina che rallentava e l’altra, le scacciavano via come insetti fastidiosi. Non c’era spazio nella loro piazzola anche per loro, si stava già troppo stretti così.

<Fateci lavorare in pace>

<Niente tè stasera? C’è qualcosa che non va?>

Luda si avvicinò a pochi centimetri dalla loro faccia.

< Donna italiane troppe domande >

Era una situazione tesa e un po’ assurda, Sofia voleva solo scomparire, la ragazza bionda la fissava senza dirle niente, lei sapeva, sapeva dove abitavano.

<Monica andiamo via dai.> la ragazza piccola e mora tirava l’altra per un braccio trascinandola via.

Sofia si avvicinò a Luda che continuava a fissare il punto in cui la macchina era stata ingoiata dal nero della strada male illuminata.

<Tutto bene?>

<No, non va bene per niente. Ma chi si credono di essere eh!? Con i loro cappottini del cazzo e il loro fottuto tè!>

Sofia non l’aveva mai vista così arrabbiata.

<Lascia perdere Luda, non dargli peso>

<Invece si. Non possono pensare che basta venire una volta ogni tanto a fare quattro chiacchiere. E poi? Che fanno? Se ne tornano a casa soddisfatte della loro buona azione?>.

Le tremava la voce in un modo strano, Sofia non riusciva a distinguere la rabbia dalla paura, dal senso di vuoto e di perdita. Forse anche lei aveva solo voglia di non sentire più.

Sofia fece vagare il pensiero ad un altro tempo, lontano da quella strada…

Faceva caldo lungo il fiume d’estate, zanzare dalle dimensioni di grosse noci ronzavano sulla superficie dell’acqua, verde come gli alberi che rifletteva.

Sofia ci nuotava tutti i giorni tuffandosi e accarezzando con la pancia il fondo di ciottoli coperti di alghe morbide, un tappeto di velluto bagnato. Suo padre le diceva sempre <Devi imparare ad ascoltare l’anima del fiume> e lei si sedeva sugli argini erbosi e lo ascoltava, imparando a memoria il suo alfabeto di gorgoglii e mulinelli. Al fiume incontrava anche Adrian, aveva la sua età, erano cresciuti insieme tra la polvere di gesso e la caccia alle lucertole. Ad Adrian aveva dato il suo primo bacio per una scommessa persa poi, anni dopo, si era trovata a guardarlo di soppiatto nascosta tra i cespugli mentre pescava, sentendolo improvvisamente adulto ed estraneo.

<Sofia. Guarda che quel tipo sta indicando te!>

Buio… Strada…Di nuovo lì…

Il sole, il fiume, il verde, qualcuno aveva acceso la luce.

<Si eccomi>.

Era di nuovo lui, il ragazzo con la cicatrice.

<No. Ti prego prendi qualcun’altra.> le parole erano uscite prima ancora di poterle anche solo pensare.

< Tranquilla. Non è come pensi. Ho un messaggio per te da parte di Abdel…>

 

Aveva fermato Guido davanti al solito bar…

Lo aveva aspettato, ad un tavolino di plastica rossa fumando nervosamente troppe sigarette, continuando a guardarsi intorno. Gli sembrava che tutto intorno a lui stesse cambiando. Si chiedeva quante dinamiche sotterranee ci fossero in quel quartiere che lui non avrebbe compreso mai, neanche lì, in mezzo ai disperati c’era posto per lui.

Lo leggeva in quelle brutte facce segnate che gli passavano davanti.

Lo guardavano tutti come se fosse una grossa cacca su una tovaglia bianca. O forse gli sembrava, non riusciva a capire quanto fosse frutto della sua frustrazione e quanto fosse reale…

 

Guido si sentì afferrare per un braccio da dita di ferro…

Trasalì girandosi.

<Ah! Sei te! M’hai fatto prendere un colpo>

Abdel lo guardava strano, con gli occhi lucidi.

<Ciao… Scusa… Mi aiutare?>

Guido non lo guardò. Per un momento fu tentato di inventare una scusa, una qualsiasi per andare via, lasciarlo lì. Sapeva cosa voleva chiedergli, ma non voleva sentire. Non poteva.

Invece rimase, intrappolato dai sensi di colpa e dalla propria immagine riflessa, nello specchietto rotto di una macchina.

<Dimmi Abdel. Che succede?>

<Ho trovato lei. Nel palazzo dove stai te>

Guido se l’era immaginato centinaia di volte quel momento, quando i pezzi sfilacciati delle loro vite si sarebbero saldati una volta per tutte e non più per caso. Ogni volta aveva costruito nella sua testa, una soluzione diversa senza riuscire a trovare tregua.

