Emilio Praga / Caffè letterario

Preludio

Noi siamo figli dei padri ammalati;
aquile al tempo di mutar le piume
svolazziam muti, attoniti, affamati,
sull’agonia di un nume.

Nebbia remota è lo splendor dell’arca,
e già all’idolo d’or torna l’umano,
e dal vertice sacro il patriarca
s’attende invano;

s’attende invano dalla musa bianca
che abitò venti secoli il Calvario,
e invan l’esausta vergine s’abbranca
ai lembi del Sudario…

Casto poeta che l’Italia adora,
vegliardo in sante visioni assorto,
tu puoi morir!… Degli Antecristi è l’ora!
Cristo è rimorto!

O nemico lettor, canto la Noia,
l’eredità del dubbio e dell’ignoto,
il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia,
il tuo cielo, e il tuo loto!

Canto litane di martire e d’empio;
canto gli amori dei sette peccati
che mi stanno nel cor, come in un tempio,
inginocchiati.

Canto l’ ebrezze dei bagni d’azzurro,
e l’Ideale che annega nel fango…
Non irrider, fratello, al mio sussurro,
se qualche volta piango:

giacché più del mio pallido demone,
odio il minio e la maschera al pensiero,
giacchè canto una misera canzone,
ma canto il vero!

*

Ottobre

Un lenzuolo di nebbia avvolge il cielo,
e la pioggia minuta e lenta cade;
le colline lontane han messo il velo,
e di fango si coprono le strade.

Piangono come vedove le biade,
e l’elegìa, battendo stelo a stelo,
addormenta le selve e i nidi invade,
i nidi pieni di piume e di gelo.

Che narrano le goccie ai bruchi erranti?
Alle bucce che dice il vento fioco?
Oh nelle tombe scheletri grondanti,
oh beltà, robustezze, a poco a poco
scioglientisi coll’acqua, e vegetanti!…
E la gente sonnecchia intorno al foco.

*

Vegliando

Ho un Virgilio sul mio bruno scrittoio
legato in vecchio cuoio,
che comperai per memoria di viaggio
da un prete di villaggio;
costui l’avea trovato
frugando in un convento abbandonato.
Tutto pieno di note è il volumetto:
qua e là qualche versetto
della Chiesa all’esametro latino
sposa Sant’Agostino,
e le date monotone del chiostro
vi serba il giallo inchiostro.

Ond’è che a notte, leggendo il poeta
nella mia stanza queta,
balzo repente, e, attonito, perplesso,
parmi di aver lì appresso
il volto aguzzo e smunto,
e l’alito di un monaco defunto
che, scappato dal freddo monumento,
sfiorandomi col mento,
evoca da quei fogli impolverati
i suoi studi passati,
e vi rannoda, palpitando, i fili
degli anni giovanili.

*

da A Vittor Hugo

Per le fuggenti voluttà dell’anima,
per questa lotta acerba,
per l’Ideal che inseguo, e per le lagrime
che Iddio mi serba;

o giovinezza che già muti nome
una pura armonia spirami ancora,
un inno alato;
pria che il verno dal cor salga alle chiome,
prima che tutta la mia bionda aurora,
m’abbia lasciato!

Dammi per poco ancora la vaga aureola
che han presa i disinganni;
il coraggio, la fede, e le vertigini
de’ miei vent’anni!

*

Domus-Mundus – VII

Come un mortale anelava il fuggente
globo di Venere;
e le montagne sotto il dì nascente
parean di cenere.

Era l’ora del sonno, e del dolore,
e dei patiboli;
l’ora che il frate le celle, e l’amore
lascia i postriboli.

L’ora che, errando per la fredda chiesa,
sbadiglia il chierico;
e la matrona si dibatte, appesa
a un sogno isterico.

Dalle cantine stridevano i galli
col canto rauco;
e le lanterne erano sgorbii gialli
sul cielo glauco.

Qualche tempio qua e là si dipingeva
di negre spoglie;
e il pispiglio dei passeri sorgeva
fuor dalle foglie.

Ed era un altro dì fra i dì già sorti
e scesi al tumulo;
un altro giorno che dei giorni morti
correva al cumulo.

