Hashish e mozzarella (PARTE 1)

Io e Marco lavoravamo a Roma, in una ditta all’ingrosso, con rivendita anche al dettaglio, di mozzarella, sia di bufala che vaccina e altre specialità alimentari della Campania.
La mattina alle cinque uscivo e facevo il giro delle consegne. Ristoranti, bar, salumerie, supermercati di tutta Roma. Torrevecchia, Casalotti, la Balduina, il Quartaccio, Ponte Galeria, Tor Pignattara, la Romanina, la Cassia, Ponte Milvio, Boccea, la Flaminia,la Trionfale, l’Ostiense. Gli affari andavano abbastanza bene. Tre volte la settimana, terminato il giro, andavo a Sant’Anastasia, Marcianise, Acerra a caricare anche altri prodotto tipici.
Marco era il figlio del principale.
Un gran bel ragazzo alto, moro, di pelle olivastra che, consapevole della sua avvenenza, non riusciva a decidersi su cosa fare da grande, combattuto tra l’occasione che suo padre, ex detenuto di lungo corso gli offriva, le sue velleità artistiche da “attore” pompate da chi sapeva stuzzicare la sua strabordante vanità e l’imitare le “gesta” del suo vecchio. Questo è l’incubo con cui ogni ex “fuorilegge” con un minimo di cervello deve convivere: l’emulazione da parte di figli che per mille motivi, odio compreso, vogliono dimostrare di essere “più in gamba” e “degni”.
Io invece ero un ventiquattrenne la cui unica certezza era il casino . Casino senza soluzione di continuità, che da ormai dieci anni mi accompagnava e da cui non mi interessava neanche venir fuori, tutto quel che volevo era aver abbastanza soldi per non dipendere da nessuno e aiutare un po’ i miei che non se la passavano tanto bene. Mia madre era operaia in una fabbrica tessile e mio padre, seppure avesse ottenuto la semilibertà dopo 10 anni di gattabuia, non guadagnava molto. La semilibertà è un beneficio a cui accedi dopo aver scontato più di metà della tua pena e SOLO se hai un’occupazione: consiste nel poter uscire la mattina per andare, appunto, al lavoro e rientrare in carcere quando smonti. La questione è proprio questa: un sacco di “cooperative sociali” ed “onlus senza scopo di lucro” su sta cosa hanno costruito fortune immense, visto che chi è dentro sarebbe disposto a lavorare gratis per uscire anche poche ore dal carcere. La libertà è come la salute, una di quelle cose che dai per scontate invece non lo sono neanche un po’ e quando non le hai faresti di tutto per recuperare, PERSINO pagare il posto di lavoro che ti vendono e, fidatevi, succedeva. Gente che si arricchiva vendendo posti di lavoro non necessariamente retribuiti e gente che si svenava per assaporare qualcosa di simile ad una vita normale finendo poi per ricadere nelle stesse vecchie trappole . Mio padre però era riuscito a trovare un impiego pagato, MALE, ma pagato. Fatto sta che i soldi erano pochi e io cercavo di fare qualcosa per dare una mano. Poi un giorno io e Marco andammo a portare la mozzarella ad un cliente che aveva una pizzeria ad Acilia, Ahmed. Ahmed era tunisino, aveva sposato la sua datrice di lavoro e così si era sistemato.
Un bell’affare, visto che la pizzeria andava bene e Cristiana, sua moglie, era anche una bella ragazza.
Mentre andavamo Marco iniziò a parlarmi di soldi facili e dei modi in cui si potevano fare:
-Ti spiego- esordì

-Siccome ho per le mani un buon affare mi stavo chiedendo se ne valesse la pena. C’è Ahmed che ha del buon fumo a prezzi stracciati, ha detto che ci dà un kg a due milioni, (c’era ancora la lira, NDA) uno alla consegna e uno dopo una settimana, così visto che mi sembri abbastanza pratico volevo sapere se ti interessa fare sta società.
Poi magari se va bene più avanti ne prendiamo altro. Ti interessa o no? –
Continuai a guidare. Marco non era cattivo, solo un po’ scemo, molto viziato ma, come tutti quelli fatti così, convinto di essere un gran dritto. Parlava sempre di soldi, affari, assegni e banche, ma era suo padre che si occupava di tutto, anche se immagino avesse grandi aspettative nei suoi confronti.
-Due milioni, hai detto? Beh. Io due milioni non li ho. Se vuoi fare metà ciascuno devi anticipare tutto, quando poi incasseremo ti prenderai il tuo guadagno e il credito-.
Una volta arrivati ad Acilia, scaricai tutta la merce mentre Marco parlava con Ahmed e sua moglie con la sua aria da scaltro e giovane imprenditore. Che nervi.
Suo padre aveva fatto un bel gruzzolo importando coca dalla Bolivia dove aveva anche aperto qualche ristorante, così dopo l’arresto la sua famiglia era comunque riuscita a vivere agiatamente, grazie anche alle “conoscenze” che il vecchio aveva. Mio padre invece era sempre stato un cane sciolto, un rapinatore di banche senza alcun “legame” e durante la sua detenzione avevo visto sfasciarsi tutto quel che avevamo intorno.
– E ‘sto deficiente si pavoneggia come se tutto ciò che ha l’avesse creato lui- pensavo, mentre riportavo nel furgoncino i secchi vuoti.
Poi Marco mi chiamò.
Entrai in pizzeria e mi presentò ad Ahmed. Gli strinsi la mano e lui mi strizzò l’occhio, poi si avviò all’entrata ed abbassò la saracinesca del locale.
Ci sedemmo a un tavolo e Cristiana portò delle birre, mentre Ahmed cominciò ad armeggiare col bancomat e la coca.
Fece sei striscioni belli lunghi .
– ALLORA, LO FACCIAMO ST’AFFARE?” disse sfregandosi le mani subito dopo aver inalato le sue due strisce. Guardai Marco e dissi – ok, tocca a me- .
Aspirai e, cazzo, sembrò che la sedia volesse sollevarsi, che mi fossi allungato di due metri, che il Padreterno dovesse chiedermi scusa per qualcosa.
Buona coca, davvero buona.
Mi sforzai di rimanere zitto e non dire qualcosa di cui mi sarei pentito una volta arrivato in “down”. Conosco quella merda, è la droga più falsa che esista, ti fa dire cose da ubriaco senza averne l’aria. Neanche l’eroina è così perfida. Aspettammo che Marco pippasse le sue strisce e lasciai parlare lui. Finii la birra che ancora erano lì a parlar di puttanate senza aver ancora minimamente accennato al loro grandioso “affare” così mi avviai fuori convinto che tutto si sarebbe risolto in un nulla di fatto e iniziai a chiedermi dove avrei potuto trovare della buona eroina per far fronte al down che non avrebbe tardato a presentarsi.
Finalmente Marco arrivò dicendomi che avevano concluso, mostrandomi 5 panetti di Hashish .
Arrivammo al negozio, accendemmo la bilancia che si usa per i salumi ed iniziammo a fare i pezzi da dieci grammi.
Il giorno dopo, per portare l’hashish a Napoli lo impacchettai per bene prima nel cellophane e poi nella carta stagnola, infine misi tutto sul fondo di due secchi dove versai la “resa”: Mozzarella invenduta che ritiravamo dai negozi dei clienti, un ammasso fetido di poltiglia il cui colore variava da tutte le sfumature del giallo, verde e marrone al bianco.
Ero sicuro che neanche se ci avessero fermato le unità cinofile avrebbero trovato niente.

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