Ora, aveva Abdel davanti che gli chiedeva aiuto. Le parole di Monica gli rimbombavano nel cervello, nello stomaco e poi fotogrammi sconnessi dell’espressione degli occhi di quella donna bambina in quella macchina con il fiato del lupo alle calcagna. Non riusciva a muovere un passo, come se avesse affondato i piedi nella calce viva. Mentre il lupo ruggiva ferito, Guido prese una decisione…

 

Era stordita come quella volta che si era ubriacata alla festa del raccolto con la Palinca, il distillato di prugne. Avevano ballato con la testa leggera finché non sentirono più le gambe e anche tutto il resto. Erano corsi al fiume con il fiato corto per il gran caldo. Ad un certo punto il fiume, l’erba umida, la luna piena, Adrian vicino a lei. Avevano cominciato a girare, si era dovuta stendere per non cadere, Adrian le aveva detto <Cerca un punto fisso e non perderlo. Guarda me>

Ora non poteva guardare Adrian. Lui era lontano, forse si era sposato, forse aveva dei figli, un lavoro in città, continuava a correre dietro al fiume, mentre lei era su un altro pianeta, in cui tutto era al contrario di come sarebbe dovuto essere.

Era salita in quella macchina con la testa che girava. Cercò un punto fisso negli occhi del ragazzo con la cicatrice, le veniva da vomitare.

 

Guido, aveva trovato Monica a casa, seduta a gambe incrociate sul divano, fissava un punto imprecisato nel muro.

Le si sedette accanto facendo scivolare piano la sua mano vicino a quella di lei, le sfiorò le dita con le sue e lei trasalì. Solo in quel momento si era accorta della sua presenza.

Aveva gli occhi rossi e lucidi, sembravano ancora più grandi, dilatati dalla tristezza. Non c’era rabbia, solo malinconia e solitudine. Si rese conto di averla lasciata sola mesi prima senza neanche accorgersene.

<Ehi bella bionda!> Le accarezzò i riccioli disordinati ai lati delle orecchie avvicinandosi un po’.

<Che ci è successo Guido? Non ci siamo accorti di andare in pezzi?>

La voce le tremava ma manteneva la sua solita melodiosa profondità.

<Sono io che sono andato in pezzi. E mentre cadevo non ti ho detto niente>.

Erano tornati su quella scale dove avevano parlato sul serio per la prima volta, su quel finto marmo, freddo come il ghiaccio.

Lui le aveva raccontato pezzi di se.

Raccontandoli per la prima volta anche a se stesso.

Aveva cercato di spiegarle cosa provava quando faceva male a qualcuno, quando superava il limite di quello che era consentito per il puro gusto di annusare la paura. Le aveva mostrato il lupo che lo abitava senza vergognarsi e ora era sul punto di farlo di nuovo, ma non sapeva se sarebbe finita con lui che la baciava piano mentre lei chiudeva gli occhi…

 

Abdel prepara il suo zaino di tela verde e bianca, ci mette dentro i pochi vestiti che ha, proprio in cima due biglietti del treno per Vicenza, si infila nelle mutande un rotolino di soldi, un po’ sono suoi, un po’ glieli ha prestati Guido.

Il suo cervello corre velocissimo, la paura è troppo lenta, non può raggiungerlo. Non come quando si era perso portando le capre al pascolo tra le rocce e una volta tirato giù il disco del sole tutto si fece oscurità e gelo. Camminava con gli occhi bendati e i muscoli intirizziti. La paura di perdere tutto lo aveva assalito, stringendolo alla gola, facendogli perdere ogni traccia di orientamento. Era riuscito a tornare a casa dopo molte ore, aiutato dalla cacciata della notte, portando il gregge al sicuro. Per giorni aveva avuto incubi in cui vagava senza cibo né acqua in un deserto buio e freddo senza trovare la strada di casa.

Ora mentre riempiva lo zaino di nascosto dagli altri, si sentiva diverso, perso nel buio ma senza provare paura, forse perché non aveva più niente da perdere, non apparteneva più a nessun luogo e nessuna strada lo avrebbe riportato a casa…

 

<Stammi bene a sentì ragazzina. È un favore che faccio ad Abdel ma non ce voglio lascià le penne intesi? >

Guidava piano, Sofia si chiedeva solo se Abdel sapesse che loro già si conoscevano.

<Tu cosa c’entri con Abdel?>

Guido cominciava ad incazzarsi. Avrebbe anche potuto guardarlo in faccia mentre le parlava.

