Due poesie e due estratti de “I miagolatori” (Marco ed Oliviero)

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UNA PESCA D’ESTATE (di Oliviero)

Una pesca d’estate

ricordo

di notte

rotondeggiante,

profumi di spinelli di marijuana

sulla scalinata di Sant’Ambrogio,

carnosa succosa zuccherina,

dolcissima profumata bianca,

rossa,

sottile vellutata

Sicilia tratteggiata sulla spalla di una statua antica eterna

che dondolava sull’amaca sospesa

all’infinità del cielo e alla finitudine del Tempo

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A picco,
Come un veliero
Sconfitto dalla bufera
E destinato a futuri
Raid subacquei.
Enumero,
Negli eterni istanti
Della caduta,
I giorni sussiegosi
Del tempo mal speso.
(di Marco Incardona)
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LE RAGAZZE DEL JAZZ CLUB (di Oliviero)

(Movimento letterario fiorentino dei Miagolatori, racconto, 2016)

Il tempo del commiato è giunto. “È come se in Olivier la vita avesse mantenuto una poeticità incontaminata, come se il mondo fetido di nefandezze non avesse mai insozzato il suo sguardo incantato”, disse Marco Incardona. Nel bagliore rossastro del tramonto, mi rimarrà magari il tempo di guardare con un’infinita malinconia le mie mani che hanno tenuto la mano di tante ragazze.

Come siete belle, ragazze del Jazz Club, quando assomigliate a Norzia, la dea, il cui santuario si trovava a Volsinii. Nella parete del tempio, per computare gli anni, veniva infisso un chiodo. Nelle pagine del mio piccolo libro, vorrei anch’io clavum pangere, oggi.

Forse Tiresia, l’indovino, avrebbe detto: “Non vorrei essere nei panni di chi si innamorerà di una dea”… Ma quando sarò crepato, nemmeno il fatto che Norzia, divinità etrusca della Sorte, abbia rifiutato di andare a bere un ultimo caffè mi recherà più alcuna tristezza…

Norzia e le ragazze del Jazz danzano con grazia il jazz a Firenze… Mi piacciono codeste alliterazioni in zz, queste assonanze. Sembra un brano musicale, il rumore del vento, la canzone dei miei passi sotto la pioggia primaverile in piazza Sant’Ambrogio, una traccia del tempo. Meglio ancora, sembra il mio vecchio giradischi dal braccio pesante e quel disturbo indispensabile, il classico fruscio magico e indimenticabile, il gracchiare dal fascino unico della puntina sul disco in vinile vissuto. La musica, come l’amore, è più vera con ronzii, scricchiolii e fruscii.

Alcuni clubs di jazz, in passato, servivano di luoghi segreti di ritrovo a dissidenti politici? Per me il tempo dell’esilio sembra lontano. Temo poi che molte persone non sappiano che ci sono ancora esiliati nell’Occidente di oggi. Temo che non sappiano che ci sono ancora reati d’opinione. Io, da buon libertario, me la sono presa con la più abominevole truffa, con il più pericoloso tabù dei nostri secoli. Ma che importanza, anche se tante ragazze non mi avessero mai capito? Rinuncio spesso volentieri a spiegare che, cacciato via dal paese in cui ero nato per aver fatto uso ed abuso della famigerata libertà di espressione, ho trascorso più di vent’anni a Firenze nella miseria, vivendo come un piccolo fratello di Aldo Sernesi detto Bob. O forse come Gigi, il baco parigino di Riccardo Marasco. Forse le ragazze del Jazz Club non mi crederebbero. O mi darebbero del mitomane. Sanno poco o nulla di me? Non sono in grado di immaginare la millesima parte del mio destino? Va bene così.

Le ragazze del Jazz Club si muovono, dondolano a ritmo di jazz. L’aria della notte vibra di eterna giovinezza. Le ragazze del Jazz Club fumano, bevono, fanno il broncio, flirtano, si baciano, fanno all’amore. Forse sono le giovani flappers di una festa di Francis Scott Fitzgerald. Oppure escono dalle pagine di Henry Miller a cui mia nonna chiese di essere mio padrino, lui rifiutò. Le ragazze del Jazz Club ballano carine, smaliziate, scollate. Erotismo, glamour, vibrante bellezza. Do you think the – ah – petting-party is a serious menace to the Constitution?”… Forse da qualche parte, in un angolo c’è Alabama Beggs, l’eroina dell’unico romanzo di Zelda. Lasciatemi l’ultima danza al Jazz Club…

Da qualche anno faccio ritorno a Firenze, ogni tanto, per trascorrere alcune settimane di vacanza nei luoghi che furono il teatro del mio esilio e di tante mie storie d’amore. E’ giunto al suo termine sommo il mio eroico tentativo, tragico e destinato a fallire, di fissare e di inchiodare l’inarrestabile scorrere del tempo. Come siete belle ed emozionanti quando assomigliate alla Fata turchina, la bella bambina dai capelli molto scuri, di un blu nero. Come siete belle ed emozionanti quando assomigliate a Caterina Brogi, a Veronica Cibo, alle bambine more e ricce della mia adolescenza, alle Figlie dei Fiori degli anni settanta, ad ieratiche chiare fresche dolci madonne rinascimentali oppure ad incontenibili Baccanti dai capelli sciolti inghirlandati che Euripide descrisse con corone di edera, di quercia, di smilace fiorita, voi che ballate nel cuore della notte, fanciulle del Jazz Club!

