Floriana Coppola per «La parola detta» di Stefania Di Lino

Ci sono scritture che sono oggetti pericolosi, aprono uno sguardo interno difficile da sostenere, come osservare il mare in tempesta da uno scoglio, sapendo che le sue onde possono travolgerti. Così è la scrittura di Stefania Di Lino, fortemente stratificata e sofferta, partitura drammatica di un dolore, di un’antica ferita. La poesia nasce da questa consapevolezza, dalla gravità di una mancanza che segna anima e corpo e diventa canto.

Orizzontale dunque fui e parallela alla terra/ ma verticale è la pianta nata/ che in alto il suo stelo tende

Il tratto originale di un poema che registra una fluidità densa, di pagina in pagina, mantenendosi sul crinale ambivalente di un lirismo prosastico con una forte e interna musicalità. Con un gioco metaforico e allegorico che taglia in modo trasversale ogni attraversamento quotidiano. Un fluire senza intermittenze, senza punti fermi, metafora della vita e di ogni passione, poema e flusso di coscienza, un viaggio oltre ogni emarginazione, mescolamento estremo tra presente passato e futuro, dove la cocente amarezza di ciò che è stato si miscela alla coscienza di ciò che è, senza sconti, senza cercare alibi facili oppure rifugi salvifici e illusori.

E allora saranno i poeti pessimisti/ quelli seri severi/ i maledetti/ neri come gatti neri/ ad incendiare le notti/ a dar fuoco ai pensieri

Stefania di Lino non perde mai il coraggio, attraverso un’epica immaginazione di leopardiana memoria, di adire ciò che potrebbe essere e non è, senza fronzoli. Nessuna sbavatura retorica. Nessuna consolazione.

C’è sempre una guerra da smettere/ e l’amore da fare

La poesia è strumento di scavo interiore e di costruzione progressiva della persona. I tre piani del tempo slittano nei versi di continuo, fino a creare in chi legge una profonda vertigine, che incarna lo sforzo percepito ed espresso di sopravvivere nella piena lucidità.

Dimmi ora del sollievo/ che vince sul peso delle cose/ dimmi che il soma nel cammino/ si farà più leggero/ che insieme ci solleveremo/ presi da infinita gioia

Scrivere in versi è militanza attiva per farsi testimone giorno per giorno di questo cammino esistenziale. Lavoro costante e feroce questa ricerca del proprio baricentro, che attraversa ogni violenza subita e taciuta, segno di un tentativo affannato di un perenne processo d riconciliazione.

Sarà dolore staccare/ enumerare/ osso da osso/ scindere il mio dal tuo/ creare frattura/ labbra da labbra

L’acquario domestico, la vita privata, la strada sono temi che moltiplicano i versi. La poesia dice Stefania con un certo pudore diventa “medicamento elaborato”. Altro filo conduttore che a tratti viene svelato in tutta la sua drammatica appartenenza, è il legame con la madre, interlocutore interno ambito sognato immaginato, alterego e specchio sofferto di una conversazione interiore inarrestabile che si vivifica ogni giorno attraverso la lente di ingrandimento della consapevolezza relazionale.

Ero sferica/ portavo con me segni e cicatrici/ cadute verticali di vertigini/ rotolamenti/ ero di una geografia strana/ dentro mi ribollivano vulcani e struggimenti

Matrice dell’esistere e memoria fermata nella parola scritta. L’altro è nei testi l’aspirazione ad una genealogia incarnata nel sangue, fotografa il campo di battaglia dove i ruoli di vittima, carnefice e salvatrice si alternano dolorosamente.

Che fatica stamattina ripulire le tracce lasciate/ dai piccoli omicidi efferati/ perpetrati da ogni giorno che passa

Piccoli omicidi efferati sono i frammenti e le parole, ciò che resta delle tribolazioni sofferte, testimonianza trasversale di ciò che potrebbe ferire e involvere, di ciò che si può perdonare.

“Il nido della parola taciuta”, ecco il senso della scrittura, l’atto nascosto di riparazione, rifugio e consolazione da ogni afflizione. Il futuro è la casa di una possibile leggerezza agognata come lenitivo al “peso delle cose”. La solitudine e la pazzia, il senso di esclusione e il desiderio di appartenenza, l’esternazione di ogni rimpianto, la sconfitta per un passato che rende famelici e affamati, temi che entrano ed escono da questi cammei lirici come un vortice, una giostra infernale che non offre pace. Senza darsi tregua, chi scrive si affanna per fermare sulla pagina il suo “piano poetico di resistenza”, la sua strategia resiliente per vivere e trasformare le ferite in canto.

