La visione e l’enigma: Anna Maria Curci, Nei giorni per versi, Arcipelago Itaca, 2019 di Giuseppe Martella

foto di Mel Carrara 

 

Ai vari livelli del testo, la poesia di Anna Maria Curci, in questa sua ultima raccolta, risulta essenzialmente enigmatica. Dal titolo, ai contenuti delle singole quartine, fino e specialmente all’ordinamento delle stesse in un unico, presumibile ma problematico, intreccio senza evidenti partizioni. Sia chiaro però che non si tratta di poesia oracolare, orfica o ermetica, ma appunto squisitamente enigmatica. L’enigma è ciò che ci interpella in modo oscuro, una domanda cifrata e un nodo da sciogliere: piuttosto che richiedere, pretende una risposta sia essa di ordine cognitivo, etico o metafisico. Non bisogna dunque lasciarsi ingannare dalla finitura squisita, quasi parnassiana, di quest’opera dove, a detta della stessa autrice, la scelta della forma chiusa intende fungere da “cornice rigorosa allo sfogo del cuore e alla rivolta della mente”. Né lasciarsi irretire dalle raffinate variazioni di tale forma, in una oscillazione non risolta tra aforisma ed epigramma, tra domanda e asserzione, dove l’io poetico pare interrogare le microfibre dell’essere e il dio delle piccole cose, con un nutrito corredo di allusioni popolari e colte, inserite a bella posta per costruire una cassa di risonanza e delineare un orizzonte di ricezione sufficientemente selettivi, e congeniali ai propri intenti. Non ci si può arrestare insomma alla fascinazione degli incisi calibrati, dei tagli ironici o sapienziali, di un dettato assolutamente originale o addirittura idiosincratico, dove la coscienza critica nutre costantemente l’invenzione artistica. Tutto ciò certo caratterizza quest’ultima raccolta di Anna Maria Curci, dove l’esattezza metrica della quartina mette in risalto la ricca e perversa polifonia dei suoi richiami, la molteplicità degli echi e dei registri evocati. Ciascuno potrà goderne secondo le proprie inclinazioni e la propria cultura. Ma perdersi in questa variopinta superficie, soffermarsi sulle idiosincrasie della inventio e sulle squisitezze della elocutio, ci precluderebbe di frugare nel cuore della questione – cioè di cogliere nella disposizione dei versi, la per/versione dei giorni di cui qui si tratta.
Ossia di indagare il nesso fra cronologia e rivelazione, fra diario ed epifania, in una poetica sorvegliata e resiliente che fa ricami tra le parole e le cose. Perché è proprio in ciò che mi piace chiamare “il rebus della dispositio” che a mio parere consiste il proprio di questa composizione. Del resto, la bella introduzione di Patrizia Sardisco e la lucida nota iniziale dell’autrice stessa ci offrono alcuni segnavia per inoltrarci in quello che per certi aspetti può apparire come un labirinto borgesiano o un giardino dei sentieri che si biforcano. Seguirò dunque tali indicazioni nel porgere l’orecchio a una musica del pensiero di non facile ascolto, se non altro perché si svolge spesso in controcanto (84) e in controtempo, in tonalità minore “una terza o un quinta sotto” (89). Ossia in una continua oscillazione fra il controtempo del sogno e il controcanto della coscienza critica, dove l’inserimento dell’evento nel grafico del tempo (cronologico e psichico), nella serialità aritmetica o musicale, costituisce un principio strutturale ma spesso anche una variazione tematica, “Quel tempo regalato in sospensione/… ridotto per riflettere e sostare” (91), dove può cogliersi quel minimo margine di libertà che ci è concesso, in un diario tessuto di “reti rattoppate e smagliature” che raccontano la nostra comune “gloria d’impotenza” (93), e su cui veglia minaccioso “il reduce dall’eterna penombra” (95). Queste variazioni metafisiche sulla ineludibile ma elusiva implicazione di tempo e racconto costituiscono per esempio una di quelle miniserie tematiche che spesso si incontrano nella raccolta, a riprova della sua coesione strutturale, ma di cui qui non si potrà certo dar conto in dettaglio.
Con sommessa, tagliente ironia l’autrice compone a mosaico profili di denuncia civile come parte integrante di una missione pedagogica e critica a lungo esercitata, che contiene tra le righe, ma non troppo, delle sferzate contro l’ipocrisia e la supponenza dilaganti, che dovrebbero far tremare le vene ai polsi di quei politici poeti, veri o presunti, che non oseranno certo lesinarle il loro plauso incondizionato: “Sorrido a quei proclami ripetuti,/… Ancora sto tra pagine scordate” (25).
