“Fiori estinti” di Mattia Tarantino – Nota di Filomena Ciavarella

I versi di Mattia Tarantino sono fiori estinti, scoppiano nell’oblio con saette di luce, di morte, di vita. Scendono fino a dentro le ossa inchiodate alle stelle. C’è una un dolore interno che riverbera in un impeto poetico, ricorda l’ideologia di fuoco di Rimbaud. Sono versi che sanno andare oltre i grafemi, rievocano “la stirpe profana”. È pane vomitato sulla croce. C’è un flusso onirico potente, dionisiaco, che dà alla luce parole di carne che arrivano nell’inarrivabile. La natura trabocca di papaveri rossi, dove scorre vino, latte. È una poesia visionaria. C’è il distacco dal verme gemello della madre, un freddo distacco dal mondo per proteggersi dall’empatia profonda con esso.
C’è il desiderio di disvelare dall’oblio da chi e quando venne concepita la nostra sembianza. La carne e l’angelo sono una unità diveniente, indifferenziata che non dobbiamo separare, ma unificare per ritornare alla bellezza primordiale, infranta e divisa. Riverbera in questi versi, con uno slancio poetico forte e nuovo, Dylan Thomas, ma lui lo fa proprio, lo riscrive perché lo sente suo. Sembra quasi che abbia la spina nelle carni di Kierkegaard, l’inquietudine che strazia, divora il suo giovanissimo volo. Affiora l’essere invisibile, rivelato di Heidegger. Il linguaggio si fa dimora dell’essere. I suoi versi dettano il dolore, cuciono il mal di vivere. In alcuni istanti sembrano danzare come i piedi di Zaratustra, sui fiori del male, oltre il cerchio. Sa Recidere il papiro e la rosa, va oltre se stesso. Alla sua giovane età ha la dimensione visionaria e spezza il volo dell’allodola, come Pasolini, con una potenza che ha una chiarità filosofica. Indaga sulle sue origini, immaginando la notte i cui è venuto al mondo. Immagina la sua nascita, quando angeli ebbri e cavalli assalirono sua madre. Fra croci marce e fiorellini si rivelano ferite e salvezza. Le stelle indicano la direzione e nello stesso tempo dilaniano. Uno squarcio di cielo ci accoglie e ci tiene nel dolore. Sembra “Il poema Freddo” di Chi Trung. La salvezza giace in un chicco di riso semplicissimo, è il ponte verso il cielo dove si compie il salto. Il poeta invoca l’allodola per salvare i suoi versi che bruciano nella carne. In ” Da Sud. Dieci canti di riscossa” il baratro si apre fra le suole e la soglia, si fa vertigine nella luce. In questi brandelli impara il poeta l’alfabeto dell’amore. La madre raccoglie, inghiotte i fiori, poi li rimette nelle vene per cantare una rondine e un fiore, per ricomporre il grafema dilaniato dell’amore. Cerca un distico che limiti i suoi versi e li sbaragli oltre il taglio della discordia di Ponente.
Mattia Tarantino è un giovane poeta dalle suole ventose, i suoi versi hanno valore: leggeteli

 

 

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