Goliarda Sapienza / Caffè letterario

Come fu che imparasti a trasmutare
quel dolore di donna che le membra
contorce in quel bianco calore
che dal seno
alle spalle di commuove.

Tu cancelli il tremore delle labbra
con lacche rosse con risa ma nei silenzi
lo si sente gridare nelle dita
di quei rami protesi
contro i muri notturni che tu ami
nelle lame sferrate nel fogliame
lame aguzze di neon che le tue mani
brevi mani agitate di ragazzo
tagliano
ma tu neghi il dolore con merletti
e mi guardi negli occhi dove l’asfalto
si scompone in un cielo
nero di pece.

(da a T.M.)

*

Separare congiungere
spargere all’aria
racchiudere nel pugno
trattenere
fra le labbra il sapore
dividere
i secondi dai minuti
discernere nel cadere
della sera
questa sera da ieri
da domani

*

È compiuto. È concluso. È terminato.
È consumato l’incendio. S’è fermato.
S’è chiuso il cerchio pietrificato.
Il tempo s’è fermato. È consumato
il delitto. S’è bruciato
il ricordo. L’ansia è cessata.
Una coltre di lava ha mormorato
ogni cranio ogni orbita svuotata.
Ogni bocca nel grido ha sigillato.

S’è chiuso il cerchio. Niente osa varcare
il silenzio di lava. Le formiche
girano intorno al rogo spento impazzite.

*

Vedi non ho parole eppure resto
a te accanto. Non ho voce eppure
muovo le labbra. Non ho fiato eppure
vivo e ti guardo. E forse è questo
che volevo da te, muta restare
al tuo fianco ascoltando la tua voce
il tuo passo scandire le mie ore.

*

Il monte il mare
i fiumi
del tuo ventre
le albe
della tua fronte
questo vorrei ritrovare

*

Un’altra fiaba

I corpi disseccati dei defunti
s’aggirano intorno a noi. Nelle sere
ci camminano a fianco per la strada
si piegano su noi quando leggiamo
ci guardano da lontano se parliamo
con l’amica, sedute fuori dall’uscio.
Hai paura del loro
sguardo d’un tempo?
Anch’io ho paura ma temo
anche di respirare nel sonno
per non disperdere
all’aria la carta velina dei loro
visi intenti al nostro sostare
fra l’alba e il giorno di questa
ora carnale.

*

Messaggio

All’alba sono entrati
in due dalle imposte socchiuse
hanno posato sul tavolo una pietra
una scatola chiusa un pezzo di pane

Oggetti d’ombra le tue occhiaie
brinate dalla sera in agguato
le tue mani dal lutto della notte agitate

Dalla cima del tuo grido
ora dovrai discendere in quest’albore
di vetri vagare

Chi segui? Chi ti chiama? Non ascoltare
il grido del tramonto sfracellato
nell’ombra del cortile
il cerchio del tuo gesto
nella sabbia devi tracciare

Nell’ombra del tuo petto accartocciato
il verme scava fra i tendini le vene
si nutre del tuo sangue
della saliva si abbevera

Innestato allo scheletro quel pianto
scordato
ramifica fra i tendini, le vene
raggelando il tuo gesto il tuo calore.

*

Un volo e in un attimo la stanza
fu colma d’un sentore acre d’estate.
La tua voce si spense con la luce
che moriva nel nero del fogliame.
Un fiato caldo alitava ci cingeva
e restammo supine ad aspettare.

*

A mia madre

Quando tornerò
sarà notte fonda
Quando tornerò
saranno mute le cose
Nessuno m’aspetterà
in quel letto di terra
Nessuno m’accoglierà
in quel silenzio di terra

Nessuno mi consolerà
per tutte le parti già morte
che porto in me
con rassegnata impotenza
Nessuno mi consolerà
per quegli attimi perduti
per quei suoni scordati
che da tempo
viaggiano al mio fianco e fanno denso
il respiro, melmosa la lingua

Quando verrò
solo una fessura
basterà a contenermi e nessuna mano
spianerà la terra
sotto le guance gelide e nessuna
mano si opporrà alla fretta
della vanga al suo ritmo indifferente
per quella fine estranea, ripugnante

Potessi in quella notte
vuota posare la mia fronte
sul tuo seno grande di sempre
Potessi rivestirmi
del tuo braccio e tenendo
nelle mani il tuo polso affilato
da pensieri acuminati
da terrori taglienti
potessi in quella notte
risentire
il mio corpo lungo il tuo possente
materno
spossato da parti tremendi
schiantato da lunghi congiungimenti

Ma troppo tarda
la mia notte e tu
non puoi aspettare oltre
E nessuno spianerà la terra
sotto il mio fianco
nessuno si opporrà alla fretta
che prende gli uomini
davanti a una bara

( poesie tratte da Ancestrale, prefazione e cura di Angelo Pellegrino, La Vita Felice, 2013)

Goliarda Sapienza nasce a Catania nel 1924. Il padre è l’avvocato socialista Giuseppe Sapienza, la madre la sindacalista Maria Giudice, prima dirigente donna della Camera del Lavoro di Torino: il clima familiare nel quale Goliarda si forma, quindi, la educa alla massima libertà mentale e morale, soprattutto nei confronti dell’allora dominante cultura fascista.

Trasferitasi a Roma con la famiglia, Goliarda studia all’Accademia di Arte Drammatica e, per un certo periodo, recita sia in teatro che al cinema. Lascia la carriera di attrice per dedicarsi alla scrittura. Alcune esperienze di vita particolarmente difficili, come una condanna per furto e la detenzione nel carcere di Rebibbia, ne segnano profondamente la produzione letteraria.

Negli ultimi anni della sua vita è docente di recitazione presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel 1994 recita nel ruolo di sé stessa nel docufilm “Frammenti di Sapienza” di Paolo Franchi presentato alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Muore a Gaeta nel 1996.

La Goliarda scrittrice ci ha lasciato taccuini, scritti teatrali, epistolari, poesie e scritti di narrativa. Fra questi ultimi, oltre al romanzo di successo L’arte della gioia (terminato nel 1976 e pubblicato postumo), si segnalano interessanti opere di carattere autobiografico, come Il filo di mezzogiorno (1969), L’università di Rebibbia (1983) e Le certezze del dubbio (1987).

In esse, come nei suoi versi, una scrittura semplice, nervosa e irruenta segue il libero flusso di coscienza per scandagliare anima e vita fin nelle pieghe più riposte. Molto particolare il suo stile, nel quale si intrecciano lirismo e realismo, ironia e amarezza, profondità e distacco: un’armonia di contrasti tipicamente siciliana che da lei, però, riceve un’impronta personale e assolutamente unica.

Donatella Pezzino

(Immagine: Piera Nastasi, La spagnola, olio su tela, 1939)

 

 

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