‘Dalla parte del tempo’, di Sonia Giovannetti. Nota di lettura a cura di Stefania Di Lino

 

‘Val d’Orcia’, ph by Sonia Giovannetti

 

Un tempo nel tempo

 

S’aggiunge un altro anno alle mie spalle.

Il silenzio vibra di rari echi lontani

e la luna assorta, scruta il mutare del cielo.

 

Anche quest’anno la mia mano sposta l’ago

che segna le ore. Indietreggia il tempo,

nell’orologio appeso alla parte.

Il recedere mi concede altra vita

e io con diverso filo ripercorro il vissuto.

*

Quest’ora sottratta al futuro

 

distrae Crono e aiuta il mio viaggio.

Nella lieve brezza che lusinga l’onda del mare

incedono i minuti e amico m’appare

questo inaudito presente aperto all’ignoto.

 

M’involo dunque, e trasmigro anch’io

come lo stormo che vola alto

in cerca di nuovo sole. E di nuove maree.

 

E giù, a terra,l’oscillare tenace del pendolo

patisce l’urto del vento che sferza.      

(Sonia Giovannetti, Dalla parte del tempo, Genesi ed., 2018)

 

“L’ignoto della mia vita è la mia vita scritta. Morirò senza conoscere questo ignoto. Come si sono scritte le cose, perché, come ho scritto, non lo so, non so come è cominciato. Non si può spiegarlo. Da dove vengono certi libri? Sulla pagina non c’è nulla e poi di colpo ci sono trecento pagine. Da dove vengono? Bisogna lasciar andare le cose quando si scrive, non bisogna controllarsi, bisogna lasciar correre perché non si sa tutto di sé. Non si sa cosa si è capaci di scrivere” (Marguerite Duras)

 

La nuova opera di Sonia Giovannetti, Dalla parte del tempo (Genesi ed., 2018), si apre con la citazione in esergo di Marguerite Duras, che ben ci introduce nell’impegnativa, atavica dialettica, tra noi e il tempo che scorre.

E’chiaro che la poesia sia sempre un percorso di conoscenza che per primo attraversa chi scrive. Ma è anche un percorso di conoscenza che attraversa il mondo, e Sonia Giovannetti ne offre ampia dimostrazione con quest’ultima opera che ha come tema centrale il tempo. Non si tratta del tempo di Kronos, che pure esiste e fin troppo invade le (nostre) vite come una catena sequenziale di eventi scollegati tra loro, che ci chiude in compartimenti stagni. Mi riferisco al tempo lineare che caratterizza in modo mortifero la società neo-liberista in cui viviamo, il tempo passato (per chi lo passa) a girare, come pesci nell’acquario o criceti nella ruota, meteore vaganti in quei ‘non luoghi’ disumani e spaesanti, detti centri commerciali, mostruosi golem distopici innalzati al dio del consumismo. Ma nel libro, fortunatamente, si respira l’aria distesa del tempo di Kairos, cioè quel tempo a cui gli antichi greci nella loro dimensione pagana, attribuivano un valore sacro proprio perché avevano il senso della finitezza della vita, certi che non ci fosse altro che quel tempo da vivere. Parliamo quindi di un tempo unico in cui accade qualcosa di irripetibile: la nostra esistenza.

‘Dalla parte del tempo’ si avvale di un’articolata e vivace prefazione in forma epistolare firmata da Plinio Perilli, il quale definisce la poesia di Sonia Giovannetti come ‘inattuale’, termine inteso come apprezzamento in quanto poesia distante da coreografie chiassose e scintillanti di un certo ‘attualismo’ prêt-à-porter, o piuttosto direi, usa e getta.