*

Da Convento ideale

Se tu fossi seduta al fianco mio
quando pesa su me l’irrevocabile
odio d’Iddio ;
se vedessi i tuoi cari occhi profondi
quando, al vuoto del cor, mi sento un esule
di tutti i mondi;
se la fanfara delle tue parole
mi profumasse di girani e viole
questo povero petto
che sospira all’odor del cataletto…
o donna buona, o fonte d’allegrezza,
o virtù, mansuetudine, e dolcezza,
giuro al demone mio che, per morire,
non mi vorrei pentire,
non cercherei l’estremo sacramento,
non farei testamento,
per morir colla mia sulla tua faccia,
e all’inferno volar dalle tue braccia!

*

A Enrico Junk

Della città, madre di inganni e toschi,
sei stanco, amico, e aneli ai verdi boschi
e a un po’di acqua corrente;
a un po’ di acqua corrente in cui si specchia
la ricciuta fanciulla oppur al vecchia
che ti guarda ridente.

Aneli alla mestizia solitaria
per cui l’arte respiri insiem coll’aria,
coll’aria imbalsamata!
Vuoi della vita frivola l’oblio,
e da lontan già senti il brulichio
di una allegra borgata!

Di una borgata allegra e faccendiera
dove si ciarla da mattina asera
di centomila cose;
dove a ogni angol di muro il sol rischiara
e ombreggia qualche immaginetta cara:
o bimbi, o cenci, o rose.

Dove il paffuto ostier ti accoglie umano,
e la cuoca stringendoti la mano,
par che un bacio ti scocchi.
Dove ti sveglia all’alba il bue che mugge
e la giovenca che il figlio sugge
contempla coi grandi occhi.

Ti sveglia e allor per l’umido sentiero
ti affacci all’alma nudità del vero,
di cui siam casti amanti.
Penna e pennello, un dio v’agita allora!…
su, facciam le valige, Enrico, è l’ora
di diventare erranti.

(Da E. Praga – Opere, a cura di Michele Catalano – Fulvio Rossi Editore – Napoli, 1969)

Emilio Praga nasce a Gorla (MI) nel 1839 da un’agiata famiglia della borghesia industriale. Da giovane soggiorna a lungo a Parigi dove si dedica alla pittura. Ed è proprio la pittura, insieme alla lettura di Baudelaire, Victor Hugo, Alfred de Musset e Heinrich Heine, ad ispirare la sua scrittura fin dagli esordi.

A Milano comincia a frequentare gli ambienti e gli intellettuali legati alla Scapigliatura (Dossi, Conconi, i due fratelli Boito), diventando in breve tempo uno dei principali esponenti del movimento.
Dopo la morte del padre, sopravviene per lui un periodo di gravi difficoltà economiche, a cui reagisce con una vita sregolata e dedita ai vizi. L’ abuso di alcol e droghe mina gravemente la sua salute e lo conduce ad una morte precoce nel 1875.

Fra gli Scapigliati, Praga è il maggior interprete italiano del cosiddetto “maledettismo” di Baudelaire. In perfetto accordo con la poetica della Scapigliatura, la sua poesia mira ad uscire dai tradizionali canoni aulici per penetrare l’intima e reale sofferenza degli uomini: si configura così come un “urlo” contro la società conformista, venale e superficiale, di fronte alla quale il suicidio, la vita dissoluta, il gusto del macabro, la blasfemia e la svalutazione dell’amore romantico diventano mezzi di evasione e di auto-affermazione.

Anticonformista e antiborghese, Praga esaspera i toni di questa rivolta attraverso moduli espressivi più affini al parlato che al linguaggio poetico classico. L’influsso della pittura è evidente soprattutto nelle descrizioni, sempre vivide e fortemente impressioniste. La fuga nel sogno e nella visione rappresenta, in questo contesto, l’unico antidoto ad una realtà meschina e inaccettabile.

Emilio Praga ci ha lasciato le raccolte di poesie Tavolozza (1862), Penombre (1864) e Trasparenze (pubblicata postuma nel 1878), oltre a diversi libretti d’opera e al romanzo Le memorie del presbiterio (anch’esso postumo, 1881).

Donatella Pezzino

Immagine: Le cattive madri, dipinto di Giovanni Segantini, 1894.

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