In questa drammaturgia dell’enigma, l’io poetico si muove infatti con eleganza di ballerina e precisione di chirurgo per marcare e incidere, scavare e ricucire nelle piaghe/pieghe infette di un linguaggio liso ed enfiato insieme, allo scopo di risanarlo al dettaglio, dall’angolo in cui si trova relegato, in quanto erede di un umanesimo agli sgoccioli. O meglio di un paradigma umanistico-letterario in via di assorbimento da parte dell’onnipotente e comprensivo reticolo mediale, e che sta per diventare al suo interno solo un caso particolare, così come accadde alla teoria gravitazionale di Newton rispetto a quella della relatività einsteniana. Ciò che gli epistemologi chiamano “cambio di paradigma” vale infatti anche nello sviluppo della cultura in generale e in particolare per quanto ci riguarda, nella produzione, ricezione e uso del linguaggio. Nelle epoche di transizione come la nostra, quest’ultimo mostra infatti diverse smagliature e criticità: è proprio su queste che mimeticamente, sobriamente, con esattezza e passione, opera la nostra autrice. Dicendo ironicamente questo ed altro, il questo nella forma dell’altro, cioè parificando nella giustezza quantitativa, numerica, delle quartine, il caleidoscopio qualitativo dell’esperienza, nel suo divenire e disfarsi, in una umanissima messa a nudo della miseria dell’esserci, come esercizio della pietà del pensiero. Direi che è proprio qui, nel trasecolare minimo della qualità nella quantità, nella numerizzazione del pathos dell’esistenza, nella sua rigorosa messa in forma geo-metrica, che si può cogliere appieno la lezione di una coscienza critica acuta ed allenata, e di una ironia tanto sicura di sé da poter risultare mite e bonaria.
È proprio qui, in questa dialettica di qualità e quantità, nella esatta resa sillabica, che si articola nel nostro testo la tensione tra prorsus e versus, ossia anche tra diario e spaccato lirico, tra cronaca quotidiana e squarcio metafisico. Ciò accade in un impianto globale che si basa sulla permutazione virtuale degli accordi prescelti (qui le quartine) in una sorta di composizione seriale, intricata e miniata come accade nei piccoli pezzi di Webern o ancor più nella micropolifonia di un postweberniano come Ligeti, dove talvolta l’esattezza geometrica della composizione cede allo squarcio espressionistico, alla irruzione del suono che esonda dallo schema, come flusso di vita che travolge la forma.
Tutto ciò ovviamente rimane celato fra le righe, intricato e interdetto, sicché ha bisogno di essere estratto e tradotto nell’atto di interpretazione, che (come suggerisce Benjamin) ha nella traduzione il suo modello eminente. Una ipotesi del genere non risulta nel nostro caso affatto peregrina se, oltre ad ascoltare con attenzione il testo, si pensa anche alla competenza critico-traduttiva di Anna Maria Curci, che certo costituisce un risvolto rilevante della sua stessa invenzione poetica. E per ultimo, implicita nell’intera architettura, custodita come la sua parte aurea, è opportuno rilevare la struttura frattale del testo, il rapporto dinamico e vitale che in esso sussiste fra dettaglio e disegno totale, e il ripetersi miniato di quest’ultimo nelle diverse tessere di un mosaico cangiante. In questo spazio geometrico-musicale, il profilo allegorico di alcune figure – l’uomo pesce rosso 8, la maglierista 54, il rigattiere 58, il clown 149, il gatto di Alice 168, il doppio (vecchia bambina, madre sposa), l’angelo compagno 68 e varie altre – finisce per assumere un rilievo enigmatico, come si trattasse di emblemi medievali sottoposti a uno smontaggio cubista.