Quindi, pur risuonando di echi classicheggianti – o forse proprio in virtù di questi – che vanno dal verso libero al sonetto, la poetica della Giovannetti, tutt’altro che anacronistica, riposiziona il focus sulla tradizione letteraria italiana, sulla musicalità del verso, e si dispiega, per rimanere in tema, sincrona e sincronica per forma e contenuto, cioè attualissima, nell’affrontare un topos letterario impegnativo attraverso cui si rivela la condizione umana, sia nel suo valore ontologico che nella sua dimensione esperienziale.
Si racconta del tempo gianico, quel tempo cioè che ci comprende e ci racchiude nel suo scorrere. Un tempo in cui è scritto il nostro inizio e la nostra fine. Un tempo che trattiene memoria e torna a donare un significato agli eventi che lo caratterizzano, restituendone a ritroso il senso.
Quel tempo, anzi questo tempo siamo noi, afferma la nostra poetessa nella nota che chiude il libro.
E nella bella dedica iniziale, viene appunto citato il dio Giano Bifronte (il quadrifronte è quello che indica i quattro punti cardinali), un dio italico, anzi romano, seppure ci siano tentativi di assimilazione, come spesso accade,  con altre divinità etrusche e greche. Una divinità importante nel territorio romano, che l’autrice associa, e a mio avviso con ragione, al poeta.
Si  tratta del dio degli inizi, ma anche di un dio ‘soglia’, – a Roma abbiamo l’ottavo colle a lui dedicato, il Gianicolo, considerato morfologicamente in antichità terra di confine tra Roma e l’Etruria; un dio che sovraintende l’entrare e l’uscire; un dio delle nascite che accompagna alla vita come alla morte. E di questo la nostra autrice lucidamente ne scrive rivolgendosi a lui, al dio Tempo – Giano, invocandolo, come in un rito pagano, in chiusura silloge, quasi a bilancio, a p. 82, con la poesia ‘Dalla parte del tempo’ – da cui è tratto il titolo del libro:

Non avere fretta, tempo.
So già dove mi condurrai
so che devo seguirti
ma non avere fretta, ti prego.
Ti temo perché sei morte
ti godo perché sei vita.
Mi avvolgi, eppure mi sfuggi.
Si certezza e illusione.
Sei generoso e avaro
accomodante e inesorabile.
Molto mi hai dato
molto mi hai sottratto.
Ma dimmi: cosa sarei io
dove sarei, senza di te?
E tu senza di me
cosa saresti, quando saresti?
Non posso prenderti, non posso sfuggirti
ma posso odiarti o posso amarti.

Ed è un metafisico interrogarsi sulla condizione dell’essere e del non essere, in una dimensione temporale ineludibile, quella dell’impermanenza, che ci avvolge e ci contiene, ci connota e ci consuma. Tempo come ‘incubatore dell’umano’ non scevro da un aspetto desiderante e utopico che scorre insieme, anzi s’interseca con il principio di realtà a cui il tempo stesso ci inchioda, quello del dovere e della finitezza, ma un tempo inteso anche come attraversamento, o meglio un ‘viaggio’, omericamente parlando, che prevede un Nostos, ovvero un ritorno a sé, a quella Itaca che ci portiamo dentro. Si tratta quindi di un viaggio della conoscenza di sé stessi in relazione al mondo, peculiarità primarie per un poeta, come possiamo leggere a p.34:

Utopie
S’inclina l’albero spezzato dal vento.
Avvinto alle chiome scomposte
resiste il sogno sospeso, della mia Itaca.

Nessun presagio di quiete,
nessun rimedio al disordine.
anche questa notte andrà via
come le altre.

Trascorreranno le ore
in sinfonie smarrite,
in attesa di un tempo che non torna.
Nessun confine al presente.
Siamo ombre al cospetto della luna.

 

Il libro è si suddiviso in tre capitoli.
Il primo è il Tempo dell’io, quello che la nostra poetessa definisce, e cito: ‘E’ lo scorrere del tempo interiore a definirci nella sofferenza nell’esistere per il nulla o per qualcosa’.
In apertura troviamo un elegante sonetto che ci rimanda per la struttura e per l’uso di un linguaggio aulico, alla più classica tradizione italiana:

Il tempo

Dov’è il tempo se non nella memoria
che tutto lega al cerchio del durante
e l’essere fa eterno, e fin la storia
acconcia a tratto immoto del pensante.

