Tropaion, di Raffaela Fazio. Nota di lettura di Stefania Di Lino  

 

 

‘Se il vinto è colui che muore e il vincitore chi uccide, con questo confessandomi vinto, mi istituisco vincitore’. (Pessoa, L’educazione dello stoico, ed. Einaudi 2005, trad. di Luciana Stegagno Picchio, p.77).

‘I vincitori non sanno quello che perdono’. (Gesualdo Bufalino, Calende greche (1992), ed. Bompiani 2009, Milano, p. 178)

‘Prenderai quel cuor di cinghiare e fa’ che tu ne facci una vivandetta la migliore e la più dilettevole a mangiar che tu sai; e quando a tavola sarò, me la manda in una scodella d’argento’. (Giovanni  Boccaccio, Decamerón, 1349/1353)

 

 

 

 

<< Da tempo ormai, in un lungo periodo di pace apparente che ci separa dall’ultima guerra del ‘900…>>.

Questo l’incipit con cui, ormai più di due mesi fa, mi accingevo a concludere la bozza iniziale  della mia nota di lettura al libro di Raffaela Fazio, Tropaion, (Puntoacapo editrice, 2020). – con tempi lunghissimi causati da motivi personali non del tutto estranei alle brevi considerazioni di ordine sociale che seguiranno.

Oggi, alla luce degli ultimi fatti politici epocali in cui, nostro malgrado,  siamo stati proiettati in un futuro tecnologico minaccioso e oppressivo , sono costretta a rivedere e ad aggiornare l’incipit di questa nota.

Infatti, dopo un’apparente tregua di cosiddetta ‘pace’, – si è trattato in realtà di un periodo difficilissimo che ha visto retrocedere quei diritti sociali conquistasti nel ‘900,  riportando l’Italia alla stregua di una Londra vittoriana raccontata da Dickens, – con fatti alla mano, possiamo affermare che tale periodo di pace apparente è stato connotato da una graduale  anestetizzazione  di una sola parte attrice del conflitto sociale, ovviamente la più fragile, la più offesa, e quell’apparente tregua  era in realtà  preparatoria, cioè del tutto organica,  all’attuale assetto socio-politico che avrà – e questa è l’unica cosa chiara – carattere di permanenza.

In assenza di un conflitto inter-soggettivo che sia in grado d’incidere significativamente la realtà  e che vede complici istituzioni e organismi, storicamente preposti alla tutela della fasce deboli, come i sindacati, per esempio -, al momento siamo stati veicolati  in una fase storica inedita e minacciosa, se non altro per la confusione e la contraddittorietà  con cui le istituzioni governative hanno gestito una ‘pandemia’, facendo opera di sostanziale disinformazione, e, proprio come in una terapia genica, ma stavolta al contrario e ai fini del male,  si è trovato nell’uso di un virus il microscopico veicolo, il nemico invisibile, per contaminare pervasivamente  in modo insalubre, il già provato inerte corpo sociale, creando continuo allarme tra i cittadini, omettendo le vere cause dell’epidemia stessa, se di epidemia si tratta, ovvero un sistema sanitario depauperato e del tutto insufficiente, annientando con l’uso del terrore la capacità critica e una lucida ragionata reazione da parte della cittadinanza, attuando l’azzeramento quasi totale delle libertà individuali previste dalla Costituzione.

Si tratta di una ‘emergenza’, come abbiamo già detto, tutt’altro che temporanea, incontrollata e incontrollabile,  che ci ha introdotto di colpo, –  con l’acquiescenza del pensiero unico -, nell’epoca della sorveglianza, le cui caratteristiche,  insieme alla massiccia militarizzazione e all’esasperante controllo del territorio, secondo quanto scrive la Arendt, ci colloca in un sistema sociale di tipo totalitario.

