Una cosa da nulla (racconto)

dovevo partire col treno delle sette. Un paio d’ore per tornare a casa, tutto lì. C’era questo capannello di gente vicino al box della polfer così mi avvicinai per capire. Avevo un piccolo trolley verde che conteneva tutto il mio apparato di libri fotocopiati per la tesi in storia dell’arte medievale che avrei discusso a giugno, più il regalo che mi aveva fatto Amanda e che avrei aperto, com’era suo desiderio, il giorno del mio compleanno. Non è che avessi tutta questa voglia di tornare a casa e poi la pioggia, un sonno incredibile e un mal di testa da sbronza, anche se non bevevo da mesi, insomma, partivo, quasi potrei dire, per prassi.
L’agente della polfer era ancora lì che discuteva animatamente; portava un insolito cipiglio, folto, grasso, ramato e aveva una gran folla attorno che tentava di dissuaderlo. Era visibilmente teso, teso e goffo e non pareva convincersi di nulla; ancorché titubante l’ombra d’una lontana doglia per chissà per quali garbugli risalita, voleva per forza multare quel tizio col cane.
Il tizio se ne stava in disparte come se il mondo non gli appartenesse. Una distanza che gli dava ragione di qualcosa.
Un tempo i poliziotti non avevano questa paura d’esporsi e anche la gente si guardava bene prima di attaccarli; ma questa volta il poliziotto l’aveva fatta grossa e i primi che lo rimproverarono furono i suoi superiori. Se lo portarono dentro e così a un po’ alla volta il corridoio si liberò e la gente di nuovo si disperse.
L’uomo era alto e aveva un lungo cappotto marrone chiuso con una cintura. Portava vistosi occhiali da sole e una barba di alcuni giorni. Era poggiato con la mano sinistra al corrimano d’acciaio che delimita il paracolpi e aveva una gamba tirata indietro sul muretto basso inclinato, nel cui scolo s’ammassavano centinaia di mozziconi di sigarette. Con l’altra mano accarezzava la testa del cane. Visti così, sembravano una rappresentazione dell’amore dopo l’amore.
“Non ci voleva molto a capire che era cieco”, disse una signora che intanto s’era avvicinata, e mi tirò addosso due occhi marroni a metà tra lo sdegno e la vergogna.
“Non lo so”, dissi, “non ho assistito” (mentivo); guardai l’orologio e feci per allontanarmi ma lei mi seguiva: “è che sono arroganti e anche un po’ stupidi”, aggiunse, e lo disse con una specie d’orgoglio addosso, come aspettando da me una reazione, una qualunque, che la contenesse e le desse una forma qualsiasi di pace; “mica si pentono poi, sa, sono anche testardi, io ci sono passata non lo dico così per dire”.
Dunque era successo che il cane, un bel pastore, aveva fatto i suoi bisogni proprio lì al centro del corridoio e il cieco ovviamente non se ne era avveduto. Un discreto composto. Così il poliziotto poté sfoderare tutta la sua autorevolezza rimproverando il poveruomo col tono perentorio dei gerarchi o degli stronzi, come se quella fosse la sua Occasione, finalmente; e lo rimproverò a lungo, senza accorgersi che fosse cieco. Una cosa da farsi venire le lacrime.
La donna era magra, coi capelli brizzolati e corti, e uno smalto rosso molto forte che metteva in risalto mani secche quasi scheletriche. Mi raccontò questa cosa e piano piano si avvicinò opprimendomi. Non aveva un buon odore e io non avevo nessuna intenzione di approfondire la sua conoscenza così mi girai per prendere il trolley e andarmene, ma il trolley non c’era più. Maledizione d’un cieco, pensai.
I libri per la tesi avrei potuto rimediarli, fotocopie e quant’altro, ma il regalo di Amanda, beh, quello mi dispiaceva parecchio averlo perso. E visto che avevo perso anche il treno decisi di entrare nel box della polfer per esporre denuncia.
Manco a dirlo mi ricevette lui.
“Mi dia il suo documento”, mi disse; “cosa c’era nella valigia?” Dissi tutto quello che c’era da dire, compilai un modulo, firmai, poi, quando ritrovai una certa calma gli chiesi: ma cosa è successo prima? scusi, sa, sono un po’ curioso. Prese una penna da un astuccio e cominciò a tormentarla. “Niente”, disse, “solite cose”, la gente è solo imbecille, e io sono stanco”. Aveva un neo bello grosso proprio in corrispondenza dell’occhio sinistro e un bottone della giacca penzolante, quasi in procinto di cadere. “Cosa fa qui?”, disse, “studia?”. “Si”, risposi, “sono uno studente fuori sede, torno per le vacanze pasquali al mio paese”. Gli cadde la penna e avrei voluto raccoglierla, ma la lasciai li. La stanza era discretamente ordinata, scarna e grigia, una scrivania con pochi ornamenti, quattro sedie addossate alla parete e un appendiabiti vuoto. A sinistra una porta immetteva in un piccolo vano da cui entravano e uscivano i colleghi, spazi inquietanti, una forma d’esistenza anche questa. Entrò un’anziana coppia e rimase ferma nell’angolo aspettando che qualcuno si prendesse cura di loro ma nessuno pareva vederli.
Gli ero entrato in simpatia. Lui però mi metteva a disagio.
Mi disse che la valigia ovviamente non l’avrei più ritrovata e che a quest’ora l’unica cosa buona da fare era uscire e andare alla pasticceria Attanasio per mangiare una bella sfogliatella. La coppia accennò un sorriso.
Non sopportavo d’essere lì in quel momento, non sopportavo i suoi capelli rossi e la sua voce imponente, la divisa, la stanza, i rumori sordi di fuori, quei due troppo composti. Presi il pacchetto di camel e controllai quante sigarette avevo, ce n’erano tre. Mi disse “non fumi che le fa male”, mi mise una mano sulla spalla e sottovoce aggiunse, “faccia una buona pasqua e sia felice, che la vita ha cose peggiori che una valigia in meno, io non so se arrivo a natale”. Mi disse così.
Mi ero quasi pentito d’aver fatto denuncia, e non riuscii a dirgli nulla ma poi mi uscirono due parole, dissi “si ha proprio ragione”.
Fino a natale, pensai.
Mi accompagnò alla porta e mi disse “arrivederci” senza guardarmi neanche in faccia, io mi voltai e vidi la porta che si chiudeva, era una porta di vetro, sporca, poi lui scomparve nell’ombra.

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Caro Giovanni, il terno non è uscito a differenza delle mie lacrime per l’emozione di aver letto un racconto degno soltanto di una grande testata: quella che non vendi mai (Il Fatto Quotidiano). Affettuosamente

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