Ultima scena. E’ uno di quei momenti della vita in cui si avverte il bisogno di scattare una fotografia che rimarrà nella memoria. Cantava Paolo Morelli, “Quante foto con amore che mi avrà lasciato e quante le notti di mare che son stato con gli occhi alle stelle a pensarla”. Fine della notte al Jazz Club. Una semplice fotografia. O forse molto di più. Un bivio dell’esistenza. Alba primaverile. Notte di maggio. Cinque di notte. Le porte del Jazz Club si sono appena chiuse. Una ragazza seduta. Porta un vestito estivo leggero multicolore, che lascia scoperte spalle e cosce. Sembra che cadano dal soffitto turbinii psichedelici di colori leggermente fluorescenti, che ricordano in qualche modo un arcobaleno. Sembra un acquario. C’è soprattutto del verde, del blu, del giallo, del viola. La ragazza abbraccia le belle ginocchia nude rotonde e lisce, graffiate durante una passeggiata notturna tra i roveti, per aver trovato un varco sui cammini di un tempio antico. Sembra malinconica, grave, pensierosa. Una sirena? Forse fa parte della razza dei “pesci fuor d’acqua”? Forse è stanca, ha ballato troppo, ha rotto un tacco delle scarpe. Insonne o assonnata, con il pensiero si trova in una casa silenziosa di campagna, da sola, in una stanza piena di libri. Il viaggio della vita mi ha lasciato ricordi nella mente, emozioni nel cuore, segni sulla pelle. Ma la festa la più bella, in cuor suo lei sapeva?

Latina, una chitarra suona e le note salgono nell’aria della sera, argentina, italiana o chissà spagnola. La festa è stata bella; è stata splendida. Il mio cuore è in lacrime. Cala il silenzio. L’orizzonte si allontana. Ogni slancio è rotto. Il Tempo al capolinea. Quanta solitudine. Festa e battaglia, o Dèi, devono finire. Rabdomante, andai sempre in cerca della bella morte. Ecco la fine delle splendide feste. Le ragazze hanno l’età del mio esilio.

Un giorno però non fui solo facendo all’amore. Ninfette del Jazz Club, cosa ricorderete? Quanto fu breve il tempo delle gonne corte! Ma voi sapevate, vero, il nesso tragico che v’è tra tempo e destino? Le ragazze del Jazz Club danzano con grazia il jazz a Firenze…

Brano tratto dal libro “Le ragazze del Jazz Club” (2016).

Si veda il blog dei Miagolatori (su WordPress), movimento letterario attivo a Firenze, fondato da Olivier e Marco.

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(da “L’uomo che sparì fra i rifiuti” di Marco Incardona)

Dovunque avesse cercato il Profeta, si sarebbe rivisto nel filo della memoria, nello specchio frantumato del tempo, nello sguardo affranto di un mondo non più riconstituibile. Dovunque avesse rivolto lo sguardo, si sarebbe rivisto con gli occhi di quello che era stato, di quello che aveva smesso di essere per vigliaccheria, ambizione ed egoismo. Perché girarci intorno? Si trattava forse di qualcosa di diverso? Quale altro velo avrebbe dovuto cercare di tagliare, se non quello che egli stesso si era creato con il suo comportamento passato? Scoprendo quel velo che, separandolo dagli altri esseri umani, lo aveva accomunato ad essi in un unico cammino fatto di cecità ed egoismo, avrebbe forse visto quello che stava cercando, ma non si sarebbe dovuto sorprendere se poi gli altri, non avrebbero capito, se lo avrebbero sbeffeggiato, preso per un pazzo.

Anche questo faceva parte del destino che si stava formando davanti ai suoi occhi, il destino che lo faceva d’improvviso adagiare nel passato, mentre durante tutta la vita non aveva fatto altro che truccare il futuro occupandosi solo del presente.

Per cominciare le ricerche, aveva deciso di contattare un vecchio amico, Emanuele Perone, un amico dei tempi dell’Università, che, dopo un percorso tortuoso, era riuscito a farsi strada nel mondo del giornalismo. Dopo aver passato tanti anni a Milano e a Roma, aveva deciso alla fine di tornare alla casa madre, alla vecchia Firenze in cui aveva passato gli anni spensierati della giovinezza.

In effetti, chi meglio di un giornalista avrebbe potuto dare delle informazioni interessanti su un fantomatico Profeta attivo in città. Pure in un mondo come quello, in cui la mistica e la spiritualità destavano poco o nullo interesse, anche solo per additarlo come l’ennesimo ciarlatano, l’ennesimo predicatore della domenica, fondatore fasullo di sette insensate, la presenza di un personaggio del genere, doveva pur destare l’interesse dei giornali.

Magari tra le curiosità, tra gli articoli di faits divers, il giornale diretto dall’amico, doveva pure aver dato la notizia del cosiddetto Profeta, in qualcuna delle sue uscite.

Dopo tutti quegli anni di distanza Emanuele, il direttore di giornale, era ben contento di poter aiutare l’amico di un tempo, ma a sentirsi raccontare quella storia assurda, non aveva potuto credere a quello che stava ascoltando. Non poteva credere che Marco Incardona, lo scrittore affermato e conosciuto in tutto il mondo, potesse essere davvero venuto là per raccontargli una cosa del genere, credendo davvero all’esistenza di un Profeta a Firenze.

Forse aveva solo voglia di scherzare, ironeggiare sui continui paradossi del fluire umano, o forse aveva solo voluto mischiare la fiction del suo nuovo romanzo in cantiere, con la realtà, come se i due piani fossero del tutto intercambiabili. Ma perché questa storia del Profeta? Cosa gli era venuto in mente? Da quale cilindro l’aveva tirata fuori? In un mondo ipertecnologizzato altro che profeti!

I miagolatori


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