<Siamo amici. Io e Abdel siamo amici. Lui dice che vuoi scappare, che vuoi andare via con lui. Io ve sto aiutando, o almeno ce provo…>

 

Lo aveva picchiato con una forza impressionante…

Guido pensò che se avesse avuto tra le mani un bastone lo avrebbe ammazzato.

Il volto sfigurato dalla rabbia e dal disgusto.

Le aveva detto tutto di quella sera, raccontandole ogni cosa, svuotandosi da quel peso ostile che lo occupava da giorni.

Le parole uscirono prima a stento, poi come una corrente in piena, non le risparmiò nulla.

Su quel divano, nel loro piccolo salotto con i tappeti colorati, Guido le raccontò quello che era stato negli ultimi mesi, fino alla notte in cui aveva caricato Sofia in macchina.

Monica come in trance, lasciò cadere grosse lacrime silenziose dagli angoli degli occhi secchi. Stringendo i pugni gli si buttò addosso colpendolo sul petto, sullo stomaco.

Guido si coprì la faccia e si rannicchiò in un angolo aspettando che passasse. Ma sembrava non passare più, dopo quelle che gli parvero ore Monica si lasciò cadere sul pavimento, senza forze.

<Perché hai aspettato tanto a parlare con me eh?>

Guido si aspettava tutto ma non questo, rimase talmente spiazzato da riuscire solo a boccheggiare verso di lei…

 

Non riusciva a pensare aveva il cervello paralizzato, non sapeva se credergli oppure no. La sola cosa certa era che quella era la prima vera possibilità di fuga che aveva.

Quel ragazzo neanche lo conosceva, eppure qualcosa l’aveva spinta a credere che fosse simile a lei. Lo aveva raccontato a Luda tante di quelle volte, il loro cappuccino alle quattro del mattino e la sensazione di potersi fidare di lui senza capire bene cosa la spingesse a farlo. In qualche modo le ricordava Adrian, le trasmetteva la stessa sensazione di equilibrio.

Quando era partita, lui era così triste.

Prima le aveva chiesto di non partire, di restare con lui, poi che l’avrebbe aspettata, ma lei gli disse di no, che doveva vivere la sua vita senza pensare a lei. Così si era trasformato in un ricordo che, come quello che aveva di suo padre, la perdita faceva crescere di intensità.

La consapevolezza di quello che sarebbe potuto essere e che non le era stato permesso.

<Va bene ti credo. Che devo fare?>

 

Quando aveva chiamato suo padre gli tremavano le gambe.

Aveva paura della sua capacità di restare in silenzio, se lo immaginava dall’altra parte della cornetta teso come un bastone di ulivo.

Riusciva quasi a vedere l’espressione del suo volto che si faceva sempre più scura, assorta.

Suo padre era la sua memoria, era il legame reciso con la terra in cui era era cresciuto, era tutto quello da qui era scappato e allo stesso tempo anche la sua lingua madre, la sua traccia, il suo luogo.

Suo padre lo lasciò parlare, a lungo, come se capisse anche senza poterlo guardare in faccia che colore avesse preso il viaggio del suo primogenito.

Abdel si trovò a sputare pietre, prima piccole come ghiaia, poi sempre più grandi come i massi del deserto.

Raccontò tutto infischiandosene della vergogna, del fallimento di essere tra quelli che non ce l’avevano fatta, non gli importava, aveva solo bisogno di dire a suo padre la verità…

 

La verità sapeva di ferro, a Guido si impastava la lingua, le frasi le articolava a fatica. Perché non le aveva detto niente?

Non se lo sapeva spiegare. Era come rimasto intrappolato in un immagine di se stesso che apparteneva ad una vita fa, la cosa terribile era che Monica capiva e dava un senso ai suoi pensieri disordinati.

<Guido io non riesco a capire perché non ti sei fidato di me. Perché di me ti potevi, ti dovevi fidà>

Non urlava più, però aveva la voce roca per lo sforzo di poco prima.

<Lo so… Scusa…>

<T’ho mai giudicato io? Eh?! Anche quando eravamo ragazzini e tu menavi tutti. T’ho mai giudicato? Ho mai avuto paura de te?>

<No. Mai.>

Si sentiva un sacco vuoto, ma svuotato a forza, sentiva tutto il peso della propria incapacità.

<Ma stavolta era diverso, io non so perché so andato con quella ragazzina. Avevo solo voglia di distrugge tutto, pure te capisci? Come facevo a dittelo?>

Questo le fece male.

Per quanta durezza potesse usare, si vedeva che ad ogni frase la ferita si apriva un po’ di più.

<Pensi che non dicendomi nulla, mi avresti fatto meno male? Come pensi che mi senta adesso?>

Guido sfogò la sua frustrazione in un ruggito represso.

