“Le inenarrabili tribolazioni della Poesia in tempi di barbarie” di Lodovica San Guedoro

Quest’antologia di prose, curata da Lodovica San Guedoro, “Le inenarrabili tribolazioni della Poesia in tempi di barbarie”, è un insieme di brani tratti da opere più complesse e articolate, romanzi della stessa San Guedoro e di altri due autori, Johann Lerchenwald e Carlo Maria Steiner; si possono leggere anche frammenti di raffinate pièce teatrali, per opera della stessa curatrice; il libro si configura dunque come una ramificata auto-antologia a tre voci e in quest’anomalia c’è uno dei molteplici motivi d’interesse del testo. È senza dubbio una raccolta inusuale, intensa, caotica, che grazie a questo caos mantiene una stralunata, sfrontata, insolita freschezza.

Ci s’immerge volentieri in questi brani, per la forza di una polifonia intrapsichica, nel senso di Deleuze (“colloquio d’intersoggettività segrete”); l’idea dell’opera letteraria come collage di frammenti eterogenei è senz’altro contemporanea e suggestivamente moderna, però, inevitabilmente, per sua natura il testo sconta un forse eccessivo senso di dispersione.

Nei suoi brani qui riportati, Lodovica San Guedoro si conferma, infatti, una scrittrice eclettica, capace di passare dalle atmosfere da thriller in quella che sembra essere una parodia di un noir, dal conturbante titolo di “Incitazione a delinquere”, al discorso sempre parodistico in chiave stilistica di “D’Argolo e Ginevra trasgressive le avventure“, alle mirabolanti imprese di una gatta, alla scrittura pura, dolorosamente spietata verso se stessa e il mondo ma anche calda e avvolgente di “Requiem di Arlecchino”; nel romanzo “I Simplicissimi“, invece, attraverso il memorabile personaggio di Ortensia, racconta, sin dall’infanzia, l’incantevole e incantata formazione di un’artista inquieta, ribelle ed elegante, nelle sue sottili esperienze percettive ed estetiche, in un mondo serrato fra due terribili guerre.

Quelle della parodia mi sembra una cifra stilistica; in senso etimologico San Guedoro traccia una linea di scrittura parallela alla fiaba ne “Le memorie di una gatta”, romanzo eccezionalmente stratificato, altrove fa la caricatura di un grammelot poetico classicheggiante, intercettando i guasti interni a un linguaggio culturalmente egemone, di per sé ormai parodistico, un suo romanzo, “Fedra e le mammine nei caffè”, appare come un piccolo saggio di estetica, nostalgia di un poema classico, laboratorio di scritture e si realizza come un’intensa e perturbante variazione sul personaggio di Fedra, variazione tutta interna ai meccanismi artistici che nei secoli l’hanno forgiato, prisma letterario che da Euripide arriva a Racine e D’Annunzio.

Parodie di parodie, se vogliamo, letteratura da trickster deleuziano che mima i gesti del Potere culturale vigente e mimandoli li irride e li detronizza. Per questo, a proposito della scrittura di Lodovica San Guedoro, parlerei di satira barocca, dove il barocco, naturalmente, non è solo un periodo storico o una modalità espressiva al pari delle altre ma l’essenziale e originaria esuberanza di forme del reale, la felice o grottesca abnormità dello spirito umano. E la satira è mossa da un profondo sdegno morale che emerge in diverse parti, dunque prorompe in una condanna che si rivela definitiva. Condanna del pensiero massificato, della “bovina indifferenza” della massa e degli intellettuali che, per un misero posto al sole, diventano suoi corifei o suoi esegeti. Questo è un tratto comune agli altri autori presenti. Bello come Lodovica San Guedoro, introducendo un brano da un romanzo di Johann Lerchenwald, distrugga “Porci con le ali” di Lidia Ravera, denunciandone la piattezza espressiva e la bruttura morale, cose mai disgiunte. O come quando nella commedia teatrale “L’amore è stufo”, condanna la liturgia burocratica del Teatro di Stato, vedendone, giustamente, la grottesca parentela con altre liturgie. Passo splendido di cui posso riportare solo questa frase, in cui Lodovica San Guedoro sembra jazzare la lingua alla maniera del Kerouac poeta di “Mexico City Blues”:

“È il sommo sacerdote infatti della combriccola dei sacerdoti del Teatro di Stato, dell’antichissima dinastia dei sacerdoti Bing, che hanno amministrato il culto per millenni suonando il gong nel paese dei Ding. Più suonato di lui non c’è che il papa.”