Dispensa, il tempo, quella ria illusione
del viver somigliante a un proseguire,
e fa di sua apparenza distrazione
da ciò che sta e ignora il divenire,

giacché nel tempo ha dimora il vero
che non trasmuta né conosce mete
ma sempre torna a sé lungo un sentiero

ove infinito il ciclo si ripete
come in quel fato, amico del mistero,
che porta al riapparir delle comete.

 

Il capitolo contiene anche una serie di testi dedicati a importanti scrittori come Mario Luzi, Dostoevskij, Shakespeare. Oltre al citato Utopia, di questa sezione fa parte un testo intenso sui treni guardati partire, metafora delle occasioni mancate, rappresento da La mia valigia, a p.39.
Davvero struggente trovo la poesia dedicata ai poeti che chiude questo capitolo a p.62:

 

Nella corrente

Ecco ciò che rimane:
un fiume di parole
che la corrente devia
a suo piacimento.

Neanche un paradiso
per i poeti

ché tutto han già visto invano,
prima di scivolare via.

 

Nel secondo capitolo, Il tempo del noi, lo sguardo da interiore si volge all’esterno per ripercorrere e rileggere fatti storici, a partire dal 1915, in cui l’esperienza dei singoli assume valore emblematico per la storia collettiva, fatti a cui l’autrice, lontana dalla pretesa di stabilire un’oggettività storica, ci offre una visione soggettiva attraverso l’escamotage letterario di una esperienza dei fatti ipotizzata su di sé – è un calarsi, insomma, nei panni altrui nel tentativo di restituire suono alle voci perse nel tempo, come ben dimostra la poesia dedicata alla nonna Anna di p.66.
E qui potremmo parlare della memoria e della nostalgia legata ai ri-cordi, ri-torni (dal latino ri-còr-do: re = indietro cor = cuore. Richiamare in cuore, tornare alla mente) quei frammenti di esperienza che possono essere costituiti da volti, persone, da parole, suoni, luoghi, ma anche sapori, odori, che a un certo punto della nostra vita tornano, si ri-affacciano, per dirci che qualcosa è rimasto incompiuto, irrisolto, sospeso (come ci avvisa il ri-morso della coscienza).

 

Il Tempo dei luoghi è il titolo della terza sezione del libro, connotata da una dimensione spazio-temporale in cui il nostro procedere è scandito dalle pietre miliari dei luoghi frequentati e vissuti, quelli che ci restituiscono testimonianza del nostro passaggio. Questa sezione sembra pervasa da una sorta di struggimento nostalgico, riportabile per intensità al concetto tedesco di Sehnsucht, sentimento caratterizzato dal desiderio di voler ri-prendere un tempo trascorso e perduto, e dalla constatazione dolorosa che ‘quel’ tempo non tornerà.

Luoghi fisici con cui scambiamo fermenti, humus, suoni, identità, che slittano su un piano altro, diventando categoria dello spirito, restituendoci la prova del nostro stesso esistere. I poeti conoscono bene l’intimo colloquio con i luoghi toccati, il reciproco riconoscimento: ”I cipressi che a Bolgheri alti e schietti/van da San Guido in duplice filar/quasi in corsa giganti giovinetti/mi balzarono incontro e mi guardar…”, oppure: “…Dolce paese, onde portai conforme/l’abito fiero e lo sdegnoso canto/e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme,/pur ti riveggo, e il cor mi balza in tanto.” come ci tramanda il Carducci.

Dunque noi riconosciamo i luoghi del nostro passaggio, come i luoghi riconoscono noi fissandoci nel ricordo di un tempo che non tornerà. Allora nel poemetto della Giovannetti troviamo Castelnuovo di Porto, luogo della sua formazione primaria; Norcia, dolorosamente  distrutta dell’evento evento sismico del 30 ottobre 2016 – inserita però nel precedente capitolo Il tempo del noi;  e poi, immancabile, Roma, città della vita,  il Tevere, fiume sacro per le sorti della città, e Testaccio, XX rione storico della capitale.

La voce dei miei canti
(a Castelnuovo di Porto)

Terra mia, ti avvolgi intorno
a me che parto, a me che torno.
Da sempre ti appartengo
come un figlio alla madre.
Sai essere la voce dei miei canti
l’inchiostro della mia penna
l’albero che mi tiene avvinta alle radici.
Nel mio vagare da nomade
resti l’unica verità del mondo.
Pane di questo mio andare errabondo.
Sei la culla di ieri e il riposo di domani.