Se è vero che all’artista, e particolarmente al poeta, in quanto termometro della temperatura sociale, in quanto indicatore ambientale, viene richiesto, a più di ogni altro, la testimonianza del reale  nella traduzione di una visione personale sugli epifenomeni caratterizzanti il consorzio umano, e delle relazioni ad esso interconnesse, rivelando almeno un capo del filo conduttore,  un bandolo del complesso groviglio sociale, ecco allora spiegato il motivo per cui, negli ultimi decenni, si è letto sempre più spesso nella letteratura contemporanea, e ancor di più nella poesia, l’adozione di un lessico bellico, di una terminologia guerresca di resistenza, – perché di guerra variamente declinata si tratta -, per contrastare la narcosi intellettuale causata dalle lusinghe dei finti sorrisi plastificati, dai lustrini e dalle paillette, dai format televisivi in cui sono inclusi i notiziari con cui il potere manipola, fino alla contraffazione, la realtà.  Insomma spetta all’artista il compito di scostare le quinte dorate della finta allegria, che coprono i crolli umani causati da preoccupanti sociopatie al potere e a cui, Guy Debord fa chiaro riferimento: << Lo spettacolo è il brutto sogno della società moderna  incatenata, che infine non esprime che il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il custode di questo sonno >>.

Anche in questo particolare momento, storicamente difficile e individualmente complesso, rimane azione del poeta quello di scontornare da una vetrina abbagliante, le figurette d’argilla del disagio, l’imbroglio nascosto, e dare nome al quel “mal d’essere”, diventato stato d’animo semi permanente, esteso ai rapporti interpersonali, e di connettere le condizioni psicologiche individuali con quelle collettive. Compito dell’artista è sentire i colpi della tachicardia e lo scorrere dell’adrenalina nell’organismo sociale che ormai, da troppo tempo, intossica i corpi umani incapaci, come fanno gli animali, di attaccare o di fuggire almeno per difendersi da un pericolo reso quasi invisibile, rimanendo invece immobili.

In relazione dunque alla poesia, voce potente che nel suo afflato vitale e vitalistico fa  emergere dalle brume dell’omissione,  lo stridore delle contraddizioni di un sistema mortifero,   oltre al libro di Raffaela Fazio che stiamo trattando, tra i primi esempi che mi vengono in mente, ma solo per vicinanza geografica e contemporaneità  esistenziale,  c’è la scrittura di Marzia Spinelli, poetessa in Roma, con il suo libro Trincea di nuvole e d’ombre, (Marco Saya 2019).   Si tratta di una “…metafora potentissima del nostro quotidiano proseguire una guerra logorante di solo apparente avanzamento o arretramento di posizioni.”, ci avvisa Anna Maria Curci, critica letteraria, poeta e traduttrice, in una sua recensione pubblicata su Poetarum Silva.

Ma è anche dalla stessa Anna Maria Curci, con il suo ultimo libro, Nei giorni per versi, (Arcipelago Itaca, 2019), come già si può intuire da ciò che il titolo evoca, e come ben sottolinea Patrizia Sardisco nella prefazione,  si eleva, in modo rigoroso, venato da terapeutica ironia,  una denuncia precisa contro l’attacco, appunto ‘per-verso’, da parte di una patocrazia che avvelena i nostri tempi, inquinando la natura sociale, affettiva ed emotiva, dei rapporti umani, rendendoli, appunto, ‘perversi’  senza trattino, dominati cioè da una abituale disumanità.

Proprio perché, come scrive Raffaela “Devi ascoltare il suono che non generi”, tali osservazioni mi urgevano per tentare di dare voce a un disagio sempre più distopico  che rischia di ammutolirci fino alla malattia, svuotando di senso le parole; ma anche e soprattutto, sempre a proposito di metafore belliche, per introdurre la mia nota critica sul libro di Raffaela Fazio, che porta l’emblematico titolo di  Tropaion, e che non solo ben s’inserisce in questo flusso poetico, ma lo conferma in modo esemplare e lo implementa, con un raro mirabile allure, per contenuto e per forma.

Nella accurata postfazione, Sonia Caporossi ci informa sul significato etimologico e simbolico di ‘Tropaion’, declinandolo nelle varie accezioni, anche cronologicamente intese per le diverse culture, (in latino tropaeum, in greco τρόπαιον), e cioè “monumento che rammenta la sconfitta, la messa in fuga (tropḗ) del nemico”,  ovvero l’oggetto simbolo con cui si accompagna la pratica di un rituale magico, anche di tipo apotropaico, che il vincitore celebra – cioè assume su di sé  in termini di responsabilità che ogni ‘successo’ comporta – come tributo e riconoscimento della sua  vittoria sulla parte avversa.