Se ci pensiamo, è una gelida e sferzante lettura antropologica. Una giusta condanna perpetrata a chi fa precipitare i veri artisti in una tragica marginalità. Pungente e arguto l’attacco al Cristianesimo. Se lo merita. Spero che nessuno dei rari esseri ancora realmente pensanti osi avere dubbi in merito.

L’antologia ha un incipit memorabile per certi versi, criticabile per altri (poi vedremo in cosa):

“Nacqui verso la fine dei tempi moderni, poco prima che incominciasse il nuovo Medioevo, scrisse una volta Hermann Hesse. Nacqui e vissi in pieno Medioevo, mio caro, gli rispondo io…
Nessuna pietà, nessuna solidarietà, nessuna comprensione per chi indica all’umanità i sentieri della Bellezza. Per gli animali in via d’estinzione, per i bambini siriani, tanta, tanta pietà e solidarietà; per i vecchi in tempo di coronavirus tante e tante lacrime, fermiamo il mondo per loro: ma nessuna pietà per te, povero artista! Tu puoi crepare tranquillamente sotto un ponte, nel tuo letto, sotto un tram, che importanza ha?”

Così entriamo subito nel vivo della questione; attraverso queste parole e altre invettive nascoste nei suoi romanzi, Lodovica San Guedoro testimonia di questa tragica impasse: la parola di un artista autentico fatica sempre di più per arrivare al pubblico, a qualsiasi pubblico, non c’è più il pubblico, tanto da farci pensare che forse esso pubblico non ci sia mai stato, era un sogno. Forse esisteva in quei paesi dove c’era un’élite di lettori, quella che Leopardi definisce “società stretta”, non qui, in Italia.
E comunque, in questo mondo globalizzato, aldilà delle desuete differenziazioni territoriali, già lo sapeva Allen Ginsberg: “È diventato ormai impossibile che una parola autentica giunga ai media di massa”.

Tuttavia l’idea che agli artisti si debba rendere la vita più facile non convince e nemmeno l’idea che essi abbiano bisogno o addirittura ricerchino la pietà, sempre rancida e molesta, dei propri (dis)simili.

Da Heidegger sappiamo che un pensatore ha bisogno come l’aria di qualcosa che gli si opponga, da Baudelaire abbiamo imparato che un grande spirito per esistere deve avere la forza di superare le resistenze che milioni di uomini hanno sviluppato, grazie ad Artaud abbiamo scoperto che l’artista autentico brucia di una scossa in grado di modificare l’asse terreste, e viene suicidato da una società in cui egli può sussistere solo in qualità di capro espiatorio, come in Italia dimostra la terribile vicenda di Aldo Braibanti; Pound conferma che l’eccessivo consenso distrugge un poeta etc

Certo che l’opposizione che il creatore, l’artista, il pensatore, il poeta, cercano, non è il dormiveglia, peggio se istruito, di gente narcotizzata dalla televisione, che Lodovica San Guedoro evoca così bene, scrivendo del suo primo reading toscano, in cui la magia della risonanza con altri corpi che si andava formulando fu interrotta dal ronzio televisivo fuoriuscito da una stanza attigua. Come non comprendere il fatale sdegno che emerge perentorio fin dalle viscere della scrittrice che, dopo la solitaria e dura fatica compiuta per conquistarsi uno stile, si vede detronizzata da un elettrodomestico!