<Me sò sentito solo, non dipende da te, dipende da me. Ho avuto paura, l’occupazione, sta vita che non sai se ce l’ha con te o fa con tutti uguale. Ho avuto voglia di sentirmi come prima, come quando avevano paura de me. Lo capisci che per farlo, dovevo fa male pure a te?>.

Monica non stava scappando e ancora una volta non lo stava giudicando, nonostante la ferita aperta e sanguinate che le sue parole le avevano aperto, lei riusciva ancora a vedere quello che c’era sotto la pelle di lupo.

Era sempre stato così e in certi giorni, avrebbe preferito riuscire a vedere quello che vedevano tutti gli altri, un violento, con il cuore onesto, ma pur sempre un violento.

Aveva la sensazione di essere in un acquario pieno di colla da cui poteva vedere quello che succedeva fuori, senza riuscire a puntare i piedi per venirne fuori. Scivolava sempre più giù e la colla le colava in bocca, nelle orecchie, nelle narici.

Doveva uscire.

Doveva trovare una soluzione.

<Dobbiamo aiutarli!>

<Aiutare chi scusa?>

<Quei due ragazzi. Dobbiamo aiutarli a scappare. Lui te lo ha chiesto no? Tu cosa gli hai risposto?>

Guido aveva già deciso di aiutare Abdel ma non voleva coinvolgerla. Era troppo pericoloso.

Monica aveva gli occhi disperati e coraggiosi.

<Va bene ora ti spiego cosa faremo…>

 

Sofia si sentiva come un animale in trappola, si sentiva come le volpi che catturava suo padre nelle tagliole, aveva la sensazione che più cercava di divincolarsi, più la morsa si sarebbe stretta.

La sua cicatrice.

Non poteva fare a meno di fissarla, se ne stava lì come uno spicchio di luna…

 

Non sapeva se si sarebbe fidata di lui, poteva sentire l’odore aspro della sua paura come quello di un animale in trappola. Era un odore che conosceva molto bene.

I suoi occhi, non poteva fare a meno di guardarli, avevano il colore delle nuvole gonfie di pioggia e della strada.

Erano la strada…

 

Dopo averlo fatto parlare, misurando bene le parole, gli parlò di una sua sorella a Vicenza, gli disse che poteva andare da lei e portare anche la ragazza se voleva. Sua sorella era sposata con un italiano, avrebbero potuto aiutarli almeno per i primi tempi.

Suo padre non parlava mai di lei, Abdel sapeva a stento di avere una zia partita tanto tempo prima.

Intorno a quella partenza Abdel aveva sentito solo delle mezze frasi sussurrate, c’era qualcosa da nascondere, un motivo per cui vergognarsi di lei che non era mai tornata.

Suo padre e sua madre non pronunciavano mai il suo nome ma Abdel vedeva cambiare l’espressione dei loro occhi quando qualche vicino chiedeva notizie diventavano improvvisamente tristi, malinconici.

<Non farmi domande Abdel. Scrivi il suo numero di telefono e chiamala appena riesci ad arrivare a Vicenza.>

Abdel tentò di far tacere i mille interrogativi che si affollavano sulla sua bocca. Non era abituato ad insistere con suo padre, ma forse i chilometri di distanza, lo aiutarono ad ignorare il timore della sua durezza.

C’erano cose che doveva sapere.

<Hai mantenuto i contatti con lei? Da quanto tempo? Da sempre? Perché non ce lo hai detto?>

Aveva iniziato e non riusciva più a smettere, pensava di conoscere suo padre con tutti i suoi limiti e le sue fragilità nascoste… Invece si trovava a parlare con un uomo diverso.

<Abdel smettila di chiedere, tu non devi chiedere, devi imparare ad ascoltare e ad aspettare>

Aveva la voce ferma di quando non ammetteva repliche, di quando non dava spazio al proprio interlocutore.

<Dimmi solo perché non me lo hai detto prima che partissi. Sarebbe stato tutto diverso>

Silenzio dall’altra parte del mare.

Nessuna risposta, solo un respiro rumoroso.

<Chiamala, avremo tempo per parlare. Fai quello che ti dico>

Abdel si morse la lingua, mandò il respiro fino in fondo gonfiando e ritirando lo sterno, si concesse un’ultima cosa

<Lo zio lo sa?>

<No. E non deve saperlo>

<Va bene la chiamerò. Inshallah>

<Inshallah>.

 

<Guido è per stanotte! C’è stata una soffiata, lo sgombero lo hanno già deciso noi dobbiamo solo capire se restare oppure no>

< Non vi muovete. Arrivo.>

Chiuse il telefono e si infilò il giubbotto con un solo gesto.