 

In questa sezione, oltre ai testi, sono presenti anche degli schizzi eseguiti dall’autrice, intesi, credo, come fermo-immagine, come appunti di viaggio, o meglio come rivisitazioni mnemoniche dei luoghi topici, poiché, laddove la parola si ferma, diretta e senza mediazioni arriva l’immagine.
Estendendo in tal modo il suo linguaggio espressivo, la poetessa affida al segno grafico, secondo l’uso sedimentato nel tempo dei taccuini di viaggio di molti autori viandanti, (da Villard de Honnecourt a Leonardo da Vinci, da Goethe a . Eugène Delacroixe, e molti altri ancora), il compito di restituire al lettore dei ‘frames’ ancora una volta basati sul ricordo, quindi su una interpretazione dell’interpretazione (la funzione sensoriale dell’ ‘osservare’ è un complesso meccanismo che prevede già un’interpretazione della realtà), e Sonia lo fa in modo fresco e leggero, con un tratto che spesso si auto corregge nella ricerca della forma che il ricordo suggerisce, come a cogliere meglio il dettaglio, i particolari, e la dimensione sentimentale di un percorso inteso anche come flânerie, o, ancor meglio, come tappe di una psicogeografia, in opposizione al dis-valore mercantile del vivere e dell’abitare, nel tentativo di un recupero tanto materico quanto spirituale, che ci riporti tutti a una dimensione essenzialmente più umana.

Guy Debord,  suggerisce come de-costruire le città adottando il détournement (in italiano deviazione o anche distrazione) ‘la deriva’, cioè una sorta di smarrimento rispetto ad una percorribilità imposta e coercitiva che di fatto tende a impedire di vivere i luoghi con la lentezza dovuta per una conoscenza più profonda di chi siamo e dove siamo, (sorvolo sul perché) in virtù di questa relazione stretta che ci lega ai luoghi.

Dice Debord:
«Per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da portare al centro del campo visivo l’architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. “Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari”, afferma il filosofo cineasta, quindi siamo lontanissimi, anzi in netto antagonismo con il concetto commerciale delle città vetrina, merce spesso avariata/tradita, offerta a caro prezzo a turisti facoltosi, causando il depauperamento del territorio dalle sue radici storiche, con la conseguente gentrification.

I disegni, gli schizzi, quelli che il Canaletto riferendosi a suoi, chiamava ‘scaraboti’, nel libro di Sonia Giovannetti sono ben integrati, organici ai testi e lontani, per fortuna, da una pretesa fedeltà al reale che pure nei tratti è riconoscibile: un’ulteriore narrazione nella narrazione, di un tempo questo, raccontato dall’autrice, che è anche il nostro.

Stefania Di Lino

 

Sonia Giovannetti è nata nel 1963 a Roma, dove vive. Ha pubblicato di poesia: Ho detto alla luna (Aletti, 2012), Tempo vuoto (Tracce, 2013), Un altro inverno (Kairòs, 2015), Dalla parte del tempo (Genesi, 2018); di narrativa: Le ali della notte (Armando Curcio, 2014). Sue poesie sono presenti in numerose antologie tra le quali: Edi-thon(Penna d’Autore, 2012), La luce oltre le crepe (Bernini, 2012), Roma Città delle meraviglie (Lepisma, 2013), Poeti per il giorno della Memoria (Centro Pitigliani, 2013), Magia (Lepisma, 2014), Lettura di testi di autori contemporanei (The Writer, 2014), I mali in-curabili (Pironti, 2016), Il segreto delle fragole (Lieto Colle, 2018). Collabora al blog letterario “Alla volta di Leucade”. Molti i riconoscimenti, tra i quali il Premio dell’Accademia Mondiale della Poesia di Verona, il Premio “Scriveredonna” presieduto da Maria Luisa Spaziani, il Premio di Spoleto Festival Art Letteratura, il Certamen Apollinare Poeticum 2019 dell’Università Pontificia.

 

 

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