Mi rendo conto così che ogni artista autentico subisca il torto di una profonda ingiustizia- ed è proprio questo dolore che lo forgia – e reagisca a questa ferita in modi diversi. Quello di Lodovica San Guedoro, allontanandosi dall’Italia, è un gesto estetico di un’inequivocabile chiarezza artistica e quindi sottilmente politica. Bisogna farci i conti. È l’esilio di un talento ingiustamente rifiutato e che forse non è ancora riuscito a vedere totalmente, con la chiarezza di un destino, in questo rifiuto l’origine stessa della propria autenticità.
Inoltre, non bisogna, dimenticare che la rabbia, causata più dall’ingiustizia che dal rifiuto, mi sembra di poter dire, è per l’atto artistico uno straordinario motore, come testimoniano i molti romanzi che Lodovica San Guedoro ha pubblicato in Germania con l’editore Felix Krull, per il quale è uscita anche quest’antologia. Eppure anche là, in Germania, ha trovato gli stessi zombie, gli stessi ”ciechi di spirito”, le stesse “larve” di qui, è davvero un fenomeno che investe tutto l’Occidente, perlomeno.

Digressione: anche chi scrive, sin dall’adolescenza ha subito l’attacco di questi miserabili che il poeta Angelo Tonelli, in un suo recente saggio sull’orfismo, definisce come meri ”aggregati karmici” e non come reali esseri viventi. Kapò meschini e piccoli borghesi, mossi unicamente dalla volontà di punire e declassare ciò che il loro povero intelletto ammaestrato non capisce. Davvero gente “della razza di chi rimane a terra”, come nelle autoassolutorie, e quindi ipocrite, parole di Montale, che, comunque, rispetto a queste persone, rimane un gigante. “Della razza di chi rimane a terra”, costoro gongolano sentendosi in questo vicini al Vate che li lusinga ma, in verità e in cuor loro, non avrebbero mai dovuto smettere di zapparla codesta terra, visto che non sono in grado di “tenere i piedi saldamente poggiati sulle nuvole”, come scrisse Flaiano a proposito del primo Carmelo Bene. E dunque, eterno anatema su di loro! Esseri più che inutili, dannosi. Fine della digressione.

Quella di Lodovica San Guedoro è una scrittura guerriera, che si è dovuta armare contro l’impermeabilità di un mondo indifferente e perciò assassino; ma è necessario abbandonare ogni recriminazione e ogni lamentela. Ricordo una frase di William Butler Yeats: “L’eroe scopre se stesso nella sconfitta, il poeta nella delusione.”
Certo, l’apatia del nostro paese ha qualcosa di spaventosamente cinico, che va risolutamente condannato, non si tratta di un cinismo originario (Diogene il cane, visto attraverso gli occhi di Onfray) o almeno elitario (Schopenhauer, Stirner) ma di un cinismo opportunistico, antipoetico, volgare, antivitale, che già Leopardi denunciò nell’Ottocento, un cinismo sempre più cronico e ottuso, sempre più conformistico e perciò criminale. Il cinismo di gente decapitata, mutilata di tutti gli orizzonti, “Hollow Men” che aspettano un Godot che non arriverà mai. Fenomeno che in realtà riguarda tutto l’Occidente, non possiamo dimenticare Nietzsche. Tracciamo una riga su tutto ciò e andiamo oltre. E diciamolo con forza una volta per tutte. La poesia non vende? E chissenefrega. La poesia non è una merce. Non ci avrete.

Ascoltiamo ancora una volta Lodovica San Guedoro:

“[…] quest’arte estremamente inventiva che la falsa opinione degli uomini chiama follia e che, parente del sogno, della poesia, dell’astrologia, della magia, della divinazione, della commedia e della tragedia, conduce l’iniziato a sublimi altezze e a terrificanti abissi, irraggiungibili dagli altri comuni mortali, che solo i poeti sono in grado di avvicinare, che meravigliosamente Parsifal, il puro folle, fu predestinato col suo piede a cavalcare; gli fa provare sentimenti e vedere cose che… Ma vediamo quali cose. Diamo inizio alla cronaca”.

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