<Dove vai?>

Monica continuava a stare seduta per terra con la schiena appoggiata contro il divano, fumava lentamente con dita incerte che tormentavano l’angolo di un cuscino a righe.

<Alla fabbrica. Era Antonio, dice che sgomberano. Vado a capì che succede. Torno in tempo per stasera tranquilla>

<Va bene stai attento>

Lo disse alzandosi e andando verso di lui già quasi sulla porta. Infilò le lunghe braccia nelle pieghe vuote tra il suo torace e il giubbotto.

Guido questo non se lo aspettava, non lo aveva previsto.

La strinse affondandole il naso tra i capelli, sfiorandole piano il collo e il lobo dell’orecchio, tremarono entrambi sotto il peso delle loro stesse paure, delle loro incapacità.

Guido sarebbe dovuto già essere per le scale e invece si ritrovò steso sul tappeto ad accarezzare la sua ragazza di sempre che ora gli sembrava una stra creatura, estranea e pericolosa, diversa, come se averle parlato di quello che era successo le avesse dato un potere in più su di lui.

Lei fece l’amore con rabbia, lui con sgomento, forse anche Monica nascondeva sotto l’equilibrio, voragini inesplorate di cui lui sempre concentrato su se stesso non si era mai accorto.

Ora le guardava dischiudersi tra le sue mani e si accorse che lo spaventavano…

 

Non riusciva a farsi uscire dalla mente, le immagini di lui che la prendeva per i capelli, tirandole indietro la testa, in modo che fosse costretta a guardarlo negli occhi. Ora se ne stava lì seduto accanto a lei che le offriva una possibilità, come se lo volesse davvero.

Sofia non poteva fidarsi di lui ma si fidava di Abdel, della sua mano tra le sue dita e della promessa che le aveva fatto, per quanto assurda ed incosciente.

Non poteva restare immobile, erano mesi che si sentiva incapace anche solo di muovere un passo, da quando era salita su quel pullman rosso e giallo, direzione Italia, riuscendo a stento a domare l’eccitazione per quel viaggio che doveva essere un inizio. L’inizio di una vita diversa in cui la miseria e la povertà non avrebbero scandito le sue giornate. La notte prima di partire andò al fiume passando per il villaggio, il più piccolo nel comune di Manesti cresciuto sulle sponde argillose dell’acqua, respirò profondamente quell’aria tersa e pungente.

Sarebbe voluta restare se quel posto, la sua casa, le avesse dato qualche possibilità in più e qualche ricordo doloroso in meno.

Partire era il modo per riscattarsi, per poter decidere di tornare.

Fece scorrere le mani sulla terra erbosa, accarezzando le acque scure e dense.

Pensò che il senso del suo viaggio era legato alla profondità del disagio, che le dava l’immobilità di quel luogo nonostante lo scorrere dell’acqua.

<Dov’è Abdel? >

<Ci aspetta in un posto. È un posto sicuro non ti preoccupare. Capito regazzì?>

<Sofia. Mi chiamo Sofia…>

 

Guido era arrivato alla Fabbrica trafelato, con l’odore di Monica ancora nelle narici e l’immagine del suo corpo fisso in testa. Era distratto, una parte di lui era rimasto su quel tappeto e l’altra era già proiettata verso quella sera, il cuore batteva come un pendolo di ghisa.

Lì trovò tutti già lì, facce scure, invecchiate tutte insieme.

<Ah eccoti finalmente! Ma dove cazzo eri finito?>

Antonio aveva la voce pesante e preoccupata.

<Scusate ho avuto da fa? Allora che v’hanno detto?>

Un borbottare concitato si diffuse come una perdita di gas nella stanza, rimbalzando da uno all’altro.

<Che è finita Guì. Non c’è più niente da fa. Semo rimasti soli. Quelli se ne fottono di noi, hanno già deciso tutto mesi fa. Ora devono solo dacce un sacco de botte! Così pe sfizio!>

Gli si stavano intrecciando troppi piani, non sapeva più a quale di queste storie tristi appartenesse.

A tutte, a nessuna.

Aveva di nuovo voglia di spaccare tutto, di rovesciare i tavoli e tirare cazzotti nell’aria.

Aveva messo in quel lavoro la parte migliore di sé, la parte buona, quella che voleva salvarsi dallo spaccio e dai furti e ora quel lavoro non c’era più, il suo lottare ostinato non era servito a niente.

<E allora che facciamo?>

Un silenzio pesante, li ricoprì come una coperta di lana troppo spessa.

<Se vogliono farci fuori, almeno non rendiamoglielo una cosa facile>

<Nel senso che ce dovemo fa menà?>

<No però cazzo dovemo resiste il più possibile>.