Viviamo noi per asportazione/ e transitori siamo/ persino nell’assenza/ conducimi dunque nei luoghi/ dove la luna non conti più i giorni

La parola detta o taciuta dipinge il bivio che apre al conflitto tra ciò che bisogna elaborare e perdonare e ciò che rimane incistato nella carne e nell’anima e intossica e avvelena.

scrive la Lamarque/ la sua frattura/ sull’orlo scivoloso de l’abisso/ sul foro nero sterile di pioggia/ e dell’escissione d’amore la bruttura

Citare Viviane Lamarque è un indizio importante, indica una sorellanza esplicita, significa riportare il significato della frattura ed escissione d’amore: lei e la madre. Relazione primaria di attaccamento e d emancipazione mai conclusa. La tensione psicologica ed esistenziale per ritrovare una simmetria interna che sia fine e fonte della riparazione dei percorsi affettivi.

Ho visto mia madre invecchiare/ consumarsi/ nel sempre più ristretto ambito delle sue clavicole/…/ e sembrava ci fosse/ ma lei non c’era/ e sembrava felice/sembrava/ ma non lo era

Anche il ritratto della madre, atto struggente di dolore, di costrizione e di amore, disegna quel legame in tutta la sua forza, quel laccio che tanto ci lega in quanto donne in modo viscerale verso colei che è cibo, nutrimento e tossico. Un legame che segna l’inadeguatezza, lo slancio intermittente, la tenerezza e il danno, ingredienti miscelati e contaminati che fanno solchi incandescenti nell’anima.

Un legame che viene vissuto e rivissuto centomila volte, narrato e scotomizzato per poi riprenderlo ancora come un’immersione subacquea in acque di volta in volta nuove e conosciute.

Le pagine liriche unite da una virgola scorrono come un torrente selvatico che trasborda ogni argine possibile, preso da un’enfasi dolorosa, confessione che sfocia in un diario poetico, estremo atto di fiducia verso il mondo, che dovrebbe dare il senso di una restituzione piena e felice di ogni memoria del male ricevuto e non digerito.

Non c’è scrittura che non batta continuamente sull’angolo acuto di un dolore

La scrittura è tema ricorrente, visitato come un’acuta ossessione in lunghe o corte proposizioni liriche, parlando dei poeti e del poetare come di una minoranza fragile e offesa, preda di inutili narcisismi, oggetto di teatrini sconsolanti eppure sentita come un’assemblea densa di contraddizioni e di ripensamenti tra l’essere e l’apparire, tra epos appassionato e vuota rassegnazione.

Vuoi sapere se i tuoi versi abbattono i muri

Stefania Di Lino ci consegna integra la sua testimonianza di donna e di scrittrice, con l’urgenza e la sollecitazione ad aver cura di ciò che si vuole dire, nel rispetto di se stessi e degli altri. Senza finzioni e senza sconti. In una continua e amara interrogazione.

Ci sono scritture che sono oggetti pericolosi, aprono uno sguardo interno difficile da sostenere, come osservare il mare in tempesta da uno scoglio, sapendo che le sue onde possono travolgerti. Così è la scrittura di Stefania Di Lino, fortemente stratificata e sofferta, partitura drammatica di un dolore, di un’antica ferita. La poesia nasce da questa consapevolezza, dalla gravità di una mancanza che segna anima e corpo e diventa canto.

Orizzontale dunque fui e parallela alla terra/ ma verticale è la pianta nata/ che in alto il suo stelo tende

Il tratto originale di un poema che registra una fluidità densa, di pagina in pagina, mantenendosi sul crinale ambivalente di un lirismo prosastico con una forte e interna musicalità. Con un gioco metaforico e allegorico che taglia in modo trasversale ogni attraversamento quotidiano. Un fluire senza intermittenze, senza punti fermi, metafora della vita e di ogni passione, poema e flusso di coscienza, un viaggio oltre ogni emarginazione, mescolamento estremo tra presente passato e futuro, dove la cocente amarezza di ciò che è stato si miscela alla coscienza di ciò che è, senza sconti, senza cercare alibi facili oppure rifugi salvifici e illusori.

E allora saranno i poeti pessimisti/ quelli seri severi/ i maledetti/ neri come gatti neri/ ad incendiare le notti/ a dar fuoco ai pensieri

Stefania di Lino non perde mai il coraggio, attraverso un’epica immaginazione di leopardiana memoria, di adire ciò che potrebbe essere e non è, senza fronzoli. Nessuna sbavatura retorica. Nessuna consolazione.

C’è sempre una guerra da smettere/ e l’amore da fare

La poesia è strumento di scavo interiore e di costruzione progressiva della persona.  I tre piani del tempo slittano nei versi di continuo, fino a creare in chi legge una profonda vertigine, che incarna lo sforzo percepito ed espresso di sopravvivere nella piena lucidità.

Dimmi ora del sollievo/ che vince sul peso delle cose/ dimmi che il soma nel cammino/ si farà più leggero/ che insieme ci solleveremo/ presi da infinita gioia

Scrivere in versi è militanza attiva per farsi testimone giorno per giorno di questo cammino esistenziale. Lavoro costante e feroce questa ricerca del proprio baricentro, che attraversa ogni violenza subita e taciuta, segno di un tentativo affannato di un perenne processo d riconciliazione.