In altre culture – e più diffusamente, dalle antiche tribù euro-asiatiche a quelle americane e persino europee – lo ‘scalpo’ era il cuoio capelluto strappato dal cranio del nemico vinto (a volte non ancora morto!), poiché si riteneva che quella parte anatomica fosse la sede del coraggio.   Con l’asportazione dello scalpo, con la sua appropriazione ed esibizione pubblica, il trofeo veniva offerto soprattutto  alle divinità amiche che avrebbero dovuto proteggere il vincitore  dalla vendetta dei fantasmi dei nemici provenienti dal regno dei morti. Da questo l’assunzione di responsabilità dei sensi di colpa che ogni ‘uccisione’, spero solo figurata e quindi in qualche modo, simbolicamente elaborata, dovrebbe comportare, salvo sociopatie di carattere psichiatrico che pure caratterizzano il nostro tempo.

Essenziale, per pregnanza simbolica, era il gesto di innalzamento del tropaion, vissuto come un infierire sul vinto ostentandone la sconfitta. In questo caso  l’esibizione pubblica del trofeo assumeva l’ulteriore peso dell’onta da parte di chi aveva perso la battaglia. Tale  gesto aveva una potenza simbolica talmente forte da diventare la causa di un ulteriore inasprimento dei rapporti con il nemico e di una ripresa del combattimento stesso. Tanto è vero che si narra di ulteriori massacri, in alcune battaglie dall’esito incerto, in cui una delle parti, innalzando arbitrariamente il trofeo, si autoproclamava vincitrice, causando così nuovi scontri ancora più rabbiosi e cruenti.

In altri riti tribali, con la stessa funzione catartica e sacrale, si prevedeva lo strappo del cuore dal costato del nemico, associato non di rado ad un atto di cannibalismo, attraverso cui il vincitore ‘introiettava’, con il cuore del vinto,  il suo coraggio e il valore dimostrato  in battaglia, sempre con la medesima funzione di esorcizzare la vendetta del fantasma del morto.

Ma, in merito al concetto stesso di Tropaion, parliamo parimenti di un topos  letterario, poiché il cuore, oltre ad essere pensato come sede del coraggio, si mentalizza, a tutt’oggi,  come domicilio, o addirittura come sorgente da cui nasce l’amore.

Ricordiamo, sempre in ambito letterario, l’episodio del Decamerone del Boccaccio, in cui messer Rossiglione induce la moglie a un atto di cannibalismo involontario, offrendole a sua insaputa come piatto accuratamente cucinato, il cuore dell’amante di lei, ossia di Messer Guardastagno, atto in seguito al quale la moglie, una volta informata della reale origine del cibo appena mangiato, si lancia da una finestra molto alta, suicidandosi: “…E levata in piè, per una finestra la quale dietro a lei era, indietro senza altra diliberazione si lasciò cadere.”

Persino Dante Nella Vita Nova, , tra sogno e visione, attraverso l’ipostatizzazione orrorifica del dio Amore, offre in pasto il suo cuore a una ‘paventosa’ e trasfigurata Beatrice.

In tali riti, e con ragione, c’è chi ravvede in forma laica la celebrazione dell’eucarestia cristiana.

Gianfranco Lauretano, nella sua articolata prefazione, sottolinea quanto questa nuova raccolta della Fazio sia all’insegna della ‘tensione’, essendo essa una poesia del ‘conflitto’, in cui l’aplomb della costruzione controllata dei versi, smussa appena il pathos del  sofisticato dettato poetico di Raffaela. Non si mitigano però le vibrazioni che investono il lettore,  coinvolgendo di molto in termini di compartecipazione  emozionale e  affettiva.

Rimanendo sul piano puramente simbolico, pescando nel lessico della letteratura cavalleresca medioevale, potremmo dire che in Tropaion si duella in  ‘singolar tenzone’ e se il campo di battaglia è, metaforicamente parlando, l’esistenza nella sua interezza, intesa come continuo e durissimo banco di prova nella cui sofferenza siamo irrimediabilmente marchiati, – Lev Tolstoj diceva che l’infelicità è un grande soggetto -, questo ci riporta in modo inevitabile e umano, così come la poesia detta persino nelle sue omissioni e nelle sue pieghe segrete, alla conflittualità dei rapporti interpersonali, tanto più se amorosi: ( ‘Lo senti? C’è un fiato / selvatico, furioso dietro l’arte /di cui si copre /anche il più piccolo segreto  /nell’attimo in cui infine /vuole essere tradito./ […]p.17);  ‘[…] – sul fianco / il marchio arroventato dell’attraversamento.’(p.43).