Scatti di rabbia e frustrazione nelle voci agitate, Guido non sapeva cosa dire e dove guardare.

<Diamogli quello che vogliono. Se ce vogliono fa male che lo facessero. S’accomodassero!>

C’era una sorta di rassegnazione ostinata a voler arrivare fino in fondo. Fino alla fine. Fino all’ultimo respiro.

<Facciamoce trovà tutti qui. E chi s’è visto s’è visto>

In fondo non avevano molto da perdere, sottomissione ed obbedienza al più forte in quegli anni non avevano migliorato la loro vita, a quel punto tanto valeva non doversi rimangiare la parola.

Guido pensò che quello era il suo personalissimo giorno del giudizio, il giorno perfetto in cui tutto si sarebbe sciolto. Distruggendosi la sua vita si sarebbe trasformata in piombo fuso da rimodellare di nuovo, magari altrove.

 

Abdel se ne stava rintanato tra le lamiere accartocciate in quello strano cimitero arrugginito.

<Ci aspetti allo sfascia carrozze abbandonato capito?>

Così gli aveva detto Guido qualche ora prima e lui era uscito di soppiatto di casa, quasi di corsa aveva percorso quei sei chilometri di strada senza marciapiede fino ad arrivare in quel posto strano. Aveva un’aria spettrale, pezzi di macchine di ogni tipo, se ne stavano lì come arti mozzati. Rottami abbandonati di cui nessuno si curava più.

Abdel entrò passando tra le sbarre del grande cancello sbilenco. Non si sentivano neanche i rumori della strada, c’era un silenzio di ferro e vernice scrostata, vecchi cani randagi si aggiravano leccando l’acqua dalle pozzanghere. Abdel si sedette su un vecchio cofano stringendo lo zaino tra le ginocchia e con una grandissima agitazione in corpo si mise ad aspettare il buio.

Lentamente il sole iniziò a rotolare giù, verso l’orizzonte nero e frastagliato, Abdel aveva una visuale parziale, da lì non riusciva a vedere la strada, ma solo un progressivo cambiamento di luce.

Le macchine in ombra, il cielo sporcato di nuvole rosse come il sangue. Una palla gialla ormai ridotta ad uno spicchio.

Rimase immobile per quella che gli sembrò essere un’eternità fino a quando il buio non fu totale.

 

Guidava con lei accanto tesa come una corda di violino, che lo guardava con un misto di paura, odio, disgusto. Forse un po’ di pietà. Guido non sapeva se sarebbero mai riusciti a prendere quel treno. Sperava tanto di si.

Lo sfascia carrozze era un posto abbandonato e spettrale, dove quando era ragazzino le bande del quartiere si sfidavano.

Su quel terriccio c’era parecchio del suo DNA.

Parcheggiò accanto al cancello e scese dalla macchina chiudendo Sofia dentro.

Era rimasto tutto esattamente come allora, anche la ruggine sembrava la stessa. Camminando si fece largo nel buio.

Sudore, bottiglie di birra vuote, lame pronte a scattare al primo accenno di rissa, gli anni del branco erano stati lunghi.

Giornate imprigionate nell’aggressività.

Non avevano nessun codice da rispettare, se non la legge di chi faceva più paura, di chi menava di più. I confini tra loro e chi del quartiere era il capo e ne gestiva, lo spaccio di droga e traffici di ogni genere era sottile.

Una difficile convivenza border line. Proprio in quello sfascio abbandonato aveva ricevuto la sua offerta, avrà avuto una quindicina d’anni, loro erano un gruppetto, il capo era il più grande, vent’anni o giù di lì.

<Te teniamo d’occhio da un po’. A te piace usà la lama e fa il duro. Però vogliamo sapere se sei duro pé davvero!>

Guido si era sempre tenuto alla larga da quel giro, sapeva come funzionava.

Si cominciava facendo i guardia piazza, poi ti facevano rubare qualche autoradio e così via.

Ma non era questo a frenarlo, piuttosto la perdita della propria autonomia.

Guido sapeva di non essere capace di prendere ordini da nessuno, non era capace ma soprattutto non voleva, non gli interessavano i soldi né il rispetto ottenuto così. Lui voleva che avessero paura di lui non perché fosse il braccio di qualcuno più in alto e più feroce.

<Grazie ma non mi interessa. Ho altri progetti!>

Il capo del gruppetto scoppiò in una risata eccessiva.

<Avete sentito? C’ha altri progetti lo stronzetto>.

