Klaus Kinski e la poesia del disagio

Sono un grido lungamente protratto e reiterato queste poesie giovanili di Klaus Kinski, tradotte da Antonio Curcetti, in cui dolore, rabbia e disperazione dettano un ritmo sincopato e incalzante. C’è l’urgenza della visione, l’urgenza di una parola gettata letteralmente in faccia a un Dio dispotico e indifferente alle sorti umane, una parola che diventa bestemmia, blasfemia, insulto. C’è più di un’ambiguità, Kinski è ossessionato da Cristo, vampiro della morale come in Rimbaud, ma anche eroe redentore che lotta contro l’autorità, la sua figura è come sdoppiata.

In Io –avversario- nemico di me stesso leggiamo il manifesto di Kinski poeta, in una ridda di contraddizioni che lo dilaniano emerge una lotta senza quartiere contro il perbenismo ipocrita di una società disumana ma anche la natura ambigua dell’autore, scisso, dimidiato, arso da una febbre di vivere che lo condanna  a rimanere  in balia della morte  da cui è irresistibilmente attratto: “io vado in cerca di me stesso- e quando mi riconosco, sono il mio peggior nemico.”

Febbre – Diario di un lebbroso è il titolo di questo libro autoprodotto nel novembre 2018 da Antonio Curcetti, che diversi editori hanno rifiutato per via probabilmente della natura controversa di Klaus Kinski stesso, della sua aura di depravazione morale oltre ogni limite, del suo egocentrismo sfrenato, del suo eros senza controllo, della sua blasfemia carica di odio.

Sono queste le poesie di un artista in lotta contro il mondo, in lotta contro se stesso, che sfida Dio per riportarlo o meglio gettarlo,  come Baudelaire,  sulla terra, cui Kinski si rivolge spesso con toni rabbiosi;  la sua condanna si rivolge  alle religioni istituzionalizzate che umiliano ogni trascendenza rendendola il coacervo di repressioni e moralismi senza alcun senso umano. È comunque un Dio cui Kinski riserva il suo disgusto e che sembra ricordare quello di Lautréamont, nel suo essere l’epitome di ogni bassezza umana troppo umana, l’incarnazione di ciò che l’umano ha di più oscuro: “Cristo! cane bastardo! zimbello maledetto!”

 Senza alcun velo a schermare la sua rabbia Kinski afferma di cacare “sul marcio tran tran di ostie” e la sua foga escrementizia è inarrestabile, la pagina così diventa un crogiuolo di malattie, la cloaca in cui l’autore riversa il suo vomito, le sue feci, il suo sperma che sa avvelenato dalla follia, il suo sangue,    la sua rabbia quasi  senza controllo, mantenendo,  però,  uno stralunato e comunque anomalo equilibrio formale che ricorda certe poesie dell’ultimo Artaud.

C’è qui la violenza dell’iconoclasta che non accetta limiti, il suo desiderio di onnipotenza rasenta la follia, la sua rabbia arde devastandolo. Poesia oscena che trattiene in sé come una maledizione fatale tutto ciò che la pagina beneducata della maggior parte dei poeti solitamente estromette.

Pure le poesie che aprono la raccolta sono meno violente, fra surrealismo (“per ben tre volte l’ombra di un foglio bianco/ si è trasformata in un uccello.”) espressionismo (“Uno squarcio profondo- occhi sdoppiati”) Kinski si chiede “dov’è Il mio volto?” e scrive “superbo è il morire delle cose terrene” nella bella poesia “Il grido”.

Questi versi “frementi di verità e di luce polare”,  in quello che Paolo Spaziani nella postfazione definisce ”mondo desolato e sterminato di detenzione”,  levano il loro grido per accecare tutte le chimere del pensiero umano, per riconquistare una libertà impossibile in realtà da ottenere, perché coincide con l’ assoluta mancanza di vincoli, con la morte o la follia,  per scoprire infine  la pericolosa fratellanza degli ultimi: prostitute, mendicanti, delinquenti, pazzi, artisti che vagano in cerca di un se stesso da immolare sull’altare  sconsacrato della propria disperazione.

Altrove Kinski è come preso da uno spasmo e la sua pagina frema epilettica, si contorcono carne e mondi, tutto è prossimo al suo apice parossistico, come,  per esempio,  nella poesia Jazz, dove il ritmo di questa musica sembra dettare il movimento sussultante delle parole stesse. Così fra ferocia e isteria, il giovane Kinski crea la sua poesia, pensata probabilmente per un esito teatrale in cui alla scena  fosse restituita l’inquietudine, la follia, la cattiveria di un destino, la spietata solitudine dell’artista.

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