Tra le varie etimologie, radici e desinenze, suoni e assonanze, s’incontra anche il lemma ‘tropo’, sul cui valore polisemico e simbolico – non solo in relazione al titolo scelto, ma anche per la resa estetica della stessa costruzione poetica -, ben s’incastra con Tropaion,  raccolta rigorosa, asciutta, profonda, addirittura ‘abissale’ in alcuni passi, densa del sapiente uso di figure di significato, – (tropo, appunto, ovvero: tropo /’trɔpo/ s. m., dal lat. tropus, gr. trópos, affine a trépō “volgere; adoperare con altro uso” – qualunque figura retorica di carattere semantico, traslato, metafora, metonimia).

Dicevamo che con Tropaion siamo nel cuore di una competizione bellicosa, pugnace, in cui la locuzione latina ‘ Mors tua vita mea’ sembra esserne la costante rappresentativa,  o la ‘morale’ che si evince, resa ancor più cruda dal distacco formale con cui si esprime, dal calibro pesato e soppesato, adeguatamente bilanciato, attraverso cui il pensiero poetante dell’autrice  diventa materia, corpo, struttura, misura antropometrica, e ancora distacco e distanza per una rielaborazione mentale: operazioni intellettuali che universalizzano la poesia, rendendo possibile lo scatto di valenza simbolica che va dall’autobiografia all’esperienza intellettualmente condivisa, strumenti culturali e  psicologici,  che  tutelano chi poeticamente si esprime praticando le ombre proprie e quelle del proprio tempo,  al fine di conservare integrità mentale ,  o anche solo, come cantava Guccini ne L’Avvelenata, per  ‘mantenersi vivi’.

E, senza scendere dal ring,  la lotta rischia di diventare più cruenta e feroce quando rimane ‘non vista’ , – ci avvisa l’autrice – ma non è dato sapere se la guerra è non vista in quanto non ancora emersa alla coscienza, o perché non apertamente dichiarata dalle ‘parti attrici’,  se mi si consente  un termine un po’ curialesco.

In ogni caso  la scrittura, così forgiata, è in prima istanza autocoscienza e consapevolezza,  e sappiamo bene che il concetto di ‘pax’,  se non concordato alla pari e nell’interesse rispettato delle parti, diventa Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant (dove fanno il deserto, lo chiamano pace), come Tacito, nell’Agricola, fa pronunciare a Calgàco, capo dei Calèdoni, di fronte alle truppe imperialiste dei Romani che, come sappiamo, furono terribili espansionisti, svelando così l’inganno doloso che spesso il potere cela proprio attraverso l’utilizzo ambiguo delle parole, tradendole,   uso, a quanto pare,  rimasto invariato nel millenni di storia che abbiamo attraversato per arrivare fin qui.

Ma, dopo questa prima lettura, sotto la tessitura consunta dagli scontri, sporca di sangue e polvere, lacerata dai colpi subiti, si individua una trama che denuncia un vuoto di fondo, una mancanza, una irriducibile nota nostalgica e mesta, per ciò che non può essere evitato né modificato, il logorio che porta alla stessa morte, per esempio,  che certa e sicura giunge per ognuno di noi, alla fine dell’ultima battaglia.

‘Con lo sguardo/ sulla vena imperfetta / o sul tessuto che si sgrana ci alleniamo / alla Fine che arriva nelle cose…’(p. 65)

Nulla ci è risparmiato, in tal senso, nulla ci ripara da una sofferenza da cui si ha speranza di uscirne – in qualche modo, almeno per un attimo – solo dopo averne bevuto fino in fondo l’amaro calice, nella immutabile luttuosa dimensione esistenziale costituita dalle cose,  ovvero da ‘…un vuoto retroattivo / di bellezza / illecito dolore’  (p.24), e da persone che furono e non sono e non saranno più, a cominciare da noi,  uguali a se stessi.