Quella della miniatura seriale (una musica da farci l’orecchio) costellata di qualche sberleffo surrealista alla Eric Satie, mi sembra una buona analogia per comprendere e gustare la struttura fine di questi “giorni per versi”, cioè nel contempo dei versi e dei giorni che in essi sono custoditi, preziosamente, nella reciprocità di vita ed arte allorquando entrambe aspirano alla verità nella bellezza. Nella reciprocità della cura delle parole e delle cose, del testo e del prossimo, nella dedizione umana e poetica che tanto più è autentica quanto più è sommessa e sorvegliata, nell’umiltà del talento che non presume di doversi sottrarre al vaglio della critica:
“Ogni giorno s’avvera indisturbata la/sincronizzazione del nefando./ Complici, tra maniere e manierismi,/ perushim infioccati in rituali” (30). Ecco un altro esempio di quella valenza emblematica delle figure che, attraverso permutazioni in serie, s/compongono la cronologia del diario nelle tessere di un mosaico policromo, che ci interpella come un puzzle esistenziale. E qui si apre il centro di emanazione di tutte le figure di questo discorso in versi, il suo nucleo strutturale: quello che ho già chiamato l’enigma della disposizione. Da intendersi sia nel senso della dispositio retorica dei soggetti della inventio, che in quello, dopo tutto affine, della disposizione come operazione matematica di raggruppamenti alternativi degli elementi di un insieme, considerando anche l’ordine. Una procedura che in effetti pertiene alla trasposizione della cronaca del vissuto nello spazio del testo. Ciò vale, come ci ha insegnato Juri Lotman, per ogni genere e forma letteraria, poiché la temporalità e storicità dell’esserci possono essere messe in forma solo attraverso una sorta di proiezione dei vissuti nello spazio chirografico che è per definizione chiuso e bidimensionale. Ma qui, nell’opera di Anna Maria Curci, questa trasposizione fondante di ogni testualità, viene esemplarmente, elegantemente e provocatoriamente messa a tema e alla prova. Il suo testo ha infatti un impianto evidentemente diaristico, che però a una seconda occhiata risulta essenzialmente problematico. Il lettore che si imbatte nella sequenza di 173 quartine, riceve suggerimenti, cenni, e può dunque fare delle ipotesi su una eventuale corrispondenza biunivoca fra i giorni e i versi, fra l’ordine degli eventi e la sua traccia nella composizione e nella disposizione delle quartine. Ma non di più. Perché è proprio qui, in questa massima stilizzazione geometrica della forma chiusa della quartina, in questa quadratura poetica di terra e mondo, che viene messo tacitamente in questione il principio stesso della poiesis in quanto mimesis del reale. È qui che paradossalmente ed enigmaticamente, l’elusiva cronologia dei versi evoca la perversione dei giorni, in una lieve, gentile smorfia ironica.
Ho tracciato alcune linee guida per l’interpretazione di questo testo Anna Maria Curci. C’è da aggiungere che vi dominano due grandi figure di pensiero: l’ironia e il paradosso. La prima ha a che fare prevalentemente con l’intenzione del dire, la seconda con lo stato dei fatti. Ancora una volta a sottolineare che lo sviluppo del testo, ai suoi vari livelli, verte sulla tensione fra l’ordine delle parole e quello delle cose. Concretizzandosi poi nella fusione, diciamo, fra l’ironia bonaria e urbana di un Orazio e il paradosso impietoso e fulminante di un Karl Kraus, entrambi infine rovesciati come calzini nello stile personalissimo dell’autrice. In quella sua poetica dell’enigma che risulta talora messa a tema, come in questo squisito epigramma pedagogico: “Accetta, caro, questa mia romanza,/ antico adagio dello smarrimento./ Tra i cubi che il bambino ricombina/ ha scovato la a, alfa e amore” (69). Una poetica che si precisa in una fitta serie di riprese e variazioni tematiche e figurative, dove “ri-cantando” e “ri-componendo”, vengono messi in scena i più vari esercizi della traduzione dell’esserci nella coscienza e nel linguaggio, i ritagli elusivi del proprio vissuto, “tra stupore ri-conoscente … e rie-vocazione assorta e divertita”, in equilibrio tra memoria e progetto. E dove infine il pathos e la cura dell’esistenza convergono nel riconoscimento della propria vocazione di interprete e di traduttrice: “Devozionale è la tua traduzione/ che vai limando con le guance accese” (60).
Si tratta di rimandi, accordi e riprese, peripezie e riconoscimenti impliciti, che non sono affatto facili da cogliere e meno ancora da ricantare nell’esecuzione altrui di questo spartito, cioè nell’atto dell’interpretazione che in questo caso necessariamente dovrà essere di secondo grado, perché la coscienza critica è già sempre all’opera nel nostro testo dove l’esercizio dell’allusione e dell’implicito è pari a quello della pausa e del silenzio. In questa prospettiva metapoetica e metacritica, si può infatti intendere il senso del messaggio della quartina iniziale: “Come un accento a voce claudicante/ balza e s’arresta il limite del giorno./ Taglieggia tra le sdrucciole e le piane/ e tronca si riveste soluzione” (1). Si tratta di una enigmatica dichiarazione poetico-esistenziale che troverà una esatta rispondenza nell’ultima quartina del testo.