Gli altri rimasero immobili in attesa di un comando mentre lo spilungone alto e magro continuava a ridere facendo bella mostra di un incisivo spezzato. Aveva gli occhi piccoli e troppo vicini tra loro, le sopracciglia sottili. Si picchiava una mano sul ginocchio, Guido sentì nell’aria quello che stava per accadere.

Sapeva che rifiutare una collaborazione, di qualsiasi tipo fosse, non era una faccenda che si poteva risolvere con una pacca sulle spalle.

Gli altri iniziarono manovre di avvicinamento, pronti a menare la mani. Guido fece una rapida valutazione dei suoi avversari. Erano più grossi, ma lui era molto rapido.

In una nuvola di terra lottò per difendere la sua indipendenza da chi lo voleva comprare, domare, sottomettere con il potere del controllo.

Il lupo era pronto per la foresta.

<Abdel! Abdel dove cazzo te sei nascosto?>

Lo vide strisciare fuori dall’angolo scuro in cui si era rannicchiato, tra una macchina e l’altra, come un cane randagio…

 

Gli occhi si erano abituati all’oscurità, il corpo irrigidito dal freddo e dall’attesa. Non sapeva per quanto ancora avrebbe resistito, in quel cimitero di ferraglia, la testa affollata di domande e incertezza.

Forse stava sbagliando tutto, forse non doveva scappare, le variabili del fallimento erano talmente tante da fargli credere che riuscire nella fuga fosse praticamente impossibile.

Quando sentì i passi di Guido, pesanti come se avesse i piedi di pietra, fu tentato di rimanere nella sua tana improvvisata e di non uscire. Se fosse rimasto zitto, protetto dal buio, lui se ne sarebbe andato.

Lo avrebbe lasciato lì.

L’immagine di Sofia in quel bar, mentre beveva il suo cappuccino specchiando gli occhi nel cucchiaino di metallo, gli si disegnò in mente.

La sensazione di aver trovato il pezzo mancante, il tassello più piccolo ed importante della sua storia, quello del riconoscersi in un altro pezzo di carne ed ossa, lo invase piano e lo spinse a venire fuori.

<Sono qua! Andiamo?>

 

Ce la potevano fare…

Erano alla fine, mancavano ancora pochissimi incastri. Sperando di non essere seguito, guidava veloce verso il luogo concordato con Monica. Avevano deciso che li avrebbe accompagnati lei alla stazione, era più sicuro.

Dallo specchietto retrovisore gettò un’occhiata a quei due fagotti, seduti su i sedili posteriori con le dita intrecciate in una presa d’acciaio.

<Ora vi lascio alla prossima traversa e dovete restà fermi e aspettare una Micra bianca intesi? Non fate cazzate, non vi muovete, rimanete dietro i cassonetti. Dovete uscì solo quando vedete i lampeggianti. Il segnale è: accesi, spenti, accesi spenti. Capito?>

<Accesi, spenti, accesi, spenti. Capito.>

 

Li avrebbero presi e li avrebbero ammazzati. Ne era certa non poteva funzionare.

Lei era sparita da troppo tempo se ne sarebbero accorti.

Era un piano con troppe falle.

Stringeva la mano di Abdel, senza riuscire a guardare fuori dal finestrino. Aveva paura, una paura terribile.

Aveva le mani grandi, calde e asciutte, le unghie piatte e corte. Aveva le mani più belle che avesse mai stretto…

 

Le era scivolato vicino, riuscendo solo a sorridere come uno scemo. Era così bella.

Con quelle lunghe gambe color della luna, che uscivano dalla striscia di gonna troppo corta. Nel suo zaino aveva dei vestiti anche per lei, si chiedeva se le sarebbero stati, forse erano un po’ grandi ma almeno così non avrebbe avuto freddo.

Lei aveva fatto strisciare le sue dita tra le sue, aveva stretto così forte da fargli male, come se avesse avuto paura di cadere…

 

Li stavano seguendo da qualche chilometro, una macchina scura. O forse era una sua paranoia.

Spinse il piede sul pedale dell’acceleratore.

Non si sarebbero fatti prendere. Cambiò strada infilandosi nelle viuzze meno trafficate facendo la gincana tra vicoli e spazzatura.

Erano arrivati, frenò.

<Scendette. Veloci.>

Li guardò e li vide. Due bambini spaventati, pozzi di dubbi al posto degli occhi.

<Aspettate Monica. Andrà tutto bene>

Abdel aprì lo sportello e si trascinò dietro Sofia, Guido abbassò il finestrino.

<Grazie.>

<De niente Marrachesch, de niente. Ora sparisci, muoviti>.

Pochi secondi dopo, erano già scomparsi nel buio.Guido chiamò Monica.