Una fine dunque, immutata, immutabile e reiterata, di cui la poetessa, consapevolmente,  ne sente tutto il peso esistenziale. Del resto, scrive e descrive Quasimodo nella sua poesia ‘Alle fronde dei salici’, a proposito di guerra: ‘E come potevano noi cantare /con il piede straniero sopra il cuore,/ fra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento / d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero /della madre che andava incontro al figlio /crocifisso sul palo del telegrafo? […]’.  

Dunque, allo stato attuale dei fatti, e torno anche alle premesse iniziali, come possiamo noi poeti ‘cantare’?

E la stessa Raffaela, nella poesia d’apertura della sezione ‘Una battaglia non vista’, parla dei suoi soldati mandati a combattere, in un’inquietante immagine notturna che rimanda, per associazione al ‘Terracotta Army’, ossia a quel complesso di figure  replicanti e somiglianti, – emblematico esempio di ‘arte seriale’ ante litteram, prima delle ventidue Sante dei mosaici bizantini di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (550/600 d.C.), e molto prima di Andy Warhol e della Pop Art – , risalente al 210 a.C. (circa), scoperto nelle camere mortuarie del primo imperatore Qinshihuang, in Cina, costituito da ben ottomila figure verticali.

E la Poetessa, proprio in questo contesto, a proposito di soldati, ci dice che: ‘[…] Sui tuoi nel sonno/ è facile vittoria./ Ma nessuno torna./ Restano là, dentro al silenzio /indistinti, confusi con i vinti:/ lo stesso volto […].

E ancora alla materia “terracotta”, la cui creazione dei manufatti  nella pre e protostoria, dopo la scoperta del fuoco, aveva un valore rituale e sacro, – oggetti testimoni silenti di una nascente ricca complessa cultura umana, sepolti insieme ad antiche spoglie -, oggetti di materia fragile eppure capace di attraversare talvolta indenne i millenni, per arrivare fino a noi,  materia  terragna elevata a simbolo di una materia ancor più fragile, è proprio alla terracotta che Raffaela dedica versi ulteriori: << Sìì tenero / come chi vive / dei suoi frantumi: / dentro il corpo /di terracotta il lume. / Lo si vede / nelle crepe sottili / delle piccole morti / con cui si apre / la notte, l’ascolto.   (p. 51 poesia ‘Terracotta’)

Dunque, di quale battaglia e di quale guerra parliamo, o potremmo parlare per traslato, nello specifico? E se i ‘vincitori’ sono indistinguibili dai ‘vinti’ perché hanno lo stesso volto, chi potrà mai stabilire veramente chi ha vinto e chi ha perso? Chi mai oserà, in questa polvere luttuosa che tutto avvolge,  innalzare il tropaion contro l’altro? E se è la metafora bellica e adattabile anche ad un rapporto amoroso giunto ormai alla fine, quale elemento della duade ha vinto? quale ha perso?

[…] La natura ha bisogno di tensione / tra destini votati  / a una disperata cerimonia. / In eterno si rincorrono gli amanti / nel giardino d’inverno. /[…]

Dunque la metafora marziale può ben descrivere la tensione di coppia non certo esente dai rapporti forza all’interno di una struttura sociale feroce, in cui persino i bisogni primari per la sopravvivenza sono continuamente regolati in base ai rapporti di potere, per caste e dinastie familiari, per sopraffazione del più forte sul più debole.

In tale scenario credo che nessuno possa esibire il simulacro del cadavere dell’altro, perché ognuno dei due amanti porta in sé e  con sé, l’altro introiettato, o per me meglio dire, porta con sé dell’altro, le stesse ombre, scure in caso di conflitto, di un rapporto primigenio non risolto e modellato sull’altro (transfert negativo), ovvero la sua mancanza.

E l’uno diviene ‘altro’ per l’altra, e viceversa, in un gioco speculare, di sovrapposizioni d’immagine e di ruoli, e sempre più labile e contrastato si fa il confine,  il pomerio tracciato, di corpi e pertinenze al punto che tutto è da ridefinire, dopo la fusione-illusione iniziale,  per ricominciare, dopo, a distinguere il ‘mio’ dal ‘tuo’.

Perifrasando Brecht, il ‘nemico’ ci assomiglia  e marcia alla nostra testa, e per questo, alla domanda delle domande: ’Di chi c’innamoriamo, quando c’innamoriamo?’  fondante e di particolare valore di significato rimane l’esortazione delfica del ‘Conosci te stesso’  (greco antico γνῶθι σαυτόν).