Questa della voce claudicante è dunque una figura cardine per la comprensione della nostra silloge. Una figura complessa: una metafora, certo, che contiene però insieme una metonimia e una sinestesia. La “voce claudicante” evoca infatti il passo incerto, l’arto che zoppica e il trauma che ha subito, connotando così l’intero orizzonte dell’esperienza: (“balza e s’arresta il limite del giorno”) nonché la possibilità di tradurla nell’ordine dei versi (“Taglieggia tra le sdrucciole e le piane”) ed eventualmente di decifrarne il senso (“e tronca si riveste soluzione”). La quartina costituisce dunque una metafora estesa della reciprocità di parola e ascolto, di gesto e visione nell’atto poetico.
La sinestesia della “voce claudicante”, viene inoltre ribadita nella quartina 15 dove il “Canticchiare con le gambe conserte”, richiama ancora la postura del corpo, accennando al nesso fondante fra la pausa dell’articolazione e il tono della voce, fra metro e tonalità espressiva, nella costruzione di accordi minimi ed esatti di suono e senso. Costituendo dunque infine una perspicua, enigmatica dichiarazione di poetica esistenziale. Una poetica che viene poi svolta con estrema coerenza in tutte le successive quartine. Così nella 31 leggiamo “Se tu, mio cuore, sei connesso altrove,/ se chiami canto strida di cornacchie,/ si separa lo sguardo e scorre mano/ con carezza sottile su altre rime.” Una poetica “perversa” dove tutto il bagaglio del cantar storie in generale, la congiunzione dell’occhio e della mano, del cuore e della rima, vengono straniati e posti in prospettiva e a distanza critica, con una sorta di smontaggio cubista di una ipotetica, soggiacente lirica d’amore. Questo è un caso esemplare di quella dialettica di visione ed enigma che regge l’intero impianto di questa raccolta, dove la riflessione fa da lievito alla invenzione poetica e dove la consapevolezza e la cura del logos (linguaggio e pensiero) assumono talvolta perfino le valenze di una annunciazione. Come appare evidente nei casi in cui la forma dell’enigma si distende in quella della parabola, mettendo in scena una parola oscura e folle, scandalosa e amorevole, poeticamente incarnata, per contravvenire a ogni legge farisaica o a ogni vaccinazione preventiva: “Vi hanno trattato con i diserbanti,/ parole care, i miei paracadute./ Ma nei giorni di blocco a targhe alterne/ di contrabbando uscite a folleggiare” (74). E dove infine sempre più si chiarisce il nesso fra vocazione poetica e riflessione critica, fra l’insondabile mistero della parola e la inflessibile volontà di comprenderla: “Come a un calzino rivoltato/ in dentro vado tastando buchi/ e cuciture a te, mistero, decriptato a sbafo,/ che ritorni per essere incompreso” (78). In una testimonianza che si svolge in quel controcanto e tono minore, “il controcanto terza o quinta sotto” (84) che abbiamo detto. In sottovoce e contrappunto: “battute e controcanto, arie fughe/ e quel concerto grosso ch’è in sospeso” (160). In una polifonia in cui le figure di pensiero si esprimono in atti linguistici che fondono la franchezza e la mitezza del dire in una versione laica della parresia evangelica: “Una carezza, il metodo e l’attesa: parlare franco e/ opporre la mitezza alla cicuta…” (85).
Credo che gli esempi forniti bastino ad afferrare il tenore complessivo di questo discorso, in costante equilibrio fra anima ed esattezza, fra ironia e paradosso: “Ritmo, respiro, ridda di pensieri/ riempiono e scompensano le righe/ di un pentagramma che contempla il riso,/ rigoverna rimbrotti, non sentenzia” (162). Fino alla clausola finale che fa da perfetto contrappunto alla “voce claudicante” dell’inizio: “Man mano che s’accende lume a lume/ sostiamo nel silenzio che rapprende/ lo squarcio all’improvviso rivelato./ Noi che veniamo al mondo lacerando” (173). Dove la lacerazione dell’inizio, la pausa del frammezzo e la consapevolezza della fine, l’enigma dell’essere al mondo e la cura della sua impossibile decifrazione, costituiscono una vera e propria miniatura ed epitome, ma anche una fulminea conclusiva epifania del labirinto dei “giorni per versi”.

Giuseppe Martella

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