<Vai, li ho lasciati. Sbrigate. A dopo>

 

Lei era gentile.. Li aveva fatti salire quasi di corsa e per tutto il tragitto, aveva mascherato la tensione sorridendo nervosamente. Li aveva lasciati ad un paio di chilometri dalla stazione da cui avrebbero preso il trenino per il centro, una volta a Termini sarebbe stato tutto più facile. Prima di lasciarli andare passò a Sofia cinquanta euro arrotolate, lei le accettò dopo un momento di imbarazzo.

<Grazie.>

<E di che?>

Sembrava assurdo, ma forse ce l’avevano fatta.

<Correte adesso, non rimanete in mezzo alla strada. Passate sotto il passaggio a livello, lì c’è una stradina di terra che sbuca alla fine del binario, è buia ma così non dovrebbe vedervi nessuno. Avete capito?>

< Si. Strada piccola. Scura, non ci vedono. Stazione. Si capito>

Abdel aveva capito.

Sempre tenendo Sofia allacciata alla sua mano iniziò a correre come se venisse inseguito dal fuoco…

 

 

Guido correva verso la fabbrica per l’ultima scena. Dopo le botte sapeva che avrebbe trovato Monica ad aspettarlo.

Sarebbero dovuti andare via di lì, ormai era troppo pericoloso restare e non solo per quello che era successo quella sera.

Era pericoloso per l’anima, la sua e quella di Monica.

Quel grigio in cui erano cresciuti, in cui si erano trovati e riconosciuti, gli era entrato dentro strisciando sotto pelle, intossicandoli piano piano come una fuga di gas costante.

Guido voleva un incendio…

Voleva la resa ,dopo la guerra…

Avrebbe indossato il copricapo dell’ultimo giorno del lupo.

 

 

 

 

 

 

EPILOGO


Nei tombini, sotto i ponti,

nelle scatolette di lamiera infuocata…..

con la rabbia tra i denti

sputando coraggio negli angoli

sulle ferite…

nelle occasioni perse

si vedono occhi morire dietro lenti di colla e morfina…

spenti dalla scelta semplice

la scelta giusta….ma giusta per chi?

Ci si tira dietro le macerie di una città perduta…si portano sulle spalle le macerie dei sorrisi insieme a quelle di qualche passante occasionale di marciapiede…di letto…di carestia….è tutta colpa dell’emotività….

dietro la meccanica delle relazioni si perde la rivolta dei respiri….l’anarchia dell’amore non autorizzato…occasionale…. occhi contro occhi…. senza regole ….da quello che nasce dal fango e da quello che resta….contro la nebbia della diretta in globo visione….

ridateci il senso della violenza….contro quello che ci si aspetta….

 

 

 

 

Lo spicchio di luna appesa nel buio aveva una forma strana, leggermente distorta

Rannicchiata tra le sagome dei tetti, sotto i residui delle ore cadute da lancette di carne…

 

C’era un sole pallido…grigio post industriale che si infrangeva sulle persiane di alluminio…era un sole di carta con raggi di gas…

 

La guerra chiede la resa dei conti, dando fuoco a quello che resta della cenere e delle carcasse dei vinti……………….

 

A volte la lotta è la sola cosa che resta……..

A volte la lotta non riesce ad essere un circolo….

A volte della lotta rimane solo la cenere….

 

I cieli cadono sotto corpi speciali e nuvole minate……

universi di carta assorbente

succhiano il sangue delle parole perse …..

restano i vortici della cenere che avvolgono la foresta dei lupi in gabbia….

si respira a stento perdendo il nord …

si piange fuoco….

feriti in trincee di plastica e cemento…

non bastano gli occhi per guardare

questo povero mondo muto di fronte alla nudità…

si rischia di più a camminare senza pelle…

Fumo dalla riserva….

 

C’è una dissolvenza di carne ridicola nelle strade incrociate per sbaglio……

si rimane senza prede e senza predatori in uno sfondo di alberi grigio cemento ….

 

Vertigini corrono verso il centro…

il nulla

la lingua muta…

Si infrangono nello specchio…

si aprono i corpi e le solitudini dolorose

verso un capolinea in disuso

 

Si abbandonano le asce,

ai margini dell’asfalto

senza sotterrarle….

i lupi si scagliano contro altri lupi,

cenere e denti sono quello che resta.

 

 

 

…..E….

 

Ugualmente il sole cadrà

ad ogni occhio chiuso,

 

cadrà su palpebre bruciate,

cadrà ugualmente

su ogni ferita,

seccherà ogni lacrima,

non importa se tua o mia…

E ad ogni caduta sarà giorno,

ad ogni caduta sarà tempo.

 

Dalla parte dei lupi…………….DE LOS LOBOS…….

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