Sarà dolore staccare/ enumerare/ osso da osso/ scindere il mio dal tuo/ creare frattura/ labbra da labbra

L’acquario domestico, la vita privata, la strada sono temi che moltiplicano i versi. La poesia dice Stefania con un certo pudore diventa “medicamento elaborato”. Altro filo conduttore che a tratti viene svelato in tutta la sua drammatica appartenenza, è il legame con la madre, interlocutore interno ambito sognato immaginato, alterego e specchio sofferto di una conversazione interiore inarrestabile che si vivifica ogni giorno attraverso la lente di ingrandimento della consapevolezza relazionale.

Ero sferica/ portavo con me segni e cicatrici/ cadute verticali di vertigini/ rotolamenti/ ero di una geografia strana/ dentro mi ribollivano vulcani e struggimenti

Matrice dell’esistere e memoria fermata nella parola scritta. L’altro è nei testi l’aspirazione ad una genealogia incarnata nel sangue, fotografa il campo di battaglia dove i ruoli di vittima, carnefice e salvatrice si alternano dolorosamente.

Che fatica stamattina ripulire le tracce lasciate/ dai piccoli omicidi efferati/ perpetrati da ogni giorno che passa

Piccoli omicidi efferati sono i frammenti e le parole, ciò che resta delle tribolazioni sofferte, testimonianza trasversale di ciò che potrebbe ferire e involvere, di ciò che si può perdonare.

“Il nido della parola taciuta”, ecco il senso della scrittura, l’atto nascosto di riparazione, rifugio e consolazione da ogni afflizione. Il futuro è la casa di una possibile leggerezza agognata come lenitivo al “peso delle cose”. La solitudine e la pazzia, il senso di esclusione e il desiderio di appartenenza, l’esternazione di ogni rimpianto, la sconfitta per un passato che rende famelici e affamati, temi che entrano ed escono da questi cammei lirici come un vortice, una giostra infernale che non offre pace. Senza darsi tregua, chi scrive si affanna per fermare sulla pagina il suo “piano poetico di resistenza”, la sua strategia resiliente per vivere e trasformare le ferite in canto.

Viviamo noi per asportazione/ e transitori siamo/ persino nell’assenza/ conducimi dunque nei luoghi/ dove la luna non conti più i giorni

La parola detta o taciuta dipinge il bivio che apre al conflitto tra ciò che bisogna elaborare e perdonare e ciò che rimane incistato nella carne e nell’anima e intossica e avvelena.

scrive la Lamarque/ la sua frattura/ sull’orlo scivoloso de l’abisso/ sul foro nero sterile di pioggia/ e dell’escissione d’amore la bruttura

Citare Viviane Lamarque è un indizio importante, indica una sorellanza esplicita, significa riportare il significato della frattura ed escissione d’amore: lei e la madre. Relazione primaria di attaccamento e d emancipazione mai conclusa. La tensione psicologica ed esistenziale per ritrovare una simmetria interna che sia fine e fonte della riparazione dei percorsi affettivi.

Ho visto mia madre invecchiare/ consumarsi/ nel sempre più ristretto ambito delle sue clavicole/…/ e sembrava ci fosse/ ma lei non c’era/ e sembrava felice/sembrava/ ma non lo era

Anche il ritratto della madre, atto struggente di dolore, di costrizione e di amore, disegna quel legame in tutta la sua forza, quel laccio che tanto ci lega in quanto donne in modo viscerale verso colei che è cibo, nutrimento e tossico. Un legame che segna l’inadeguatezza, lo slancio intermittente, la tenerezza e il danno, ingredienti miscelati e contaminati che fanno solchi incandescenti nell’anima.

Un legame che viene vissuto e rivissuto centomila volte, narrato e scotomizzato per poi riprenderlo ancora come un’immersione subacquea in acque di volta in volta nuove e conosciute.

Le pagine liriche unite da una virgola scorrono come un torrente selvatico che trasborda ogni argine possibile, preso da un’enfasi dolorosa, confessione che sfocia in un diario poetico, estremo atto di fiducia verso il mondo, che dovrebbe dare il senso di una restituzione piena e felice di ogni memoria del male ricevuto e non digerito.

Non c’è scrittura che non batta continuamente sull’angolo acuto di un dolore

La scrittura è tema ricorrente, visitato come un’acuta ossessione in lunghe o corte proposizioni liriche, parlando dei poeti e del poetare come di una minoranza fragile e offesa, preda di inutili narcisismi, oggetto di teatrini sconsolanti eppure sentita come un’assemblea densa di contraddizioni e di ripensamenti tra l’essere e l’apparire, tra epos appassionato e vuota rassegnazione.

Vuoi sapere se i tuoi versi abbattono i muri

Stefania Di Lino ci consegna integra la sua testimonianza di donna e di scrittrice, con l’urgenza e la sollecitazione ad aver cura di ciò che si vuole dire, nel rispetto di se stessi e degli altri. Senza finzioni e senza sconti. In una continua e amara interrogazione.

 

Articolo tratto da La vita Felice

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