Secondo Jung, ogni individuo avrebbe prima di tutto, il dovere di conoscere se stesso, ovvero il suo lato oscuro costituito da quelle parti, quelle schegge vaganti,  che rifiuta di riconoscere come proprie perché troppo dolorose.

Solo attraverso la piena consapevolezza di sé, o meglio, attraverso una consapevolezza possibile,  l’individuo può essere in grado di riconoscere un rapporto sano basato sulla piena accettazione, nel rispetto di sé e dell’altro, da un rapporto manipolatorio inficiato dalle ombre e dai fantasmi delle reciproche proiezioni.  Interessante è sapere che in psicoanalisi il termine Imago non significa ‘immagine’ nell’accezione corrente del termine ma s’intende: ‘‘…‘rappresentazione o immagine inconscia’, l’imago è uno schema immaginario acquisito, un prototipo inconscio che orienta in maniera specifica il modo in cui il soggetto percepisce l’altro, orientandone le proiezioni. L’imago è un cliché statico in una dimensione inconscia e quindi atemporale, attraverso cui il soggetto ‘vede’ e considera l’altro, e su questo cliché, con l’altro, determina la tipologia della relazione.  L’Imago dunque, secondo Jung,  è lo spirito dei genitori (le imago parentali), gli aspetti inconsci rigettati dalla coscienza, cioè elementi estranei e fuori dalla mente. Ciò che nell’infanzia costituiva un’influenza molto reale e importante (le figure genitoriali in tale fase sono preponderanti per lo sviluppo psichico dell’individuo) è, nella fase adulta, relegata nell’inconscio. Dunque sembra che sia proprio questo tipo di imago parentale a determinare inconsciamente, la scelta del partner futuro, per antitesi o per similitudine.

Solo  conoscendo il più possibile quelle parti dolorose che la coscienza, proprio in quanto dolorose,  ‘rifiuta’, si può sperare quindi  nella  realizzazione di una vita degna di essere vissuta per intero, poiché la bellezza, o la felicità,  non è certo nella ‘perfezione’, ma nella completezza di sé.

Conoscere se stesso, se è conoscenza per antonomasia, non è mai una volta per tutte, poiché parliamo di un  processo pressoché inesauribile, lungo quanto la vita stessa che  può metterci di fronte a prove durissime, in un continuo senso di sofferenza e di perdita, in una costante reiterazione tra inizio e fine, di cui non sempre riusciamo a trovarne ragione, – forse perché ragione non c’è -, e la poesia, quando è tale, nella sua dimensione di umana universalità, se ne fa carico dimostrandone la cruda trama, senza nulla concedere,  proprio come avviene nella dolorosa raffinata poesia di Raffaela Fazio, la quale in piena consapevolezza sa bene che in ogni guerra, dichiarata o meno, oltre ogni metafora, le vere vittime, spesso definite come ‘effetti collaterali’, l’inevitabile ‘prezzo pagato’, in primis sono i bambini. Ai figli è infatti dedicata la sezione denominata ‘Avanguardia’,  che si chiude con una poesia ispirata a (da) una scultura di Giovanni Prini, del 1902,  dal titolo L’erba morta, la falce e i bimbi, in cui la competizione degli apparenti ossimori, la lotta tra la vita e la morte, onnipresente e oscura come un’ombra apparentemente eludibile, assume i contorni di una naturale leggerezza che solo all’innocenza è data. È l’avvicendarsi naturale delle stagioni, anche metaforicamente intese come alternanza generazionale,  vita-morte-vita.

Senza vincitori, né sconfitti.

Dall’alto del colle

Il tonfo
dei disarcionati
lo schianto dei vessilli
il cozzo di corazze
tra il crepitio degli elmi
è questo, appena:
un tremito di terra sotto i palmi.

Da qui
null’altro si distingue
che un fiacco balenio.

Tra il fondo della valle
e la ventosa cima del pendio
quale distanza?
Non si misura in ore
di cammino o in dislivelli
ma in una sola cosa:

la vista
non teme più lo spazio

e coglie all’improvviso
il senso della luce:
la mano si disserra
˗ in punta al giavellotto
un nuovo inizio, un lancio
che mi scaglia.

Mi tendo e vibro (sospesa
felice traiettoria di un pensiero)

e non atterro.

 

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